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PLUTARCO DI CHERONEA




VITE DI TIMOLEONTE E PAOLO EMILIO





TIMOLEONTE


Dione fu ucciso dopo aver cacciato Dionisio tiranno di Siracusa e i suoi sostenitori furono presto in contrasto tra loro.
Il resto dell'isola era nel caos a causa delle guerre, molte città erano state smantellate e altre erano nelle mani di soldati senza salario.
Dopo dieci anni dalla sua cacciata il figlio Dionisio il Giovane tornò a Siracusa e riprese il potere, i Siracusani suoi avversari si rivolsero a Iceta tiranno di Leontini e lo nominarono loro comandante considerandolo affidabile perché siracusano di origine e dotato di valide forze militari.
Nel frattempo arrivò in Sicilia una grande flotta cartaginese e i Siciliani mandarono legati in Grecia per chiedere aiuto a Corinto, città che solitamente rispondeva alle richieste di soccorso delle sue colonie.
Iceta, che mirava a impadronirsi di Siracusa, aprì trattative segrete con i Cartaginesi e inviò suoi rappresentanti con la delegazione a Corinto per tentare di boicottare la missione.
I Corinzi risposero positivamente alla richiesta e nominarono Timoleonte di Timodemo comandante dei soccorsi per Siracusa. Timoleonte, figlio di Timodemo e Demarista, apparteneva a una famiglia agiata, era di indole tranquilla ma detestava i tiranni, mostrò sempre grande senno, forza e valore.
Aveva un fratello maggiore di nome Timofane che non gli somigliava: era bellicoso e sperava di farsi sovrano della città. Conquistò il favore dei concittadini che gli affidavano funzioni di comando militare nel cui svolgimento si mostrava feroce e impetuoso. In una battaglia contro gli Argivi nella quale aveva il comando della cavalleria fu disarcionato e, circondato dai nemici, fu salvato da Timoleonte che lo difese con il suo scudo e lo portò in salvo subendo molti colpi e ferite. In seguito i Corinzi assoldarono quattrocento mercenari e ne affidarono il comando a Timofane il quale ne approfittò per assoggettare la città e proclamarsi tiranno dopo aver fatto morire numerosi cittadini. Timoleonte tentò ogni mezzo per ridurre il fratello a più miti consigli ma fu sempre respinto e disprezzato e in una discussione in cui partecipavano amici di Timoleonte, Timofane fu ucciso (Plutarco precisa che Timofane non partecipò personalmente all'assassinio ma ne fu testimone).
Una parte dei concittadini apprezzò l'evento e lodò l'amore per la libertà dimostrato da Timofane, altri invece deprecarono il fraticidio ed accusarono Timofane di empietà, fra questi era la madre dei due fratelli che lo malediceva con orrende imprecazioni.
Timoleonte fu colto dalla disperazione e tentò di lasciarsi morire di fame, gli amici lo dissuasero ma egli decise di continuare a vivere in solitudine, lontano dalla vita cittadina, e in questo stato trascorse quasi vent'anni.
Nel frattempo Iceta aveva scoperto il proprio gioco e scrisse a Corinto di non inviare aiuti ai Siciliani perché la situazione sarebbe stata presto risolta dai Cartaginesi e questi non avrebbero permesso alle navi greche di sbarcare in Sicilia. L'odioso voltafaccia di Iceta sciolse ogni esitazione dei Corinzi che si affrettarono ad allestire la flotta per Timoleonte e a provvedere quanto necessario per la spedizione, incoraggiate da un sogno propizio narrato dalle sacerdotesse di Persefone e da altri presagi. Timoleonte parì con dieci navi (sette di Corinto, due di Corcira, una di Leucade), giunto in Italia venne a sapere che Iceta aveva occupato Siracusa costringendo Dionisio il Giovane a rifugiarsi nell'isola di Ortigia. Seppe inoltre che Iceta si era accordato con i Cartaginesi perchè respingessero le navi provenienti da Corinto.
Ambasciatori di Iceta incontrarono Timoleonte a Reggio e gli proposero di unirsi a Iceta come consigliere e rimandare le sue navi a Corinto, avvertendo che i Cartaginesi avrebbero in ogni caso impedito alle navi greche di sbarcare in Sicilia. I Corinzi si infuriarono contro Iceta ma furono trattenuti dal timore per i Cartaginesi.
Timoleonte finse di accettare la proposta a condizione che l'accordo tra lui e gli ambasciatori di Iceta fosse raggiunto al cospetto dei principali cittadini di Reggio che egli chiamava a testimoni. Nella realtà Timoleonte intendeva prendere tempo mentre cercava con l'aiuto dei Reggini il modo di superare il blocco e raggiungere la costa siciliana.
Gli abitanti di Reggio, che desideravano allontanare i Cartaginesi dalla loro città, convocarono l'assemblea generale dei cittadini e tennero una serie di lunghi interventi sugli stessi argomenti per trattenere gli ambasciatori finché le navi di Timoleonte non fossero riuscite a salpare. Da parte sua Timoleonte partecipava all'assemblea fingendo di voler intervenire, ma quando ebbe il segnale che solo la sua nave lo attendeva, riuscì a lasciare l'assemblea confondendosi tra la gente, raggiunse il porto e in breve tempo i Corinzi raggiunsero Tauromenio dove furono accolti da Andromaco, signore di quella città. Questi era padre dello storico Timeo, diversamente dagli altri tiranni governava con rettitudine e giustizia mostrandosi sempre nemico della tirannia.
Andromaco offrì la sua città a Timoleonte per farne la base delle operazioni dei Corinzi in Sicilia e persuase i suoi sudditi ad aiutare i Corinzi per ripristinare la libertà nell'isola.
A Reggio i Cartaginesi furono derisi per l'inganno subito e mandarono un ambasciatore a Tauromenio che fu a sua volta schernito da Andromaco.
A Siracusa la situazione era grave: la città era in mano di Iceta, il porto era occupato dai Cartaginesi, la rocca in potere di Dionisio. Quanto ai soccorsi dalla Grecia, i Siracusani sapevano che Timoleonte si trovava nella piccola città di Tauromenio con scarsissime risorse e che molte città della Sicilia non si fidavano di lui a causa delle pessime esperienze fatte con altri Greci che, venuti a liberare l'isola, avevano istituito l'ennesima tirannide.
Discordie interne nella piccola città di Adrano spinsero parte dei cittadini a chiamare Timoleonte mentre gli altri chiamavano Iceta e i Cartaginesi. Entrambi risposero alla chiamata e giunsero quasi contemporaneamente ma Iceta aveva con se cinquemila soldati mentre Timoleonte ne aveva milleduecento compresi i rinforzi di Tauromenio.
Avvicinandosi ad Adrano Timoleonte ordinò di attaccare subito i nemici che stavano allestendo il campo e, grazie alla sorpresa, riuscirono a riportare una modesta vittoria, gli Adraniti aprirono le porte a Timoleonte e lo accolsero in città con i suoi soldati. Dopo questo successo, Timoleonte fu contattato da varie città che si unirono a lui. Si alleò a Timoleonte Mamerco tiranno di Catania e lo stesso Dionisio mandò legati per consegnare ai Corinzi se stesso e la rocca di Siracusa. I soldati di Timoleonte penetrarono pochi alla volta a Siracusa e presero la rocca senza combattere. Dionisio si recò al campo di Timoleonte e da qui a Corinto in abiti dimessi come un privato cittadino. A Corinto fu accolto con grande curiosità, molti gli erano ostili, altri lo compativano per il cambiamento della sua fortuna.
Favorevolmente colpiti dal successo di Timoleonte, i Corinzi gli mandarono ulteriori duemila fanti e duecento cavalieri, questi rinforzi sbarcarono a Turi e qui dovettero fermarsi perché il mare era sbarrato dai Cartaginesi. Durante il loro soggiorno custodirono le città che li ospitava mentre molti cittadini erano in guerra contro i Bruzi.
Intanto Iceta assediava la rocca di Siracusa e impediva ai Corinzi che vi si trovavano di ricevere rifornimenti. Timoleonte scampò a un attentato mentre offriva sacrifici in Adrano. Stava per essere colpito quando uno dei sicari fu ucciso da un altro che vendicava così la morte di suo padre, strano intrecciarsi di diversi destini che fu causa in quell'occasione della salvezza di Timoleonte.
Iceta chiamò Magone comandante delle forze Cartaginesi che entrò nel porto di Siracusa con centocinquanta navi e fece sbarcare seimila fanti. Per la prima volta, a causa del tradimento di Iceta, Siracusa era nelle mani dei Cartaginesi.
Magone e Iceta decisero di conquistare Catania, città dalla quale i Corinzi assediati nella rocca ricevevano segretamente rifornimenti.
I Corinzi della rocca, con una fortunata sortita, sconfissero gli assedianti e si impadronirono del quartiere che si chiama Acradina, la parte più forte di Siracusa, dove si trovavano abbondanti scorte, collegarono con una trincea Acradina e la Rocca e rimasero a controllare entrambe le posizioni.
Iceta e Magone erano già prossimi a Catania quando furono informati della presa dell'Acradina. I Corinzi che si trovavano a Turi, per evitare le navi Cartaginesi e il mare in tempesta, raggiunsero Reggio via terra attraversando, non senza difficoltà, il paese dei Bruzi.
I Cartaginesi, credendo che i Corinzi si trovassero ancora a Turi, cercarono di stanarli con inganni e stratagemmi inutili. A Reggio i Corinzi trovarono pescatori disposti a traghettarli in Sicilia. Timoleonte li accolse sullo stretto e insieme occuparono rapidamente Messina, quindi si misero in marcia verso Siracusa.
Mentre i Greci che erano con Iceta fraternizzavano con i Corinzi di Timoleonte nei momenti di tregua, Magone fu preso dallo sconforto e dal timore di essere tradito e battuto e, sordo alle preghiere di Iceta fece vela per la Libia abbandonando la guerra in Sicilia.
Giunto a Siracusa, Timoleonte non trovò i Cartaginesi (ciò provocò molta ilarità tra i suoi soldati) ma Iceta si sforzò di mantenere il controllo sulla città con le sue forze. I Greci di Timoleonte si divisero in tre schiere e circondarono la città da ogni direzione. La notizia della loro vittoria si divulgò in Sicilia, in Italia e in Grecia. Gli abitanti di Corinto seppero della vittoria prima ancora di avere altre notizie dei loro soldati.
Invitati a farlo da Timoleonte, i Siracusani demolirono il castello e la trincea dei tiranni e le loro abitazioni. Sul sito del castello fu edificata la curia ma la città era quasi deserta a causa delle vittime delle guerre e delle fughe dalla tirannide. Ovunque regnava l'abbandono e cavalli e cervi pascolavano l'erba nelle strade e nelle piazze abbandonate. Timoleonte scrisse in patria chiedendo l'invio di coloni per ripopolare Siracusa e altre città.
Timoleonte aspettava inoltre che i Cartaginesi tornassero in forze in Sicilia dopo il disonorevole abbandono di Magone, del quale si seppe che si era suicidato e che il suo cadavere era stato crocifisso.
I Greci pubblicarono bandi per invitare qualsiasi Siciliano fosse interessato a stabilirsi a Siracusa, i Corinzi si fecero carico di accogliere nella loro città e trasportare in Sicilia tutti i Siracusani esuli fuori dell'isola. Tra le persone così rintracciate in Grecia e i coloni volontari raccolti da diverse città greche, Siracusa fu ripopolata con sessantamila persone.
Timoleonte portò l'esercito in altra città per destituirne i tiranni. Con Iceta fu concordato che, smantellate le sue rocche, si sarebbe ritirato come privato cittadino in Leontini.
Tornando a Siracusa per occuparsi delle leggi insieme a statisti arrivati da Corinto, Timoleonte affidò a Dinarco e Dinarete il comando dell'esercito per liberare le località della Sicilia ancora in possesso dei Cartaginesi, operazione che fu compiuta con successo ricavandone un ricco bottino.
I Cartaginesi sbarcarono a Lilibeo con l'obiettivo di conquistare completamente la Sicilia, avevano un'armata di settantamila uomini con duecento triremi e cento navi, macchine, quadrighe e scorte di viveri. I loro comandanti Asdrubale e Amilcare mossero subito contro i Corinzi. A Siracusa soltanto tremila uomini ebbero il coraggio di unirsi a Timoleonte per combattere contro questa grande armata, anche mille dei quattromila mercenari si ritirarono e Timoleonte si trovò ad affrontare settantamila nemici con cinquemila fanti e mille cavalieri.
Si portò lontano da Siracusa per otto giornate di marcia per evitare che gli eventuali fuggiaschi potessero tornare indietro.
Mentre si avvicinavano al fiume Crimiso, Timoleonte e i suoi incontrarono dei muli carichi d'appio, pianta con cui i Greci erano soliti decorare le sepolture. Per scacciare la superstizione, Timoleonte parlò ai soldati dell'uso di incoronare con l'appio gli atleti vincitori dei giochi istmici e di altri giochi, quindi incoronò se stesso con l'appio ed invitò quanti aveva vicino a fare altrettanto. Timoleonte attaccò i Cartaginesi mentre erano impegnati nel superare il fiume, mandò avanti Demetrio ad attaccare il nemico lateralmente con la cavalleria superando lo sbarramento dei carri e guidò personalmente l'attacco della fanteria.
Durante la battaglia scoppiò un violento temporale favorevole ai Greci perché pioggia e lampi cadevano verso i nemici che ne rimanevano abbagliati, lo strepito dei tuoni e il rumore della grandine sugli scudi impediva di udire gli ordini dei comandanti.
Gli abiti pesanti e le armature ostacolavano i Cartaginesi nel muoversi nel fango, i Greci li facevano cadere e per loro era molto difficile rialzarsi. Il Crimiso, cresciuto per la pioggia e per la grande quantità di gente che lo attraversava, straripò allagando la pianura e creando nuove difficoltà per chi doveva muoversi senza vedere i propri piedi. Perdurando la tempesta ed avendo i Greci abbattuta la prima schiera nemica, i Cartaginesi fuggirono ma durante la fuga molti furono uccisi, altri annegarono e molti vennero abbattuti mentre cercavano di risalire la collina.
I Cartaginesi persero diecimila uomini, tremila dei quali erano nobili della città e lasciarono sul campo ricchissime spoglie in argento e oro. Oltre il fiume i Greci si impadronirono del campo nemico e di ogni salmeria, furono catturati oltre cinquemila prigionieri e prese duecento quadrighe.
Il padiglione di Timoleonte risplendeva di armi e corazze lucenti, egli volle mandarne la parte più pregiata a Corinto dove vennero esposte per ricordare una vittoria riportata, una volta tanto, sui barbari e non su altri Greci.
Timoleonte lasciò i suoi mercenari sul posto per completare la spoliazione del campo e tornò a Siracusa dove bandì dalla Sicilia quei mercenari che non avevano voluto seguirlo, passati in Italia, furono massacrati dai Bruzi, punizione divina per quel tradimento.
Mamerco di Catania e Iceta, non fidandosi di Timoleonte, si allearono ai Cartaginesi. Questi mandarono in Sicilia Giscone con altre settanta navi e assoldarono altri soldati, parte dei quali Greci. Riunirono le forze presso Messina e uccisero i quattrocento soldati mandati sul posto da Timoleonte. Si trattava di Greci che avevano a suo tempo militato per Filomelo e Onomarco saccheggiatori del tempio di Delfi e per questo disprezzati da tutti e guardati come sacrileghi. Giunti in Sicilia, avevano preso parte a diverse imprese fortunate di Timoleonte ma quando questi li aveva inviati a soccorrere altri luoghi furono uccisi ma non tutti insieme, avendo la giustizia divina distribuito il loro castigo in modo da non arrecare danno ai buoni, dimostrando ancora una volta la buona fortuna di Timoleonte.
Quando Timoleonte attaccò Leontini catturò Iceta, il figlio Eupolemo e Eutimo comandante della cavalleria. I primi due vennero subito giustiziati, Eutimo, uomo segnalatosi per il suo coraggio, avrebbe potuto salvare la vita ma venne giustiziato a sua volta per aver pronunciato frasi offensive a vilipendio dei Corinzi. Le donne della famiglia di Iceta furono processate e Siracusa e giustiziate. Forse Timoleonte non le protesse perché Iceta aveva a suo tempo fatto morire i familiari di quel Dione che aveva cacciato Dionisio il Vecchio.
Timoleonte quindi mosse contro Mamerco e lo sconfisse uccidendo più di duemila soldati, molti dei quali Cartaginesi.
I Cartaginesi proposero la pace e venne stabilito che in futuro avrebbero conservato il Sicilia solo quanto avevano conquistato oltre il fiume Lico, che avrebbero lasciato andare i Siciliani che volevano uscire dai loro domini e che mai più avrebbero fatto lega con il tiranni.
Mamerco si portò in Italia per assoldare un esercito di Lucani, ma intanto i suoi uomini consegnarono Catania a Timoleonte. Mamerco si rifugiò a Messina presso il tiranno Ippone ma questi fu catturato e flagellato pubblicamente per mostrare a tutti, anche ai bambini, quale doveva essere il destino dei tiranni. Mamerco si arrese e, mentre veniva processato, tentò di rompersi il capo contro i gradini del teatro, non vi riuscì e venne crocifisso.
In questo modo Timoleonte liberò la Sicilia dai Cartaginesi e da tutte le tirannidi, l'isola tornò ad essere un luogo ameno in cui molti vollero immigrare. Le città di Agrigento e Gela che erano state devastate dai Cartaginesi, vennero ripopolate con gente venuta da Elea e da Ceo. Timoleonte raggiunse grande popolarità tanto che nessuna importante decisione si prendeva e nessuna impresa si portava a termine senza la sua approvazione.
I Siracusani donarono a Timoleonte una casa che egli consacrò alla dea fortuna della quale si considerava debitore, ed un podere dove passò molto tempo con i suoi familiari che lo avevano raggiunto dalla Grecia.
Due oratori, Lafistio e Demeneto, tentarono di muovergli varie accuse e Timoleonte si compiaceva che avessero la libertà di parlare e di ricorrere alle leggi quando lo volevano. Timoleonte non tornò mai in Grecia ed invecchiò nel suo podere. In vecchiaia perse la vista come era capitato ai suoi antenati.
Visse gli ultimi anni circondato dall'affetto dei Siracusani che fino alla fine lo vollero giudice nelle questioni più importanti. Morì infine quando una malattia non terribile si sommò alla sua vecchiaia. Migliaia di donne e di uomini con vesti candide presero parte alle esequie mostrando il più sincero affetto. Decretarono l'istituzione di gare e di giochi in sua memoria e costruirono intorno al suo monumento un grande edificio con portico e palestra che fu chiamato Scuola Timoleontea.

PAOLO EMILIO

Plutarco apre questa biografia con un brano sulla sua soddisfazione per l'attività di biografo che egli esercita con l'obiettivo di trarre insegnamento dalle virtù dei personaggi di cui si occupa. Sceglie quindi per questo capitolo delle Vite Timoleonte da Corinto e Polo Emilio, personaggi che ebbero in comune i buoni propositi e la fortuna nelle imprese.
La famiglia patrizia degli Emili, tra le più antiche di Roma, si faceva risalire a Mamerco figlio di Pitagora, che fu chiamato Emilio per la sua piacevolezza nel parlare. Molti suoi discendenti furono favoriti dalla fortuna. Lucio Paolo era contrario al console collega che intendeva combattere a Canne, tuttavia quando iniziò il combattimento egli volle partecipare al pericolo e tenersi fermo di fronte al nemico finchè non fu ucciso.
Sua figlia Emilia sposò il grande Scipione, suo figlio è il Paolo Emilio protagonista di questa Vita.
Nato nel periodo in cui vissero numerosi grandi uomini, seppe conquistare la sua gloria senza emularli negli studi e nelle prime imprese.
Non volle occuparsi di processi o di politica, la sua prima carica fu l'edilità, quindi fu nominato augure, carica che svolse con grandissimo scrupolo nel celebrare in ogni dettagli il culto e curando i riti con la massima attenzione.
Quando ebbe cariche di comando militare, curò la disciplina mostrandosi severissimo verso i soldati che non la rispettavano.
Roma era in guerra contro Antioco il Grande e gravi disordini si verificavano in Iberia. Paolo Emilio fu inviato a risolvere la situazione come pretore ma volle avere dodici littori invece di sei, conferendo in questo modo alla carica dignità consolare.
Per due volte vinse i barbari in battaglia campale uccidendone trentamila, assoggettò duecentocinquanta città che lo accolsero volontariamente. Lasciò quella provincia dopo avervi stabilito la pace e tornò a Roma senza aver conseguito in quella missione alcun guadagno personale.
Era solito non preoccuparsi del guadagno ed era liberale con le sue non grandi sostanze. Aveva sposato Papiria figlia di Masone uomo consolare che gli partorì molti figli tra i quali Scipione e Fabio Massimo, tuttavia dopo molto tempo la ripudiò ma non se ne conosce la ragione.
In seguito si risposò ed ebbe altri due figli che allevò nella sua casa mentre quelli avuti da Papiria furono allevati in nobilissime case. Il figlio maggiore fu adottato dal figlio di quel Fabio Massimo che fu console cinque volte, il minore dal figlio di Scipione Africano che gli era cugino. Una sua figlia sposò il figlio di Catone, un altra Elio Tuberone. Costui, benchè due volte console e per due volte celebrò il trionfo, era molto povero e condivideva una piccola abitazione con i suoi numerosi fratelli. La figlia di Paolo Emilio che lo aveva sposato fu sempre lodata per la pazienza e la dignità con cui sopportava la situazione.
Creato console, Emilio mosse contro i Liguri che praticavano la pirateria nel Mediterraneo. Nonostante il rapporto di cinque a uno tra i Liguri e i soldati di Emilio, questi sconfissero i Liguri spingendoli dentro le loro mura. Roma non aveva intenzione di eliminare radicalmente i Liguri che costituivano una protezione contro i Galli, perciò Emilio offrì dignitose proposte di pace. Distrusse le mura delle città dei Liguri, sequestrò le loro navi e liberò i loro prigionieri.
Dopo questo consolato Emilio tentò di essere rieletto, non riuscendovi si dedicò alle cose della religione e all'educazione dei figli.
In quel periodo i Romani combattevano contro Perseo il quale, pur disponendo di pochi uomini, riusciva a procurare seri problemi. Plutarco vuole riepilogare le fasi della storia greca antecedenti Perseo partendo da Antigono fino a Filippo V padre di Perseo che fu sconfitto da Tito Flaminio.
Dopo la sconfitta Filippo V continuò a regnare sulla Macedonia per concessione dei Romani. Con il tempo questa condizione di sudditanza gli divenne insopportabile, cominciò a pensare alla guerra e raccolse un potente esercito all'interno del paese sottoponendo in segreto i soldati ad intensi allenamenti. Riempì i magazzini della città di armi, scorte di alimentari. Non riuscì tuttavia a dare inizio alla guerra perché morì oppresso dal dolore e dal rimorso per avere ingiustamente fatto morire il figlio Demetrio per le calunnie dell'altro figlio Perseo.
Fu Perseo, dunque, a succedere a Filippo nel regno e nell'odio verso i Romani. Di lui si diceva che non fosse veramente figlio di Filippo ma che fosse stato preso dalla regina ad una donna argiva ed allevato suppositivamente e che per questo nutriva odio e gelosia nei confronti di Demetrio figlio legittimo di Filippo.
Benchè d'animo abietto e ignobile, fu coinvolto nella guerra contro i Romani e conseguì due importanti vittorie facendo molti prigionieri.
Fece fuggire Publio Licinio che per primo era entrato in Macedonia, uccise duemilacinquecento soldati e ne catturò seicento. Aggredendo la flotta romana che sostava presso Oreo, prese venti navi con il loro carico e altre ne affondò, catturò inoltre quattro navi a cinque ordini di remi.
Sconfisse il console Ostilio che tentava di entrare in Macedonia. Fece quindi una spedizione contro i Dardani e ne uccise mille ritornando con molte prede. Insidiò anche i Bastarni che vivevano intorno all'Istro, esortava gli Illiri e il loro re Gentio ad allearsi con lui e si diceva che gli Illiri, persuasi da Perseo con il denaro, stessero per entrare in Italia passando dalla Gallia Inferiore.
Quando i Romani ebbero notizia delle attività di Perseo decisero di affidare l'armata a un condottiero esperto. Scelsero Paolo Emilio che era ancora robusto e aitante nonostante avesse circa sessant'anni. In un primo momento Paolo Emilio non volle accettare il consolato ma alla fine si lasciò persuadere dagli amici, dai figli e dalla gente che ogni giorno bussava alla sua porta. Si racconta che quando sua figlia ancora bambina piangeva per la morte di un cagnolino di nome Perseo, Paolo Emilio accolse le parole della piccola come augurio di buona fortuna che egli accettò volentieri.
Tenne un primo discorso al popolo dicendosi disponibile a cedere il comando a chi fosse ritenuto più adatto di lui, ma se il suo comando veniva confermato non voleva alcuna ingerenza.
Il discorso di Paolo Emilio piacque a quanti lo ascoltarono che si rallegrarono per la scelta di un condottiero che parlava con libertà e franchezza e che aveva sentimenti grandiosi.
Partito per la guerra ebbe prospera navigazione e con facilità raggiunse il campo senza incontrare pericoli.
Su richiesta di Perseo i Bastarni gli inviarono diecimila cavalieri ed altrettanti fanti, tutti mercenari, ma quando si vide presentare la richiesta di mille monete d'oro per ogni comandante pur di risparmiare mandò via i Bastarni. Riuscì a recuperare anche il compenso di trecento talenti che aveva già pagato a Gentio re degli Illiri quando questi, convinto dagli inviati di Perseo, fecero prigionieri gli ambasciatori dei Romani procurandosi così la necessità di combattere per i suoi problemi e non per denaro. Poco più avanti Gentio fu deposto dall'esercito del pretore Lucio Anicio.
Perseo portò il suo esercito in un luogo sicuro alle falde dell'Olimpo e aveva munite di steccati le poche vie di accesso, confidando che Emilio aspettasse inutilmente l'occasione di battersi. Perseo quindi considerava Emilio abbattuto ed inattivo, ma Emilio non era in ozio, stava riflettendo su ogni possibile ripiego, tuttavia notò che il suo esercito stava diventando insofferente e che molti parlavano vanamente degli ordini che il comandante avrebbe dovuto dare, di azioni che avrebbe potuto intraprendere. Si trattava delle ingerenze che Emilio aveva rifiutato a priori nelle condizioni del suo accordo e non tardò a reagire. Ingiunse ai soldati di non prendersi la briga di decisioni che spettavano al comandante e di tenersi pronti per muoversi al momento opportuno.
Ordinò inoltre che le sentinelle notturne vegliassero senza armi in modo di scorgere con maggiore attenzione eventuali movimenti dei nemici e non lasciarli avvicinare.
Poichè l'esercito soffriva per mancanza d'acqua, Emilio fece scavare solchi alla base dell'Olimpo finché non furono trovate sorgive sufficienti a dissetare i soldati.
Emilio decise infine di attaccare l'unico passaggio che i nemici non potevano presidiare per la posizione scoscesa. Chiesero di comandare la spedizione a Scipione Nasica genero dell'Africano e Fabio Massimo, il figlio maggiore di Emilio.
Nasica con circa ottomila uomini aggirò il campo di Perseo e sostò per la notte. Un soldato cretese sfuggì dalle genti di Nasica e andò da Perseo, lo avvertì del giro fatto dai Romani. Perseo si affrettò a assegnare diecimila uomini a Milone ordinandogli di portarsi ad occupare la probabile posizione di attacco dei Romani. Si svolse un aspro combattimento tra le alture e le vette del luogo. Milone fu visto fuggire senza armi e con la semplice toga e Nasica inseguì i fuggitivi e fece scendere i suoi dalla pianura.
Perseo, timorosissimo, levò la tende e si ritirò ma giunto pressi di Pidna dovette decidere se sostenere lo scontro con i Romani o sciogliere il suo esercito in gruppi di soldati che si sarebbero distribuiti nella regione portando ovunque la guerra.
Gli amici lo convinsero a combattere e Perseo ordinò di allestire la battaglia distribuendo le schiere e i comandanti.
Emilio, raggiunto Nasica, procedeva in ordinanza per attaccare i nemici ma quando arrivò a vedere lo schieramento nemico, si fermò per riflettere. I suoi capitani lo pregarono di non indulgiare oltre ma Emilio non si mosse. Ordinò ai soldati che erano più avanzati di distribuirsi in coorti e far credere di voler combattere e a quelli che erano in coda di formare un accampamento.
Quando giunse la notte cominciò ad oscurarsi la luna che rapidamente si eclissò, secondo la tradizione i Romani presero a battere su vasi di rame e a sollevare verso il cielo una grande quantità di fiaccole e tizzoni ardenti. Era il loro modo di richiamare l'astro scomparso ma i Macedoni che non conoscevano questi rituali furono presi dall'orrore e dalla meraviglia e credettero che il fenomeno preannunciasse la fine del loro re. Emilio conosceva la ragione per cui la luna diventava invisibile me, per scrupolo, dopo l'eclissi offrì sacrifici di vitelli e di buoi. Dai sacrifici si dedusse che i Romani avrebbero vinto se non fossero stati i primi ad attaccare. Emilio ordinò di disporre l'esercito in assetto di battaglia ed aspettò il tramonto per non avere il sole in faccia. Una banda di Traci cercò di attaccare il bestiame romano che tornava dal foraggiare, dal campo romano uscirono settecento Liguri e anche i Macedoni intervennero. In breve accadde l'incidente adatto per mettere fine alle esitazioni, Emilio passò tra le schiere dei suoi per far loro coraggio, Nasica si avvicinò a cavallo alla mischia e vide che tutti i nemici erano pronti a combattere. I Macedoni si avventarono contro il nemico con tale impeto che i primi a cadere moti rimasero a pochi passi dal campo romano. Un certo Sapio, comandante dei Peligni, tirò la loro insegna tra i nemici in modo che la schiera dei Peligni si avventò furiosamente contro i Macedoni. Quando Paolo Emilio constatò che nella falange macedone cominciavano ad aprirsi dei vuoti, ordinò ai suoi soldati di avanzare in piccoli gruppi cercando di penetrare nelle aperture della falange avversaria facendo così non solo un assalto contro la gente nemica, ma molti, da varie parti nello stesso tempo.
L'idea di Paolo Emilio ebbe successo e i soldati romani penetrando nello schieramento nemico riuscirono a colpire i Macedoni ai fianchi o alla schiena e riuscirono infine a scompaginare la falange che presto perse ogni potere ed ogni efficacia.
Marco figlio di Catone e genero di Emilio perse la spada nel combattimento e subito pensò che gli convenisse morire piuttosto che affrontare la vergogna, si diede quindi a correre pregando i compagni di seguirlo e così formò un gruppo compatto che guidò contro il nemico riuscendo a penetrare tra le schiere macedoni portandovi lo scompiglio e la morte, conclusa questa impresa Marco e i suoi si diedero a cercare la spada e, sorprendentemente, la ritrovarono. Alla fine tremila Macedoni furono passati a fil di spada, degli altri che tentarono la fuga fu fatto un tale macello che presto la pianura fu piena di cadaveri.
Al termine della battaglia erano stati uccisi oltre venticinquemila Macedoni mentre i Romani avevano perso solo un centinaio di soldati.
A sera l'accampamento romano era in festa, molte luci erano ancora accese, le tende erano state decorate con ghirlande d'erica e d'alloro, ma Paolo Emilio era molto triste perché non aveva visto tornare dalla battaglia due suoi figli. Quando i soldati lo notarono molti corsero fuori dal campo per cercare i due giovani o, almeno, i loro corpi. A tarda sera tornò al campo uno dei figli di Paolo Emilio, Scipione, che si era allontanato per seguire i nemici in fuga. Si tratta dello Scipione che sarà vincitore a Numanzia contro i Cartaginesi.
Perseo era fuggito con tutta la cavalleria ma quando incontrò i suoi soldati a piedi quelli litigarono con i cavalieri accusandoli di vigliaccheria. Ne nacque una rissa e Perseo, temendo di essere coinvolto, si portò con il cavallo fuori strada e si tolse la porpora e il diadema per non essere riconosciuto, scese dal cavallo e, tenendo in mano le redini, riprese a camminare. Quelli che erano con lui si allontanarono o rimasero indietro con vari pretesti. Molti disertarono, meno per la paura dei nemici quanto per evitare la collera di Perseo che cercava di scaricare la colpa della sconfitta su quanti lo accompagnavano.
Perseo uccise con un pugnale due del suo seguito che avevano osato farglisi incontro e parlargli con troppa libertà e non restò con lui che due o tre funzionari. Di tutta la sua milizia lo seguirono solo i Cretesi che miravano alle ricchezze che Perseo portava con se. Più avanti Perseo prese a lamentarsi perché gli erano stati sottratti alcuni arredi d'oro che erano stati di Alessandro e pregava piangendo che tutti gli fossero restituiti offrendo il loro valore in denaro, ma quando riebbe indietro gli arredi si rifiutò di pagare.
Perseo navigò fino a Samotracia dove si ricoverò nel tempio di Castore e Polluce. I Macedoni intanto si arresero a Emilio che in breve si trovò ad essere signore della Macedonia. Mentre sacrificava in Anfipoli discese un fulmine sull'altare, incendiò e santificò il sacrificio.
Gneo Ottavio collega di Emilio approdò a Samotracia, non cercò di catturare Perseo nel tempio per rispetto dei Numi, ma gli impediva di riprendere la fuga. Accordandosi segretamente con un cretese di nome Oroande progettò una fuga notturna con la famiglia, ma mentre i fuggitivi con molta difficoltà si calavano dal muro per un'angusta finestra, Oroande prese il largo lasciandoli in potere dei Romani. Questi catturarono i figli di Perseo e li consegnarono a Ione, un tempo favorito di Perseo ed ora traditore e a questo punto Perseo decise di consegnarsi a Gneo Ottavio. Supplicò di essere mandato da Emilio e lo ottenne ma davanti a Emilio si gettò a terra supplicante e cercò di abbracciargli le ginocchia perdendo ogni dignità. Emilio, disgustato, lo sollevò e lo consegnò a Tuberone. Prima di mandare la sua milizia a riposare, Emilio tenne un discorso sulla volubilità della fortuna invitando i giovani a mettere da parte l'orgoglio per la presente vittoria.
Paolo Emilio visitò la Grecia distribuendo donativi tratti dal tesoro di Perseo. A Delfi chiese di sostituire con una sua statua la statua di Perseo. In Olimpia ammirò il simulacro di Giove scolpito da Fidia.
Concedette ai Macedoni di abitare nelle loro terre, liberò le loro città e permise che si governassero con le loro leggi. Li impegnò quindi a pagare annualmente ai Romani cento Talenti, tributo molto inferiore di quello che in passato avevano versato a Perseo.
Indisse spettacoli e giochi, sacrifici solenni e banchetti, curò di onorare i Macedoni secondo il loro grado e anche nel gestire i festeggiamenti si mostrò tanto scrupoloso e preciso da stupire gli stessi Macedoni.
Emilio non volle neppure vedere la grande quantità di oro e d'argento del re, ma l'affidò ai questori perchè la versassero al pubblico erario. Permise ai suoi figli di prendere i libri del re e donò a Elio Tuberone suo genero una preziosa caraffa d'argento.
Prese congedo dai Macedoni raccomandando loro di rispettare buone leggi e mosse verso l'Epiro con l'ordine del senato di affidare ai soldati per il saccheggio le città che avevano aiutato Perseo. Emilio fece chiamare i principali personaggi di quella città e ordinò loro di consegnare entro un giorno stabilito determinate quantità di oro ed argento, ed assegnò loro una scorta di soldati. Ma i soldati si diedero a scorrere e depredare quelle città facendo schiave centocinquantamila persone e devastando settanta città, eppure da tanto sterminio i soldati non ricavarono che undici dracme ciascuno.
Emilio scese a Orico e da lì passò con le sue forze in Italia e navigò nel Tevere con la nave regia ornata di porpora e di armi prese in guerra. La gente uscì dalla città per andare festosamente incontro alla nave. Ma i soldati che non si ritennero adeguatamente ricompensati ardevano segretamente di sdegno e cominciarono ad accusare Emilio di essere troppo rigido e imperioso e si mostravano non pronti a favorire le sue aspettative sul trionfo.
Servio Galba, nemico di Emilio, sparse tra i soldati molte calunnie contro di lui, parlamentò con i tribuni della plebe perdendo tempo per rendere impossibile un trionfo in quella stessa giornata. Durante la notte i soldati, cospirando con Galba, occuparono il Campidoglio.
Fattosi giorno si indissero le votazioni e la prima tribù rifiutò il trionfo. La notizia giunse anche al senato , la moltitudine ebbe sommo rincrescimento nel vedere Emilio tanto vilipeso, i senatori più ragguardevoli si preoccuparono di frenare l'impeto dei soldati se questi reagissero violentemente ai voti contrari al trionfo di Paolo Emilio. I senatori salirono al Campidoglio e dissero ai tribuni di sospendere le votazioni. Parlò Marco Servilio, prestigioso uomo consolare e descrisse rapidamente i meriti di Paolo Emilio e deprecando che la popolazione, dopo aver esultato per la prima incerta notizia di vittoria, ora che il vincitore era salvo e presente volesse negargli il trionfo.
Servilio mostrò le sue cicatrici quindi scese fra la gente per conoscere quali fossero quelli che ostacolavano il trionfo di Paolo Emilio. La soldatesca, umiliata, cambiò atteggiamento e, procedendo a nuove votazioni, fu finalmente decretato il trionfo.
Furono montati palchi nei circhi e nelle piazze per poter ammirare il passaggio del corteo trionfale, tutti i templi erano aperti e ornati di ghirlande, gli addetti tenevano libere le vie allontanando quelli che camminavano nel mezzo.
La pompa fu distribuita in tre giorni. Il primo giorno sfilarono duecentocinquanta bighe con i simulacri, le pitture e colossi presi in guerra. Nel secondo, sopra molti carri furono mostrate le più belle e sontuose delle armi prese ai Macedoni. Nel terzo giorno sfilarono centoventi buoi ben nutriti con le corna dorate, adorni di corone e di bende, i giovanetti che li conducevano al sacrificio erano fregiati di eleganti cinture, venivano appresso bambini con vasi d'oro e d'argento per le libagioni.
Dopo questi carri passarono tremila uomini con le monete d'argento in 750 vasi, ognuno dei quali pesava tre talenti ed era portato da quattro uomini. Seguivano settantasette vasi da tre talenti colmi di monete d'oro.
Seguirono coloro che sostenevano la sacra fiala d'oro adornata di pietre preziose offerte da Emilio. Veniva poi su un cocchio Perseo medesimo con le sue armi e il diadema. Dopo un breve intervallo venivano condotti i figli di Perseo con i loro precettori che piangevano e indirizzavano al pubblico gesti di supplica. Erano due maschi e tre femmine troppo piccoli per capire il cambiamento del loro stato, la gente li guardava con compassione, qualcuno pianse.
Perseo procedeva tra le persone che erano state al suo servizio, vestito in modo dimesso. Lo seguivano amici e familiari. Segui Emilio sopra un cocchio pomposamente adornato, con una porpora sparsa d'oro e un ramo di lauro nella destra. Il suo esercito lo seguiva in manipoli e centurie cantando inni solenni e canzoni satiriche.
La felicità di Emilio era amareggiata dalla morte per malattia dei suoi figli minori. Emilio seppe comportarsi in modo che le cose buone coprissero le cattive, i vantaggi pubblici i danni privati senza offendere la dignità della vittoria.
Due giorni dopo il trionfo convocò l'assemblea e descrisse rapidamente al popolo i punti salienti della sua impresa sottolineando come la fortuna volle compensare la sua vittoria con una tragedia personale, senza rivalersi sul pubblico bene. Constatò amaramente di essere rimasto senza successori (gli altri due figli erano stati adottati da altre famiglie) e che mentre lo sconfitto Perseo aveva ancora i suoi figli, il vincitore non ne aveva più.
Provando pietà per Perseo, Emilio lo fece trasferire dal carcere in un luogo più degno dove poter vivere più dignitosamente ma Perseo da allora si astenne dal mangiare morendo presto di inedia. Morirono anche la figlia di Perseo ed uno dei suoi figli, l'altro fu allevato nelle lettere e nella lingua dei Romani e fu poi impiegato come scrivano dai magistrati.
Emilio aveva portato tanto denaro all'erario che non fu più necessario ai Romani pagare le tasse fino ai tempi della prima guerra tra Antonio e Ottaviano. Onorato e favorito dal popolo, Emilio si mantenne fedele all'aristocrazia. Paolo Emilio fu nominato censore, carica la più ragguardevole che dava la possibilità di indagare sui costumi altrui. Durante la sua censura furono contati trecentotrentasettemilaquattrocentocinquantadue uomini. Nominò Marco Emilio Lepido principe del senato e ne scacciò tre senatori, fu moderato nell'inquisire sui cavalieri.
Dopo questo incarico fu colpito da una malattia inizialmente molto pericolosa che in progresso di tempo divenne meno grave ma rimase comunque molesta e difficile da guarire.
Consigliato dai medici si ritirò in Elea d'aItalia (Velia nella Magna Grecia) e vi si trattenne per molto tempo mentre a Roma la gente si dimostrava ansiosa di rivederlo. Alla ricorrenza di un certo sacrificio al quale era previsto che partecipasse, Emilio si fece forza e tornò a Roma dove offrì il sacrificio insieme agli altri sacerdoti tra il popolo giubilante.
Il giorno dopo offrì un altro sacrificio di ringraziamento per la sua guarigione ma quando rientrò in casa e si mise a letto diventò frenetico e uscì di senno. Il terzo giorno morì.
Le sue esequie furono meravigliose per l'oro e l'avorio degli apparati ma soprattutto per l'onore, l'affetto, i sentimenti favorevoli che si mostravano verso di lui anche dai nemici.
Iberi, Liguri, Macedoni che si trovavano casualmente presenti collaborarono a portare la bara, i più anziani chiamavano chiaramente Emilio con il nome di benefattore e salvatore della patria. Dicono che lasciò ai figli una modesta eredità ma Scipione, che viveva con una doviziosa famiglia, lasciò la sua parte al fratello.

Paragone di Timoleonte e Paolo Emilio


Dal confronto tra Timoleonte e Paolo Emilio non risultano grandi differenze. Entrambi combatterono contro avversari illustri e famosi, i Cartaginesi l'uno e i Macedoni l'altro e riportarono entrambi celebri vittorie.
Volendo si potrebbe riconoscere che Paolo Emilio militò con un esercito regolare addestrato e orgranizzato, Timoleonte superò molti tiranni e i Cartaginesi con una milizia fortuitamente raccolta di mercenari che non osservano alcuna regola.
Furono giusti e si conservarono tali nel maneggio delle faccende, ma sembra che Emilio ebbe dalla sua l'educazione ricevuta a Roma mentre Timoleonte si indusse da solo ad essere giusto e onesto e si prefisse come scopo della sua impresa la distruzione dei tiranni.
Stupisce veramente che Paolo Emilio, soggiogato uno stato così grande, non prendesse per se neanche una dracma e non volesse vedere o toccare i tesori conquistati.
Non è da biasimare Timoleonte per aver accettato una casa e un podere, che furono una lecita ricompensa, tuttavia si dimostra più virtuoso chi non accetta premi ai quali avrebbe pieno diritto.
Emilio si mostrò perfetto nell'avversa fortuna e nelle calamità toccate alla sua famiglia, mentre Timoleonte, afflitto per l'uccisione del fratello per venti anni non ebbe il coraggio di comparire nei tribunali e nel foro.
L'evitare qualunque biasimo che si possa incontrare denota un'indole semplice e mansueta, non un animo grande e generoso.