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Dante Alighieri

La Divina Commedia - Paradiso


(Sintesi parziale)

CANTO I


La gloria del Creatore dell'Universo (Colui che tutto move) penetra ovunque ma il Cielo Empireo è il luogo che riceve al sommo grado la luce divina. Dante lo visitò ma descriverlo è impresa che trascende le possibilità della memoria e della parola. Sarà quindi materia della cantica che qui si apre quanto del regno santo il Poeta potrà ricordare. Se in precedenza aveva chiesto aiuto alle Muse, ora si rivolge direttamente ad Apollo, qui identificato con la stessa arte poetica, perché "entri nel suo petto" e lo assista in quest'ultima parte del lavoro.
L'ascesa al cielo ha inizio nel meriggio dell'equinozio di primavera, come Dante indica con complessi riferimenti astronomici. Beatrice sta fissando il sole e Dante la imita: nel Paradiso terrestre sono infatti possibili cose che in terra la natura umana non consentirebbe. La sua vista non può tollerare lo splendore solare molto a lungo, ma abbastanza perché il Poeta noti l'eccezionale luminosità del cielo, l'intensità della luce che pare raddoppiata come se Dio avesse aggiunto al cielo un altro sole.
L'esperienza di sollevarsi verso il cielo e le percezioni uditive e visive mai prima provate eccitano l'intelletto di Dante che vorrebbe una spiegazione razionale a quanto sta accadendo. Beatrice, prima che il suo compagno le rivolga domande, lo esorte ad abbandonare il suo dubbio: egli non si trova più in terra ma sta procedendo verso il cielo con la velocità della folgore. Dante vuole tuttavia investigare come gli sia possibile attraversare gli "elementi lievi" mentre è ancora nel suo corpo materiale, dotato di un peso e di una consistenza. Beatrice sospira e spiega l'ordine dell'universo: l'insieme delle cose create costituisce un tutto armanico, in un ordine universale imposto da Dio.
In questo ordine le creature di intelletto superiore riconoscono la sapienza divina, alla quale ogni creatura tende ad avvicinarsi, ciascuna sollecitata dalla sua specifica natura e condizione. Questo ordine spinge il fuoco verso l'alto, regola le funzioni vitali degli esseri irrazionali, tiene unita la terra tramite la legge di gravità, ma indirizza anche le creature razionali e dotate di volontà (c'hanno intelletto e amore). La provvidenza, che dispone questo ordine universale, rende quieto l'Empireo ed ora è lì che il decreto divino sta portando Dante, al fine ultimo di beatitudine al quale l'uomo tende naturalmente.
E' vero, ammette Beatrice, che le creature che hanno la facoltà di farlo a volte si allontanano da questo fine, da questa naturale inclinazione alla beatitudine così come a volte l'opera d'arte si allontana dalle intenzioni del suo artefice per gli ostacoli posti dalla materia impiegata. Ma Dante non si deve stupire della sua ascesa come non si stupirebbe di veder scorrere un fiume verso il basso: meraviglia sarebbe se rimanesse sulla terra ora che si è liberato da tutti gli impedimenti del peccato.
Conclusa la sua spiegazione Beatrice torna a rivolgere lo sguardo al cielo.


Personaggi citati:
  • Apollo
  • Muse
  • Marsia
  • Beatrice
  • Glauco

    CANTO II


    Il lettore viene ammonito a tener presente le dificoltà della materia che verrà trattata in questa cantica. Dante sta per affrontare un'impresa mai tentata con il soccorso della sapienza (Minerva), della poesia (Apollo) e della tecnica artistica (le Muse). Non tutti potranno seguirlo ma solo quei pochi che da sempre aspirano a cibarsi del pane degli angeli, cioè della conoscenza.

    Personaggi citati:
  • Minerva
  • Apollo
  • Muse
  • Giasone
  • Caino
  • Beatrice

    CANTO III


    Gli spiriti che Dante incontra nel cielo della Luna godono del minore fra tutti i gradi della beatitudine perché i voti da loro promessi rimasero in tutto o in parte inosservati.
    Appaiono al Poeta come immagini specchiate in un vetro lucido, diafane ed indefinite tanto che Dante si volge a cercare con lo sguardo le persone di cui crede di vedere soltanto un riflesso.
  • Beatrice lo avverte sorridendo dell'errore e lo invita a dialogare con quelle anime. Fra di loro è Piccarda Donati, sorella di Forese e Corso Donati, che entrata in monastero ne fu strappata dal fratello Corso per contrarre un matrimonio politico.
    Vedendola particolarmente desiderosa di parlare Dante le chiede il nome. La prima parte della risposta di Piccarda contiene una complessa spiegazione dottrinale:
    - Piccarda stessa e quanti sono con lei sono stati inadempienti rispetto ad un voto espresso in vita,
    - il grado di beatitudine di cui godono è per questo diminuito, ma loro non desiderano essere altrimenti perché un simile desiderio, non essendo concorde alla volontà di Dio, non può nascere in Paradiso,
    - ogni luogo del Paradiso è luogo di piena beatitudine ma la grazia divina è distribuita diversamente a seconda del percorso umano degli spiriti.

    Chiusa la parentesi didascalica con soddisfazione del suo desiderio di apprendere, Dante vuole conoscere di più sulle vicende di Piccarda e sulle circostanze che le impedirono di rispettare il proprio voto. Alludendo a Santa Chiara ed alla sua "perfetta vita", Piccarda ricorda che aderì all'ordine della Santa ancora giovinetta, fuggendo dal mondo.
    Quanto alla triste vicenda del suo rapimento dal convento ed alle sue successive, dolorose traversie, Piccarda pronuncia solo tre versi tacendo i nomi degli esecutori materiali e dei mandanti della violenza subita e sorvolando sulla sua sofferenza, nota solo a Dio. E' un passo di grande drammaticità ma le parole di Piccarda, pur velate di profonda malinconia, denotano tutta la serenità di uno spirito in pace, ormai lontano da ogni rivendicazione e da ogni rancore.
    Piccarda indica quindi a Dante un altro spirito dalla sorte simile alla sua, si tratta di Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II d'Altavilla e moglie di Enrico VI per sposare il quale (secondo una leggenda che Dante dimostra di accogliere almeno parzialmente) sarebbe stata tolta a forza dal convento. Dola matrimonio di Costanza con Enrico VI nacque Federico II.
    Pur tornata nel mondo contro la propria volontà, Costanza continuò sempre ad avvertire nel cuore il richiamo della propria vocazione.
    Infine lo spirito di Piccarda si dilegua e Dante si rivolge a Beatrice ma non riuscendo a sostenere lo splendore del suo aspetto esita nel porle le domande che pronuncerà nel canto successivo.

    Personaggi citati:
  • Beatrice
  • Piccarda Donati
  • Costanza d'Altavilla



    CANTO IV


    In preparazione


    Personaggi citati:
  • Daniele
  • Nabucodonosor
  • Mosè
  • Samuele
  • Giovanni Battista
  • Giovanni Evangelista
  • Maria
  • Gabriele
  • Michele
  • Tobia
  • Raffaele
  • Timeo
  • Giove
  • Marte
  • San Lorenzo
  • Muzio Scevola
  • Piccarda
  • Costanza
  • Alcmeone
    CANTO XI


    Il canto si apre con un'amara considerazione sulla vanità della cure umane e sulla falsità dei ragionamenti (difettivi sillogismi) che tengono l'uomo avvinto alle passioni terrene.
    Liberato da queste bassezze ed accolto in Paradiso ora Dante riesce a vederle con il dovuto distacco.
    E' con lui in questo canto San Tommaso d'Aquino, già incontrato nel canto precedente. Ci troviamo infatti nel quarto cielo, quello del Sole, il luogo ove appaiono al visitatore gli spiriti sapienti.
    Tommaso ha compreso che le parole da lui pronunciate nel decimo canto contenevano dei punti oscuri e si accinge a spiegare. La provvidenza divina, undici secoli dopo la morte di Cristo, ha voluto mandare al mondo due campioni che fossero nuove guide per la Chiesa tramite la carità e la sapienza.
    Si tratta di San Francesco di Assisi e di San Domenico di Guzman, rispettivamente fondatori dell'ordine francescano e domenicano. Secondo una tradizione in vigore all'epoca nell'ambiente monastico, Tommaso d'Aquino, domenicano, pronuncia in questo campo l'elogio di Francesco mentre le lodi di Domenico saranno tessute nel canto successivo dal francescano Bonaventura da Bagnoregio.
    Il discorso di Tommaso su Francesco, in stile retorico molto alto, si compone di tre parti: un preludio che serve a descrivere i luoghi in cui nacque e visse Francesco, il racconto biografico vero e proprio, la critica ai suoi prosecutori che hanno perso di vista il significato dei suoi insegnamenti.
    La posizione geografica di Assisi è l'oggetto della prima parte: fra due fiumi (Topino e Chiascio), sul fianco del monte Subasio, non lontano da Perugia.
    Qui "nacque al mondo un sole", così luminoso che sarebbe giusto chiamare "oriente" la stessa Assisi.
    Ancora giovanissimo sposò la povertà rinunciando ad ogni ricchezza contro la volontà del padre.
    L'amore di Francesco per la sua "sposa" fu tanto forte e puro da coinvolgere i primi seguaci, Bernardo da Quintavalle, Egidio e Silvestro di Assisi, che per seguirlo rinunciarono a tutto.
    L'essere figlio di un semplice mercante ed il suo umile aspetto non furono di ostacolo per Francesco quando si presentò ad Innocenzo III e lo convinse ad approvare la sua regola, approvazione in seguito confermata e resa ufficiale da una bolla di Onorio III. Ma la conferma più importante la ricevette da Cristo con le stigmate apparse quando il santo si ritirò alla Verna dopo aver predicato in oriente davanti al Sultano.
    Quando fu chiamato in cielo per ricevere la ricompensa della vita eterna, rancesco volle che il suo corpo nudo fosse sepolto nella nuda terra.
    Infine Tommaso parla del gregge dei seguaci di Francesco che si è ormai disperso a causa del desiderio dei beni mondani, così lontano dallo spirito del fondatore. Esistono, precisa l'Aquinate, alcuni frati ancora fedeli alla regola ma sono così rari che a vestirli basterebbe "poco panno".
    Ed ecco spigata, conclude l'oratore, l'oscura frase del campo precedente: U' ben s'impingua, se non si vaneggia, riterita al nutrimento spirituale che si può ricevere se non si segue la vanità.

    CANTO XV


    Nel cielo di Marte, il quinto, compaiono a Dante gli spiriti militanti, vissuti e morti combattendo per la fede.
    Il loro aspetto è quello di gemme che danzano in una croce luminosa.
    Per lasciare che Dante possa esprimere il suo desiderio di conoscerle, le anime si fermano ed interrompono il loro canto. Una di esse lascia la croce luminosa per avvicinarsi rapidamente al visitatore e salutarlo con una solenne locuzione latina.
    E' Cacciaguida, antenato di Dante, che accoglie affettuosamente il pronipote ringraziando la volontà divina che permette quello straordinario pellegrinaggio. L'episodio, come Dante stesso sottolinea, vuore ricordare l'incontro fra Enea con l'ombra di Anchise nei Campi Elisi descritto nel sesto canto dell'Eneide. A rafforzare questa analogia concorrone le espressioni latine di Cacciaguida e, in generale, il suo atteggiamento paterno e commosso.
    Dopo aver salutato Dante, lo spirito esprime concetti troppo difficili per la mente di un mortale, quindi passa ad esprimere la propria gratitudine a Dio.
    Al Poeta che esite nel chiedere spiegazioni, Cacciaguida rivolge l'esortazione benevola a domandare senza timore e Dante, confortato anche dal sorriso tenero e divertito di Beatrice, finalmente chiede al suo interlocutore di svelare la propria identità.
    "Io fui la tua radice", risponde Cacciaguida e spiega che il primo Alighiero che da oltre un secolo sta scontando la superbia in Purgatorio, fu suo figlio.
    Ha inizio qui la rievocazione della Firenze dei tempi di Cacciaguida, una sorta di città ideale dove la virtù e la semplicità della vita erano la realtà quotidiana, una città ben diversa da quella del trecento, molto più grande e ricca ma corrotta dal peccato e devastata dall'odio di parte.
    In questa Firenze Cacciaguida era nato, aveva ricevuto il battesimo in San Giovanni ed aveva sposato una donna della Val Padana dalla quale era derivato il cognome degli Alighieri.
    Arruolatosi nell'esercito dell'imperatore Corrado III, partecipò alla seconda crociata e vi perse la vita combattendo per la fede. Fu assunto direttamente in Paradiso.

    CANTO XXII


    Turbato dall'invettiva di san Pier Damiani contro la corruzione e la superbia dei cardinali e dal grido corale delle anime che esprimevano la loro approvazinoe, Dante cerca conforto nella sua guida che lo rassicura: egli è in cielo dove tutto è giusto e santo, anche lo sdegno, i rimproveri, la condanna del peccato; le parole che Dante ha appena ascoltato erano una preghiera rivolta alla giustizia divina che infatti interverrà prima che il poeta muoia.
    Il canto si svolge nel settimo cielo, o cielo di Saturno, governato dai Troni nel quale Dante incontra gli spiriti contemplanti.
    Fra loro è san Benedetto da Norcia che, staccandosi dagli altri, si avvicina avvolto nella luce. Il santo si presenta come colui che per primo portò la parola del Signore nella regione di Montecassino ed indica altri asceti che si trovano con lui: Macario di Alessandria (iniziatore del monachesimo orientale), Romoaldo degli Onesti (fondatore dell'ordine dei Camaldolesi) ed i monaci compagni dello stesso Benedetto che rimasero fedeli alla sua regola.
    Incoraggiato dalla benignità di Benedetto, Dante esprime il desiderio di vederlo senza l'involucro luminoso che avvolge e confonde la sua immagine, ma il santo risponde che questo ed ogni altro legittimo desiderio saranno esauditi nella quiete perfetta dell'Empireo.
    Nell'Empireo, infatti, ogni "disianza" è perfetta, matura e intera, cioè completa, pronta per essere soddisfatta e priva di difetto. Nella perfezione della completa beatitudine sarà quindi esaudita.
    Riprendendo il tema del'allontanarsi degli ordini sacerdotali dall'osservanza delle regole, tema già trattato da san Tommaso e da san Bonaventura, Benedetto parla dell'ordine da lui costituito che si è tanto fuorviato dai suoi insegnamenti che continuare a trascrivere la regola è ormai solo uno spreco di carta. I conventi dei Benedettini sono divenute spelonche (probabile riferimento alla spelunca latronum in cui Cristo nei Vangeli dice di veder trasformato il Tempio), le loro tonache sono sacchi di fariba avariata. Ma la colpa più grave è l'abuso di quei beni materiali che la Chiesa dovrebbe destinare ai bisognosi.
    Dopo aver espresso il duo biasimo per la corruzione dell'ordine, Benedetto torna ad unirsi agli altri beati mentre per Dante è giunto il momento di salire la scala verso il cielo delle stelle fisse. Beatrice lo esorta a farlo e la salita è rapida come il gesto con cui il lettore potrebbe ritrarre un dito dal fuoco.
    Dante si trova nel cielo dei Gemelli, corrispondente al suo segno zodiacale in quanto il sole si trovava nei Gemelli quando egli respirò per la prima volta "l'aere tosco". Se ne ricava un'indicazione biografica: Dante nacque fra il 21 maggio e il 21 giugno.
    Questa circostanza è occasione per Dante per ringraziare la divina provvidenza per la vocazione ed il talento donatigli.
    Beatrice esorta il suo assistito ad osservare dall'alto del cielo delle stelle fisse il cammino percorso ed egli guarda le "sette spere" già visitate, sorridendo per il "vil sembiante" della Terra, l'"aiuola che ci da tanto feroci", e contemplati ancora una volta la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Giove, Marte e Saturno, volge lo sguardo agli occhi belli della sua guifa che ormai rappresentano la spiritualità sublime raggiunta nel completo distacco dalle cose materiali.

    CANTO XXXIII


    L'ultimo canto della Divina Commedia si apre con una preghiera a Maria pronunciata da San Bernardo.
    Le prime sette terzine della preghiera celebrano le virtù della Madonna, iniziando con le antitesi "Vergine Madre" e "figlia del tuo figlio" e culminando nell'elogio "in te s'aduna quantunque in creatura è di bontade" che riassume i versi precedenti attribuendo alla Vergine il possedere tutte le virtù.
    Nella seconda parte dell'orazione Bernardo chiede a Maria di intercedere perché Dante possa "con li occhi levarsi verso l'ultima salute", cioè possa riuscire a contemplare la perfetta beatitudine con l'aiuto della grazia divina e possa, dopo la visione, conservarsi puro senza più ricadere nel peccato.
    Maria accoglie benevolmente la preghiera e rivolge lo sguardo a Dio come Lei sola può fare.
    Sorridendo, Bernardo fa cenno a Dante di guardare verso l'alto ma il poeta sta già osservando la luce, mentre il suo sguardo si fa sempre più puro.
    Ha qui inizio la narrazione dell'ultima visione di Dante, la più sublime in quanto contemplazione diretta di Dio. In più punti il poeta insiste sull'ineguatezza di ogni linguaggio umano nel descrivere l'esperienza mistica e l'incapacità della mente di mantenerne memoria, se non come il ricordo di un sogno che ha lasciato nel cuore i segni di emozioni profonde senza che la mente possa rievocarne compiutamente le immagini.
    La luce divina, contrariamente a quella solare, acuisce la vista invece di abbagliarla e Dante ricorda che, trovato per grazia divina il coraggio di fissarla, vide che tutto ciò che è disperso nell'universo vi era riunito, come rilegato in sun solo volume.
    Tutte le sostanze e gli accidenti, scrive il poeta utilizzando termini tipici della dottrina aristotelica e della scolastica, vi erano riuniti, insieme alle loro caratteristiche ed alle loro naturali relazioni in un modo indescrivibile di cui egli può fornire al lettore soltanto un barlume.
    Insistendo sull'impossibilità di ricordare in dettaglio l'esperienza trascendentale, Dante afferma che un solo attimo (trascorso dopo l'esperienza stessa) gli ha procurato un oblio più profondo di quanto avrebbero potuto fare i venticinque secoli che lo separano dall'impresa degli Argonauti. Rimane tuttavia nella coscienza un senso di ineffabile serenità a testimoniare di aver raggiunto la visione universale.
    Incapace di distogliere lo sguardo, Dante continua a fissarlo nella sorgente di quella luce fino a distinguere tre cerchi luminosi di differenti colori. I primi due si riflettono l'un l'altro e la loro luce sembra generare quella del terzo.
    Sottolineando ancora una volta la pochezza delle parole rispetto al concetto che vorrebbero esprimere, Dante parla di una figura umana visibile all'interno del secondo cerchio ma il sovrapporsi di queste immagini, nonostante tutta la sua concentrazione ed il suo desiderio di comprendere, rimane inesplicabile e non potrà essere del tutto chiarito, come avviene in geometria per la quadratura del cerchio.
    Improvvisamente la mente di Dante è colpita da un fulgore: è l'illuminazione sublime che gli fa comprendere il significato dei misteri che contempla.
    E' un istante, fulmineo. All'immaginazione mancano le forze ed il desiderio di sapere, la volontà si volgono altrove come seguendo il moto uniforme di una ruota.
    A distogliere la mente del poeta dall'attimo di sublime illuminazione che gli è concesso è Dio: l'Amor che muove il sole e l'altre stelle.