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MARCO TULLIO CICERONE

IN DIFESA DI MARCO CELIO


Marco Celio era stato accusato di complicità con Catilina e di aver partecipato ad atti di violenza contro gli ambasciatori di Tolomeo XII Aulete. Inoltre la sua ex amante Clodia lo accusava di aver tentato di avvelenarla.
L'orazione ciceroniana fu pronunciata nel 56 a.C., fra il 4 ed il 10 di aprile, mentre a Roma si svolgevano i Ludi Megalenses in onore della dea Cibele.
Gli accusatori sono Lucio Sempronio Atratino, Lucio Erennio Balbo ed un Publio Clodio non altrimenti noto, probabilmente un liberto di Clodia. Il collegio di difesa è formato dallo stesso Marco Celio, da Marco Licinio Crasso e, ovviamente, da Cicerone.


Il processo si svolge in un giorno di festa, i Romani sono tutti a divertirsi o a riposare nelle case. Il tribunale sarebbe vuoto senza la causa che con procedura speciale si tiene durante la festività per giudicare Marco Celio. Cicerone apre la sua orazione sottolineando ironicamente queste circostanze e chiedendosi che cosa ne penserebbe un viaggiatore straniero che per avventura si trovasse a visitare quel luogo, si chiede quale eccezionale gravità attribuirebbe a quel processo l'ignaro passante. E certamente se venisse a conoscenza della vera natura del processo compatirebbe i giudici per il loro eccesso di zelo.
Le accuse mosse dal giovane Lucio Sempronio Atratino riguardano lo stile di vita di Celio: gli si rimprovera di non meritare il rispetto dei suoi concittadini (Celio proveniva probabilmente da Interamnia = Teramo) e soprattutto di avere costumi licenziosi.
Con estrema abilità Cicerone capovolge la prima accusa e riesce a sostenere che si è accusato Celio di non avere mezzi e condizione sociale adeguati al suo modo di vivere e non viceversa, cioè di essere soltanto il figlio di un cavaliere. Posta in questi termini la questione diventa un'offesa non solo per l'anziano padre di Celio (personaggio altrimenti ignoto) di cui era noto a tutti il decoro, ma anche per molti giudici e per lo stesso Cicerone, tutti di classe equestre.
Per l'opinione che i concittadini hanno di Celio, Cicerone parla di cariche pubbliche delle quali il giovane era stato insignito senza averle richieste e della rispettabilissima delegazione venuta a Roma per assistere al processo e per pronunciare in tribunale un elogio di Celio. Quanto alle accuse di offesa al pudore si tratta, sostiene l'oratore, di pura maldicenza priva del sostegno di prove e testimoni.
Cicerone rimprovera la controparte di aver affidato questo delicato argomento al più giovane degli accusatori, Lucio Sempronio Atratino, mettendolo in imbarazzo e loda lo stesso Atratino per il pudore con il quale ha pronunciato lo scabroso discorso. Del resto Cicerone è stato maestro di Celio insieme a Crasso e quindi può personalmente garantire la serietà e la moralità del suo cliente.
Celio era accusato anche di intimità con Catilina ma Cicerone può testimoniare che negli anni in cui Catilina aveva iniziato la sua attività politica e tentato di raggiungere il consolato (66 a.C. - 64 a.C.) Celio non lo frequentava e comunque era troppo giovane per essere coinvolto, negli anni successivi - ammette l'oratore - Celio conobbe Catilina ed intrattenne con lui rapporti amichevoli ma questo si sarebbe potuto dire di moltissimi cittadini perché Catilina, a prescindere dai suoi vizi e dai suoi crimini, era stato un uomo affascinante che sapeva come coltivare le amicizie. Non sarebbe quindi giusto che un'amicizia che molti potrebbero riconoscere di aver condiviso divenga per il solo Celio un atto di accusa.
Inoltre se Celio avesse partecipato alla congiura di Catilina o ad altre illecite associazioni coinvolte nei brogli elettorali, come i suoi avversari hanno insinuato senza la dovuta chiarezza, non sarebbe stato tanto insensato da denunciare per gli stessi reati altre persone come invece aveva fatto più volte negli anni precedenti.
Sull'addebitare a Celio un tenore di vita troppo alto Cicerone nota che la sostanza dell'accusa si riduce all'aver Celio affittato una casa nei pressi del Foro, cosa assolutamente normale per un avvocato quale Celio era diventato dopo aver completato gli studi.
Fra i molti argomenti degli accusatori era un'aggressione compiuta di notte da Celio ai danni di alcune matrone che stavano tornando a casa da un banchetto, ma Cicerone si chiede come mai i mariti di quelle signore non abbiano reagito subito denunciando Celio o almeno affrontandolo privatamente e conclude che basti questa considerazione a dimostrare l'infondatezza dell'accusa.
Celio veniva accusato anche di aver partecipato ad un tumulto a Napoli che si era concluso con la cacciata degli ambasciatori del re Tolomeo e con l'uccisione di uno di essi, Dione. Ma Tolomeo aveva già riconosciuto di essere il mandante di questo delitto e una delle persone coinvolte e sospettate era già stata processata e, difesa dallo stesso Cicerone, assolta.
L'accusatore Lucio Erennio, da parte sua, aveva tenuto una lunga orazione sui vizi, gli sperperi e la dissolutezza di Celio ma senza esibire prove e testimoni e senza potersi riferire ad episodi specifici. In altre parole aveva parlato a lungo dei cattivi costumi dei giovani Romani in generale augurandosi che la suggestione così creata in tribunale andasse a scapito dell'imputato.
Escluse tutte le altre imputazioni in quanto vane maldicenze senza fondamento, Cicerone dichiara di volersi occupare dei due autentici capi d'accusa: l'oro e il veleno. L'oro è quello che Celio avrebbe ricevuto in prestito da Clodia, in via informale, senza ricevute e senza scadenze, il veleno è quello con cui lo stesso Celio avrebbe tentato di sopprimere Clodia per liberarsi di lei o del debito che aveva contratto.
Da questo punto in poi l'oratore passa ad un registro più vivace, molto satirico e derisorio, a tratti caustico verso la famosa matrona. Davanti al presidente del tribunale e agli altri giudici, l'Arpinate si concede di imitare spiritosamente Appio Claudio Cieco, antenato di Clodia, evocato per redarguire con la durezza dei tempi arcaici la sua discendente troppo licenziosa e dimentica delle caste donne della casata, come Quinta Claudia o la Claudia vestale ed anche del suo defunto marito Quinto Metello, noto a tutti per dignità e decoro.
Con sarcasmo Cicerone allude alla relazione incestuosa di Clodia con il fratello Publio Clodio Pulcro (uno scandalo che era sulla bocca di tutti) e la accusa di essere una prostituta che è arrivata a possedere un giardino sul Tevere per poter scegliere ogni giorno un nuovo amante fra i giovani che andavano a bagnarsi nel fiume.
La logica di Cicerone è inesorabile: o Clodia confermerà di aver circuito e sedotto il giovane Celio dimostrandosi donna priva di serietà ed indegna di essere creduta, oppure dovrà ritirare tutte le accuse liberando l'imputato da ogni responsabilità.
Quanto a Celio, Cicerone non nega che possa aver avuto una relazione con Clodia - non sarebbe certo stato il solo a Roma - ma sostiene che il cedere alle profferte di una simile meretrice, soprattutto per un uomo ancora molto giovane, non può certamente essere considerato un crimine. Sono molti e molti furono in passato i casi di uomini che dopo una giovinezza movimentata e dedita al piacere, placati gli istinti giovanili, sono diventati personaggi eminenti e serissimi nella maturità. Ma Marco Celio è stato serio anche da giovane, non ha mai contratto debiti, non ha mai perso il suo tempo con storie galanti come dimostra la sua preparazione culturale e forense conseguita attraverso studi severissimi che non avrebbe certo potuto completare dedicandosi ai divertimenti ed alla lussuria.
Del resto un giovanotto che si accompagni ad una donna senza marito che si comporta in pubblico come una sfrontata meretrice non può essere definito un adultero nè si potrà dire che attenti al pudore di lei. Cicerone si rivolge a Clodia per chiedergli sarcasticamente quale difesa preferisce che venga pronunciata per l'imputato: se lei si professa donna pudica ed onesta di dovrà escludere che Marco possa aver avuto una relazione con lei, nel caso contrario Marco sarà giustificato dai facili costumi della donna.
Solo a questo punto dell'orazione Cicerone, sicuro di aver smantellato le accuse minori inizia l'esposizione dei fatti (narratio) relativi alle due principali imputazioni mosse da Clodia: essersi impadronito dell'oro di lei ed aver tentato di ucciderla.
Gli accusatori sostenevano che Celio aveva preso l'oro per consegnarlo ai servi di Lucio Lucceio, che ospitava nella sua casa l'ambasciatore Dione, perché uccidessero quest'ultimo. Ma se Celio e Clodia erano così intimi come sostiene l'accusa, soprattutto se Celio era così smodatamente voglioso delle grazie di lei, le ha sicuramente confidato a quale scopo intendeva destinare quell'oro, se invece quest'intimità e questa relazione non esistevano Celio non aveva possibilità di rivolgersi a Clodia e Clodia non aveva motivo per prestare l'oro a Celio. Quindi, se è vero quanto sostiene l'accusa, allora Clodia è stata complice di Celio.
L'accusa non ha fornito nessuna prova che Celio sia il mandante dell'assassinio dell'ambasciatore, non ha saputo precisare quando, dove e tramite chi Celio avrebbe preso contatti con i servi di Lucceio e li avrebbe pagati. Al contrario Cicerone dispone della testimonianza di un uomo onesto ed affidabile come Lucceio, una testimonianza scritta e giurata che scagiona completamente l'imputato e della quale viene data lettura di fronte ai giudici.
Quanto ai tentativi di uccidere Clodia, secondo Cicerone manca il movente. Per non restituirle l'oro? ma non è provato che Clodia glielo abbia dato (e se glielo ha dato lo ha fatto in circostanze nelle quali non avrebbe potuto esigerne la restituzione con eccessiva insistenza). Se invece si vuole presumere che Celio volesse uccidere Clodia per nascondere il delitto dell'ambasciatore si deve tener conto che nessuno ne aveva mai accusato Celio e questi a sua volta non avrebbe mai tratto in giudizio Calpurnio Bestia, padre dell'accusatore Atratino.
Anche in questo caso l'accusa non sa indicare i complici, gli esecutori materiali del tentato assassinio, ma certamente Celio è troppo intelligente per aver rischiato di coinvolgere gli schiavi di Clodia, avrebbe rischiato troppo data la familiarità che questi servi dovevano avere con la padrona. Cicerone ricorda la morte improvvisa di Quinto Metello Celere, l'agonia alla quale aveva assistito, e senza fare accuse dirette lascia in sospeso l'allusione alla possibilità che proprio Clodia, che osa parlare di veneficio, abbia eliminato il marito con lo stesso metodo.
Gli accusatori hanno parlato di una storia inverosimile: Celio avrebbe dato il veleno (non si sa come e da chi preparato) ad un suo amico che a sua volta lo avrebbe dato agli schiavi di Clodia incontrandoli alle terme. Gli schiavi avrebbero svelato il progetto a Clodia che avrebbe mandato i suoi amici alle terme per testimoniare la consegna del veleno. Cicerone descrive con arguzia i personaggi togati che saltano fuori dal loro nascondiglio nei bagni al momento opportuno, e comunque questi testimoni non sono stati prodotti dall'accusa.
L'oratore ha concluso la trattazione della causa, si rivolge ai giudici sottolineando la loro responsablità nel giudicare di un'accusa di violenza e riepiloga con poche frasi la vita dell'imputato, i seri studi giovanili, la militanza in Africa al seguito del proconsole Quinto Pompeo Rufo, la sua bella carriera di giovane avvocato.
L'unico episodio discutibile della vita di Celio è stata la sua relazione con Clodia dalla quale presto si liberò allontanando da se ogni sospetto di ignavia e dissolutezza. L'Arpinate esorta i giudici a salvare la vita e l'onore di quel giovane tanto promettente per il quale egli stesso si fa personalmente garante.
I giudici non potranno tollerare che nella stessa città dove per intercessione di Clodia è stato recentemente assolto Sesto Clelio, braccio destro di Clodio, sobillatore di disordini ed autore di molte nefandezze, per accusa della stessa meretrice venga condannato un uomo retto e capace come Celio.
Dovranno pensare alla giovinezza dell'imputato ma anche alla vecchiaia del padre che ha in quell'unico figlio il solo aiuto e la sola consolazione che gli rimangano.
Se i giudici conserveranno la vita di Celio per i suoi cari, per i suoi amici e per la repubblica - conclude Cicerone - ne ricaveranno i frutti più ricchi e durevoli.