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EDWARD GIBBON

STORIA DEL DECLINO E CADUTA DELL'IMPERO ROMANO


Capitolo I


Estensione e forza militare all'epoca degli Antonini


Nel secondo secolo d.C. l'impero romano aveva raggiunto l'apice della sua potenza e la sua massima estensione sotto l'amministrazione di Nerva, Traiano, Adriano e dei due Antonini.
Dopo sette secoli di vittorie e trionfi la repubblica aveva realizzato quasi tutte le conquiste che in genere gli imperatori si contentarono di conservare.
Augusto fu consapevole delle difficoltà e del pericolo di guerre in terre lontanissime ed evitò di combatterle.
Rinunciò a nuove conquiste in Africa e in Europa e i barbari della Germania si dimostrarono in grado di recuperare la libertà. Augusto raccomandò nel suo testamento di non tentare di estendere ancora l'impero.
I primi successori di Augusto, dediti ai piaceri più che alla guerra, seguirono il consiglio. L'unica nuova conquista fu la Britannia ottenuta con una guerra durata quarant'anni (da Claudio a Domiziano).
Agricola, sotto Domiziano, completò la conquista della Britannia e progettò quella dell'Irlanda ma non potè attuarla perché venne richiamato. Prima di partire stabilì una linea di postazioni militari poi fortificata sotto Antonino per stabilire il confine del dominio romano escludendo la parte più settentrionale dell'isola abitata dai Caledoni che non vennero mai sottomessi.
La tendenza pacifica degli imperatori fu interrotta da Traiano che iniziò le sue imprese sconfiggendo i Daci comandati dal re Decebalo con una guerra durata cinque anni. La Dacia che ai tempi di Domiziano aveva attaccato l'impero fu ridotta a provincia romana.
Nonostante l'età avanzata Traiano avrebbe voluto emulare le gesta di Alessandro e riuscì a portare la guerra in Armenia, al Golfo Persico e sulle coste dell'Arabia. Sconfisse i Parti e ridusse a provincia l'Armenia e la Mesopotamia.
La morte di Traiano comportò il pericolo di un'immediata ribellione dei popoli recentemente sottomessi ma Adriano saggiamente lo evitò rinunciando a tutte le conquiste orientali di Traiano e riportando all'Eufrate la frontiera dell'impero.
Adriano trascorse quasi tutta la vita viaggiando e visitando le province dell'impero, al contrario il suo successore Antonino Pio si tenne sempre in Italia, entrambi si adeguarono al precetto di Augusto. I loro regni furono periodi di pace e bastava la nota potenza delle legioni romane a dissuadere gli altri popoli dal minacciare l'impero.
Fu Marco Aurelio a dove impiegare le legioni contro i Parti ed i Germani sui quali riportò importanti vittorie.
In età repubblicana le legioni erano composte da cittadini romani e gli ufficiali erano in genere di condizione sociale elevata, ma via via che il dominio di Roma si estendeva si cominciò a reclutare soldati anche in province lontane preferendo uomini abituati ai lavori pesanti e, ancora più tardi, i soldati comuni erano tratti dalla più vile e spesso più scellerata parte degli uomini e ormai militavano per interesse e non più per patriottismo.
Nonostante ciò la propaganda di un concetto di onore inteso a nobilitare i militari rispetto ai civili e a renderli devoti alle loro insegne, i privilegi economici, la ferrea disciplina, le continue esercitazioni, resero le legioni imperiali invincibili.
La tattica delle legioni si è evoluta nei secoli e quelle descritte da Polibio che combatterono contro Cartagine erano molto diverse dalle legioni di Cesare.
Ai tempi di Traiano ogni legione contava seimilacento uomini divisi in dieci coorti.
I soldati erano armati di "pilo", una lancia pesante lunga sei piedi con la punta in acciaio, molto potente se lanciata da mani esperte.
Lanciato il pilo il soldato sguainava la spada che era a doppio filo e poteva essere usata e di taglio e di punta. I soldati si schieravano ordinatamente lasciando fra loro una distanza che permetteva di muoversi agevolmente e consentiva ai rinforzi di affiancare i combattenti in caso di necessità.
La cavalleria delle legioni constava di 726 cavalieri divisi in dieci squadroni, i cavalieri non facevano più parte di un'elite come ai tempi della repubblica ma avevano la stessa provenienza dei fanti. Erano armati alla leggera e di solito avevano un giavellotto e una spada.
Distribuzione delle legioni
Provincia Nr. legioni
Britannia 3
Gemania inf. 2
Gemania sup. 3
Rezia 1
Norico 1
Pannonia 4
Mesia 3
Dacia 2
Siria 6
Cappadocia 2
Egitto 1
Africa 1
Spagna 1
  30
Alle legioni venivano affiancate truppe ausiliarie reclutate tra i provinciali che non avevano diritto di cittadinanza e che in genere combattevano secondo gli usi del loro paese. La legione era dotata anche di "artiglieria" composta di dieci macchine grandi e cinquantacinque piccole, tutte in grado di lanciare pietre e dardi con forza micidiale.
Il campo delle legioni era uno spazio quadrangolare il cui terreno veniva spianato e privato di ogni ostacolo. Al centro si trovava il Pretorio (quartier generale). Un terrapieno armato da una palizzata e difeso da un fossato circondava il campo.
I soldati erano allenati a marciare per venti miglia in sei ore sotto il peso delle armi, degli utensili da lavoro e da cucina e delle provviste per molti giorni. La colonna in marcia era in grado di disporsi in ordine di battaglia con estrema rapidità.
Contando fanti, cavalieri e ausiliari ogni legione era composta da circa dodicimilacinquecento uomini. Da Adriano in poi, in tempo di pace, erano in servizio in media trenta legioni per un totale di trecentosettantacinquemila soldati.
Gli accampamenti fissi si trovavano lungo i grandi fiumi e le frontiere. Gibbon fornisce un quadro della distribuzione che si mantenne pressoché invariato nell'epoca trattata.
L'Italia era presidiata da ventimila uomini fra coorti di città e quadrie pretoriane.
I Romani non aspiravano alle coste oceaniche, si limitavano a controllare il Mediterraneo che era tutto compreso fra le loro province e a proteggere il commercio marittimo con due flotte stabililte da Augusto, l'una a Ravenna, l'altra a Miseno. Erano inoltre in servizio forze navali in posizioni strategiche nel Mediterraneo, sulla Manica e lungo il Reno e il Danubio. Considerando gli equipaggi delle flotte l'intera potenza militare romana raggiungeva quattrocentocinquantamila effettivi.
Gibbon passa a descrivere le province ai tempi di Adriano: la Penisola Iberica era divisa in tre province: Lusitania (Portogallo), Betica (Andalusia) e Tarraconese (resto della Spagna). Fra i nativi erano i Celtiberi e i Cantabri.
La Gallia comprendeva le province della Gallia Narbonese (costa del Mediterraneo, Provenza, Linguadoca e Delfinato), Aquitania (dai Pirenei alla Loira), Gallia Celtica o Lugdunense (dalla Loira alla Senna), la Gallia Belgica (dalla Senna al Reno), la Germania Superiore e la Germania Inferiore.
La Britannia comprendeva l'Inghilterra, il Galles e la Scozia Meridionale.
Spagna, Gallia e Britannia formavano l'insieme delle province occidentali.
Prima della conquista romana la Lombardia, il Piemonte e la Romagna erano occupate da tribù di Galli. I Liguri occupavano la costa che prese da loro il nome di Liguria, i territori oltre l'Adige erano abitati dai Veneti e Venezia ancora non esisteva.
In Toscana e in quello che sarebbe divenuto lo Stato Pontificio vivevano Etruschi e Umbri mentre dal Tevere al confine della Campania si trovavano Sabini, Latini e Volsci.
Nel Meridione della Penisola abitavano Marsi, Sanniti, Apuli e Lucani, sulle coste sorgevano molte colonie greche.
Le province danubiane o illiriche comprendevano Rezia, Norico, Pannonia, Dalmazia, Dacia, Media, Tracia, Macedonia e Grecia.
Le province orientali erano la provincia d'Asia, la Siria (che comprendeva in alcuni periodi Fenicia e Palestina in altri periodi separate). L'Egitto, pur trovandosi in Africa, era accessibile solo dall'Asia e quindi veniva spesso considerato provincia orientale.
L'Africa Settentrionale da Cirene all'Oceano costituiva la provincia d'Africa.
Nel complesso l'impero comprendeva un milione e seicentomila miglia quadrate, la maggio parte di terra fertile e ben coltivata.

Capitolo II


Unione e prosperità interna dell'impero nel secolo degli Antonini


La grandezza dell'impero romano non era tanto nelle sue dimensioni quanto nella sua solidità che gli permise di sussistere per secoli, solidità basata sui sani principi della politica interna.
La popolazione politeista accettava i culti di tutte le numerose genti che vivevano nell'impero. Questo evitava le discordie e gli odi di origine religiosa. Riconoscere il valore di un eroe divinizzato implicava ammettere che quell'eroe dovesse essere rispettato da tutto il genere umano, altrettanto tutti riconoscevano l'universalità dei culti legati alla natura, agli astri e anche a concetti astratti come le virtù, le arti o anche i vizi.
Rispetto alla figura di un dio supremo superiore a tutte le altre divinità, tutti erano uniti nella venerazione e nulla importavano i nomi dati a quel dio e i riti che gli si tributavano.
Dal canto loro i filosofi greci ricavavano le loro morali dalla natura dell'uomo, anzi che da quella di Dio, ma non di meno speculavano sulla natura divina con tutta la capacità e tutti i limiti della loro ragione.
Quattro le scuole principali: gli Stoici e i Platonici, naturalisti i primi e idealisti i secondi, gli Accademici e gli Epicurei: quelli mettevano in dubbio l'esistenza del dio supremo, questi la negavano.
In generale nell'epoca degli Antonini fra le classi colte era diffusa l'irreligiosità, i pensatori comunque si uniformavano alle leggi e ai costumi e non disdegnavano di frequentare i templi e partecipare alle cerimonie religiose.
I magistrati favorivano le pratiche religiose a fini politici, i pontefici erano scelti fra i più alti magistrati e l'ufficio di sommo pontefice spettava allo stesso imperatore. La religione e i riti dei popoli sottomessi venivano tollerati e protetti, fecero eccezione i Druidi della Gallia soppressi da Tiberio e Claudio per eliminare i sacrifici umani.
Talvolta il senato tentava di bandire da Roma i culti stranieri, come nel caso di Iside e di Serapide, ma con scarsi risultati e col tempo si giunse a praticare a Roma culti provenienti da tutto l'impero.
Finché la cittadinanza romana non fu concessa a tutti coloro che vivevano nell'impero, gli abitanti di Roma e dell'Italia godettero di speciali privilegi: erano esenti dalle imposte ed erano governati direttamente dal potere centrale.
Sotto i primi imperatori l'Italia fu quindi un potente stato unitario mentre le province non avevano particolari diritti se non quelli di una formale alleanza.
Quando i Romani conquistavano un nuovo territorio vi stabilivano colonie civili o militari che con il tempo stabilivano rapporti amichevoli con le popolazioni locali.
Al tempo degli Antonini la cittadinanza era stata concessa alla maggioranza dei sudditi. Una volta ottenuta la cittadinanza il provinciale, se ne aveva le capacità, poteva giungere a svolgere qualsiasi impiego e a ricoprire qualsiasi carica.
La lingua latina era diffusa in tutto l'impero e le province assimilarono non solo le leggi ma anche le mode dei Romani. Facevano eccezione i Greci che diversamente dai barbari erano civili molto prima della conquista e non rinunciarono mai alla loro lingua e ai loro costumi. Le province orientali erano imbevute di cultura greca per le colonie che i Greci vi avevano fondato o per l'eredità di Alessandro Magno i cui generali avevano ellenizzato Siria e Egitto.
Gibbon condivide la diffusa opinione che Roma fu soggiogata culturalmente dalla Grecia, ma i Romani, pur affascinati dalla lingua e dalle lettere greche, mantennero le proprie tradizioni, il latino rimase la lingua ufficiale e il greco fu utilizzato nei testi scientifici.
Di questo equilibrio tuttavia non beneficiarono gli schiavi che erano in gran parte prigionieri di guerra desiderosi di trovare la libertà perduta.
Con l'andare del tempo e il consolidarsi dei confini diminuirono le guerre di conquista e la possibilità di fare prigionieri, quindi gli schiavi aumentarono di valore e la loro condizione divenne meno dura. Sotto Adriano e gli Antonini furono promulgate leggi a protezione degli schiavi e i privati persero il diritto di vita e di morte su di loro. Furono tuttavia stabiliti anche limiti e regole per tenere sotto controllo la condizione degli schiavi liberati, o liberti, che pur acquisendo i diritti privati dei cittadini non potevano mai accedere alle cariche pubbliche e al servizio militare.
Le grandi opere realizzate a Roma e in altre città da Traiano, Adriano e dagli Antonini furono emulate dalle città delle province a loro spese (es. Verona, Capua) o a spese dei privati cittadini.
Erode Attico, discendente di un'antica casata caduta in miseria, trovò un tesoro nell'ultima proprietà che gli rimaneva. Per evitare i delatori ne informò l'imperatore Nerva che non volle prelevarne neanche una parte e Erode spese un patrimonio in opere pubbliche. Suo figlio, prefetto in Asia, si fece carico sotto Adriano di oltre metà del costo di un acquedotto nella Troade.
Erode costruì lo stadio di Atene, un teatro dedicato alla moglie Regilla e fece restaurare l'Odeon di Pericle, finanziò opere a Corinto, in Epiro, Tessaglia, Eubea, Beozia e Peloponneso.
I migliori imperatori dedicarono risorse alle opere pubbliche: il Colosseo, le terme di Tito, il Foro di Traiano con la colonna traiana decorata con le immagini della guerra contro i Daci. Una particolare attenzione meritano gli acquedotti, una delle più importanti e nobili realizzazioni della cultura romana.
L'impero comprendeva migliaia di città alcune delle quali grandissime come Efeso, Smirne, Antiochia, Alessandria e molte altre. Tutte le province erano collegate a Roma da una grande rete di strade costruite magistralmente. La realizzazione di gallerie e ponti garantiva che le strade stesse procedessero quanto possibile in linea retta, il piano stradale era sopraelevato su molti strati di sabbia, ghiaia e cemento.
Sfruttando queste strade sotto gli imperatori fu organizzato un efficiente servizio postale basato su stazioni con quaranta cavalli ciascuna distanti poche miglia fra loro.
Per le comunicazioni e i trasporti marittimi furono realizzati grandi porti come quello di Ostia alla foce del Tevere. Il governo centrale servì anche a diffondere in occidente le pratiche di coltivazione e di allevamento fino ad allora note solo in oriente.
Molte coltivazioni ortofrutticole furono importate in Europa, la produzione del vino fu introdotta in Gallia superando i problemi relativi al clima, l'olivo venne acclimatato in Africa, Italia, Spagna, Gallia.
Migliorò la produzione dei foraggi e di conseguenza l'allevamento del bestiame. Fiorì l'artigianato e la produzione di beni di lusso e ciò comportò una sorta di ridistribuzione della ricchezza fra i più abbienti che amavano possedere beni pregiati e coloro che quei beni producevano e vendevano.
Controproducente per l'economia dell'impero era invece l'ingente importazione di beni costosissimi dall'India e dall'Arabia. I Romani ricchi spendevano cifre astronomiche per la seta, le spezie, i profumi, le pietre preziose. Chi visse in quel periodo, ritiene Gibbon, non poteva rendersi conto che proprio quella tranquilla stabilità e quella lunga pace furono un veleno lento e segreto che doveva portare l'impero alla rovina.
Lo spirito repubblicano era spento e tutti i cittadini ormai abituati a ricevere ordini dal potere centrale si lasciavano andare a una comoda mediocrità. Anche nelle lettere e nella filosofia, con rare eccezioni, non venne espresso niente di nuovo e in tutto l'impero l'intelletto era avvilito dall'asservimento e dai pregiudizi.
Per questo motivo, secondo l'autore, i popoli venuti dal settentrione riuscirono a distruggere l'impero e ad innescare quel processo che nel corso di dieci secoli portò alla formazione delle nazioni moderne.

Capitolo III


Costituzione dell'impero romano nel secolo degli Antonini


Dopo la vittoria di Azio il destino del mondo romano dipendeva dal volere di Ottaviano.
Ottaviano disponeva di quarantaquattro legioni fedeli alla sua famiglia, le province aspiravano al governo di un monarca che fosse al di sopra della tirannia dei governatori locali, il popolo di Roma vedeva con piacere l'umiliazione dell'aristocrazia, i Romani ricchi apprezzavano la pace, il senato aveva perso l'antica dignità ed era composto da oltre mille persone.
La riforma del senato fu tra i primi atti di Ottaviano, egli ridusse il numero dei senatori, espulse gli indegni, convinse altri a dimettersi e restituì la dignità, ma non la libertà, a quell'istituzione.
Davanti al senato così riformato, Ottaviano giustificò le sue precedenti azioni e rassegnò le dimissioni.
In una grande confusione i senatori respinsero le dimissioni pregandolo di non abbandonare la repubblica e in sostanza Ottaviano prese il potere supremo fingendo di rimettersi agli ordini del senato. Gli fu conferito il titolo di imperatore che voleva dire generale di tutti gli eserciti romani, magistrato che deteneva tutti i più ampi poteri senza in nulla violare la costituzione.
Durante la repubblica il generale romano che stava svolgendo una campagna militare aveva potere assoluto sui soldati, sui nemici e sui provinciali. Quando Augusto ottenne l'impero ebbe questo potere ma non potendo da solo comandare tutte le legioni dell'impero nominò dei luogotenenti che non avevano l'autonomia dei generali repubblicani ma erano comunque subordinati al suo volere.
I luogotenenti imperiali erano di grado consolare o pretorio, i comandanti delle legioni erano sempre senatori, solo l'Egitto era governato da un cavaliere.
Augusto divise le province fra quelle governate da senatori e quelle affidate ai luogotenenti imperiali. L'affidare province pacifiche ai senatori era una "concessione immaginaria" in cambio della quale Augusto ottenne il permesso di mantenere il comando militare e un grosso corpo di guardia anche in città e in tempo di pace.
Riuscì inoltre ad avere il riconoscimento a vita della potestà consolare e della potestà tribunizia poi concesso a tutti i successori. Riunendo così in una sola persona tutte le prerogative dei senatori, dei consoli e dei tribuni della plebe si distruggeva l'equilibrio fra queste cariche, equilibrio che per secoli durante la repubblica aveva protetto la stabilità dello stato e la libertà della cittadinanza.
(p.136).