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NUMA POMPILIO

Conclusosi il regno di Romolo nelle circostanze inquietanti che abbiamo descritto, non fu facile trovare un successore: la comunità dei Sabini era abbastanza potente da bilanciare quella latina nelle decisioni, cosicché nella ricerca di un accordo trascorse circa un anno (716-715 a.C.), durante il quale la città conobbe il suo primo interregno.
La prassi dell'interregno, forse comune fra i popoli italici, non aveva precedenti noti nel mondo greco (tanto che Cicerone la definisce invenzione del tutto romana) poiché ha senso solo in una monarchia elettiva e non dinastica, infatti la leggenda narra che fu applicata dopo la morte di ciascuno dei primi quattro re, per cessare di esistere quando - con i Tarquini - Roma passò ad una monarchia di fatto ereditaria.
Dal punto di vista storico, ovviamente, questi eventi non sono documentati, tuttavia sembra verosimile che nel periodo intercorrente fra la morte di un re e l'elezione del successore il potere, almeno negli aspetti inderogabili della quotidiana amministrazione, fosse detenuto dai maggiorenti della città; è significativa peraltro l'idea di una turnazione così rapida dei senatori sul precario trono dell'interrè: per diversi autori si alternavano ogni cinque giorni, per altri addirittura a periodi di dodici ore, organizzati in modo che sei ore cadessero di giorno e sei di notte. In ogni caso periodo talmente brevi da impedire il consolidarsi di qualsiasi progetto di ampio respiro con il chiaro intento di prevenire ogni abuso.
La critica moderna ritiene che la comunità sabina del Quirinale fosse piuttosto autonoma, al punto di poter avere un proprio re e comunque i propri capi. Questo aspetto sarebbe adombrato nella temporanea diarchia di Romolo e Tito Tazio e suggerisce l'idea che la cronistoria dei regnanti del primo periodo di Roma sia stata molto più articolata della sequenza dei sette re tradizionali: ci furono probabilmente periodi in cui una delle due principali componenti etniche della città prevalse sull'altra in modo più o meno pacifico, così come ci furono capi dalla forte personalità che riuscirono ad aggregare la popolazione attorno ad un disegno unitario: forse questo fu il caso del successore di Romolo, Numa Pompilio.

Si dice che Numa fosse sabino e possiamo leggere nelle opere moderne che il gentilizio Pompilio conferma questa ipotesi.
La figura di Numa, così come emerge nella narrazione tradizionale, appare molto più complessa e per qualche verso più realistica di quella del suo predecessore. Mentre Romolo, nato da un dio, allattato dalla lupa, miracolato e miracoloso, è personaggio dai contorni così fiabeschi da escludere a priori qualsiasi riferimento alla vita reale, Numa è presentato con origini del tutto verosimili: è cittadino di Curi, la città di Tito Tazio, figlio di un certo Pompilio Pompone, uomo stimato dai suoi concittadini.
Quando molti abitanti di Curi si trasferirono a Roma, Pompone e la sua famiglia decisero di rimanere in patria e Numa si dedicò allo studio, alla meditazione, alle pratiche religiose, conducendo una vita riservata e frugale.
Sposò Tazia, figlia di Tito Tazio, che fu lieta di rimanere accanto al marito rinunciando agli onori ed ai lussi che la condizione del padre, divenuto re di Roma accanto a Romolo, avrebbe potuto procurarle. Tazia morì dopo dodici anni di matrimonio, prima che Numa divenisse re.
Un personaggio realistico, dunque, nella cui vicenda si presentano però eventi fatali, misteriosi, a volte magici, a cominciare dalla sua nascita avvenuta esattamente nel giorno della fondazione di Roma, particolare questo in cui i Romani vedevano un segno indecifrabile della volontà degli Dei.
Numa fu eletto senza aver presentato alcuna candidatura, anzi quando fu presa la decisione egli si trovava nella sua Sabina, ignaro, intento alle consuete occupazioni.
Plutarco, che fu autore di una biografia di Numa Pompilio comparata con quella del mitico legislatore spartano Licurgo, racconta che l'interregno, nonostante tutte le cautele in esso implicite, faceva pesare sui senatori il sospetto di mire tiranniche e che i senatori, preoccupati, decisero di arrivare al più presto ad una soluzione.
Si stabilì che la fazione latina scegliesse una candidatura fra i Sabini e viceversa, ma quando i Latini proposero Numa Pompilio (evidentemente la sua reputazione era nota anche a Roma) tutti furono d'accordo e si procedette senz'altro ad inviare messi al sabino per proporgli il governo della città.
La delegazione che raggiunse Numa era guidata da Proclo e Veleso, due cittadini prestigiosi che si erano a loro volta candidati; inaspettatamente ricevettero un cortese ma fermo rifiuto: il quarantenne Numa era troppo innamorato dei suoi studi e della pace agreste per accettare di buon grado le responsabilità del governo di una comunità così recente e turbolenta.
Fu necessaria una lunga opera di persuasione da parte degli ambasciatori, di Pompone e di un parente di Numa di nome Marcio per convincere il prescelto ad accettare il regno: a vincere la sua resistenza forse fu l'idea che come re avrebbe avuto maggiori possibilità di rendere onore agli dei e di far del bene agli uomini.
Questa modestia e questa tendenza a rifiutare gli onori sono componenti tipici della figura del buon governante nella mentalità antica: chi aspirava direttamente al potere, chi si adoperava per raggiungerlo, difficilmente riusciva ad evitare il sospetto di mire tiranniche, mentre chi veniva scelto senza essersi proposto e chi, come nel caso di Numa, esitava ad accettare, dimostrava chiaramente di non nutrire interesse personale.
Si trovano vari esempi di questo concetto nella letteratura classica, come il Licurgo di Plutarco al quale si è accennato che addirittura lasciò la patria per un lungo periodo per dimostrare di non aspirare a governarla, o il famoso Cincinnato che dette prova di preferire il lavoro nei campi agli onori capitolini.
Numa infine accettò e si trasferì a Roma dove fu accolto con entusiasmo mentre la sua elezione veniva confermata con una votazione popolare. Scrupoloso com'era nella devozione, volle consultare anche il volere divino e si fece accompagnare dai sacerdoti sul Campidoglio dove furono tratti auspici favorevoli dal volo degli uccelli e finalmente la folla riuscì ad acclamare il nuovo re.
Il programma di Numa fu subito chiaro: si trattava di rendere i Romani più tranquilli, operosi e devoti allontanandoli dalla passione della guerra per stimolare in loro sentimenti più nobili e civili.
Come primo gesto rappresentativo della sua nuova politica pacifista, Numa sciolse la guardia personale istituita da Romolo che contava ben trecento "celeres", almeno così racconta Plutarco che, su questo particolare, non concorda con Dionisio di Alicarnasso.
Si preoccupò quindi di rendere i dovuti onori alla memoria del predecessore: lo fece istituendo l'ufficio del Flamine Quirinale, sacerdote di Quirino, cioè di Romolo divinizzato. Questa carica andò ad affiancare quella del sacerdote di Giove (Flamine Diale) e quella del sacerdote di Marte (Flamine Marziale), mentre il culto romano si polarizzava intorno alla triade Giove-Marte-Quirino a cui si dedicavano le cerimonie più importanti fra cui quella dell'offerta delle "spoglie opime", le armi dei comandanti nemici caduti in battaglia.
In realtà si ritiene che queste istituzioni religiose e sacerdotali, come altre di cui si dirà, tradizionalmente attribuite a Numa Pompilio, siano venute a formarsi in un tempo più lungo di quello di una sola reggenza e in un orizzonte più ampio di quello latino o italico. E' tipico della mentalità degli antichi eruditi ricercare l'autore o il promotore di ogni vetusta istituzione, indicare il nome del fondatore di ogni città o del capostipite di ogni popolo, in poche parole tentare di rendere la storia più facilmente leggibile.
Così Dionisio di Alicarnasso arriva ad immaginare una precisa riforma sistematica del culto e delle istituzioni religiose che avrebbe ridistribuito fra vecchie e nuove istituzioni tutte le incombenze religiose e le pratiche rituali.
Le cerimonie assegnate ai "Trenta Curioni" furono riviste e codificate, così quelle spettanti ai comandanti della milizia ed agli auguri.
I Salii Palatini (ai quali Tullo Ostilio affiancherà i Salii Agonali) erano dodici giovani di condizione patrizia. Le loro cerimonie, che si svolgevano a marzo durante le "Quinquatria", erano dedicate a Marte Gradivo e consistevano in danze e canti che i giovani eseguivano armati di scudo e lancia, attraversando in processione tutta la città.
Le Vestali erano sacerdotesse della dea Vesta il cui culto fu importato a Roma dallo stesso Numa Pompilio che costruì per la dea il primo tempio circolare.
Anche in questo caso si deve considerare il racconto tradizionale con ogni cautela, tuttavia molti indizi confermano l'antichità del culto di Vesta a Roma che risale a periodi che si possono far coincidere con l'epoca dei primi re.
L'antico santuario della dea venne costruito nella valle del Foro, fuori dal recinto della Roma Quadrata, ma in un luogo certamente abitato fin dall'età del bronzo e - verosimilmente - già in precedenza consacrato a questo culto.
La sua forma circolare rappresentava la Terra (con cui la dea si identificava) o, secondo Plutarco, l'Universo che i pitagorici immaginavano sferico, ma non manca fra gli studiosi moderni chi ha ravvisato in questa forma la memoria della capanna preistorica. Come la capanna, infatti, il santuario doveva custodire il focolare per tutta la città, simbolo della dea che "suscita il fuoco celeste da se stessa".
Il culto di Vesta comprendeva aspetti misteriosi e di sapore chiaramente primitivo, come la conservazione del fuoco sacro il cui spegnimento accidentale era uno dei presagi più funesti che potessero presentarsi.
Misteriose erano anche le reliquie che si custodivano nel tempio, alle quali solo le sacerdotesse avevano accesso: si trattava di oggetti connessi con le leggende di Dardano, di Troia, di Enea. Qualche autore parla del Palladio, la statua di Atena miracolosamente apparsa a Troia in tempi remoti e portata in Italia dal fuggiasco Enea. Probabilmente la superstizione attribuiva a questi oggetti grande importanza fino forse a far dipendere dalla loro conservazione il destino di Roma, si pensi che quando nel 241 a.C. un incendio distrusse il tempio, Lucio Cecilio Metello, celebre vincitore dei Cartaginesi, rischiò la vita per portarli in salvo.
Inizialmente le Vestali erano quattro, più tardi divennero sei per volere di Tullo Ostilio. Plutarco cita i nomi delle prime quattro sacerdotesse consacrate da Numa: Gegania, Verenia, Canuleia, Tarpea.
Venivano scelte giovanissime ed il loro ufficio durava trent'anni; nel primo decennio, novizie, venivano educate a svolgere quelle funzioni sacerdotali alle quali avrebbero dedicato il secondo. Negli ultimi dieci anni curavano l'educazione delle novizie destinate a prendere il loro posto. Allo scadere del trentennio erano libere di sposarsi ma non lo facevano quasi mai perché una credenza voleva che il matrimonio di una ex Vestale fosse sgradito agli dei e ne derivasse agli sposi ogni sorta di sciagura.
Le Vestali erano particolarmente onorate a Roma, godevano di diritti normalmente preclusi alle donne, come la possibilità di fare testamento mentre il padre era ancora in vita e di compiere atti legali senza l'assistenza di tutori. La religiosità popolare attribuiva loro prerogative particolari originate dalla vicinanza della dea, così se un condannato a morte, durante il tragitto che lo conduceva al luogo dell'esecuzione incontrava per caso una Vestale questa veniva consultata: bastava che giurasse di non aver concordato l'incontro con il reo perché questo venisse lasciato libero grazie alla benevolenza che - evidentemente - la dea aveva voluto esprimere nei suoi confronti guidando i passi della sacerdotessa.
Per contro il loro ordine era regolamentato da una severissima disciplina: ogni colpa, ogni inadempienza era punita con dure pene corporali ma il peggiore dei crimini, la perdita della verginità, si pagava con la vita senza alcuna possibilità di appello.
La Vestale che si era macchiata di lussuria aveva, secondo i Romani, offeso direttamente la dea rendendo impuro il tempio. Veniva condotta in una cella sotterranea presso la Porta Collina, accompagnata da un lugubre corteo al cui passaggio la folla doveva assistere nel massimo silenzio, e quindi murata viva.
Grande doveva essere la soggezione, forse lo sgomento, che il tempio di Vesta con le sue sacerdotesse doveva incutere nel popolino superstizioso: ne sono testimonianza alcune leggende che ci sono state tramandate, come quella della Vestale Emilia accusata di aver lasciato spegnere il fuoco sacro. Durante il processo chiese aiuto alla dea, stracciò la propria veste e ne gettò un lembo sulle ceneri facendo scaturire una grande fiamma che riaccese il fuoco e dimostrò la sua innocenza.
Anche la Vestale Tuccia fu aiutata dalla dea: calunniata ingiustamente dimostrò la propria rettitudine chiedendo alla dea, ed ottenendo, di poter trasportare l'acqua del Tevere con un setaccio.

Ancora a Numa Pompilio gli eruditi attribuivano l'istituzione dei Pontefici. La carica, che secondo alcune fonti fu assunta per la prima volta direttamente da Numa, secondo altre dal suo parente Numa Marco, comprendeva il compito di sovrintendere a tutte le cerimonie religiose pubbliche e di dettare i parametri ortodossi della liturgia privata.
Queste funzioni di ordinamento e di codifica del culto dovevano essere particolarmente importanti e necessarie in un periodo storico in cui la materia eterogEnea delle numerose e differenti componenti etniche della società romana non era ancora del tutto amalgamata: alle divinità ed alle credenze latine si affiancavano quelle di origine sabina, quelle degli Etruschi e forse, per il tramite di questi, già alcuni apporti della cultura greca.
Del lungo processo di formazione del Pantheon romano potrebbe essere testimonianza implicita l'attribuzione a Numa di alcune importazioni cultuali: oltre a Vesta, di cui si è detto, Numa istituì infatti il culto degli Inferi incaricando i Pontefici di istruire il popolo sui riti relativi alla sepoltura, al lutto ed alla vedovanza.
Creò il collegio dei Feziali, particolari sacerdoti la cui funzione consisteva nel trattare con i popoli limitrofi per evitare nuove guerre nonché nell'aprire le ostilità quando vedevano fallito ogni tentativo di conciliazione.
L'istituzione aveva precedenti italici come i sacerdoti Equicoli di Ardea ricordati in proposito da Dionisio di Alicarnasso. In pratica i Feziali erano il corpo diplomatico dello stato romano, Numa li avrebbe istituiti quando fu sul punto di combattere contro i Fidenati ed avrebbe evitato il conflitto grazie alla loro mediazione. I Feziali dovevano vigilare sul rispetto dei trattati di pace o di alleanza, interloquivano con gli ambasciatori stranieri e, se del caso, davano soddisfazione a chi denunciava loro un offesa subita ad opera dei Romani arrestando i colpevoli e consegnandoli alla parte offesa.
L'antichità ci ha tramandato alcune testimonianze del rituale seguito dai Feziali in caso di contestazione presso altre città. Ad andare in missione era un solo Feziale, scelto di volta in volta dai suoi colleghi. Al suo arrivo chiamava le prime persone che incontrava a testimoni della sua pacifica entrata in città, quindi chiedeva di essere ricevuto dai governanti.
Dopo aver discusso la questione con chi avesse il potere di darne soddisfazione, il Feziale concedeva un tempo limite entro il quale avrebbe atteso una risposta al suo appello. Generalmente queste contese nascevano per danneggiamenti ed incursioni in territorio romano, offese ai cittadini di Roma, violazione dei confini: se allo scadere del termine stabilito il Feziale non vedeva soddisfatte le proprie richieste di risarcimento ed eventualmente di consegna dei colpevoli, rimetteva la questione nelle mani del Senato perché decidesse se aprire le ostilità. Se non veniva svolta questa procedura la guerra non poteva essere dichiarata né dal Senato né dall'assemblea popolare. Le violazioni a questa regola, quando si verificavano, erano considerate di pessimo auspicio, foriere di guerre nefaste ed ingiuste. A questo proposito Plutarco cita l'esempio della terribile guerra contro i Galli del 390 a.C., culminata con il sacco di Roma, che sarebbe dipesa dall'iniziativa di un ambasciatore (Quinto Fabio Ambusto) senza dar luogo, appunto, alla missione dei Feziali.
Tutti gli antichi autori concordano nel vedere nello zelo di Numa in materia religiosa e liturgica un metodo per coinvolgere la cittadinanza in occupazioni non militari e mettere a punto la sua politica pacifista. Singolarmente molti aspetti del pensiero di Numa Pompilio e delle riforme da lui introdotte ricordano i dettami della scuola pitagorica: così il divieto di erigere statue agli dei che erano considerati incorporei e quindi non rappresentabili fisicamente, così l'istituzione di sacrifici incruenti, così altre prescrizioni rituali di stampo superstizioso come il divieto di attizzare il fuoco con la spada o la regola di partecipare in numero dispari alle cerimonie dedicate agli dei superi ed in numero pari a quelle per gli dei inferi.
Da queste analogie nacque la credenza che faceva di Numa un allievo del filosofo di Samo, credenza che non poteva aver alcun fondamento per motivi cronologici essendo Pitagora vissuto alcune generazioni più tardi del periodo di cui stiamo parlando.
Contribuì alla formazione di questa tradizione, forse, anche il sapore "misterico" di molte leggende connesse alla figura del re sacerdote e pacifista, a cominciare dalla sue nozze segrete con la ninfa Egeria, mitica abitatrice dei boschi che sarebbe divenuta sua sposa e consigliera durante i ritiri spirituali che il re si concedeva per meditare sui gravosi compiti del suo mandato.
Questa unione dell'umano con il soprannaturale segue un modello più volte sfruttato per conferire all'operato di un potente la convalida di una partecipazione divina, molti re e legislatori delle leggende classiche fanno infatti affidamento sul conforto degli dei nelle loro decisioni, conforto ottenuto - come nel caso di Numa - con misteriose frequentazioni opuure (e più spesso) con la consultazione degli oracoli.
Così ogni nuova istituzione rituale aveva, agli occhi del popolo, l'autorità di un suggerimento o di un comandamento divino, si trattasse delle strane danze dei Salii, si trattasse della riforma del calendario.
In questo spirito, che permea la formazione della leggenda di Numa, si collocano altri eventi prodigiosi come l'apparizione dello scudo ancile. Correva l'ottavo anno del regno di Numa ed il re aveva concentrato tutta la devozione sua e del popolo in solenni rituali volti ad allontanare la brutta pestilenza che affliggeva Roma, provocata dai fulmini scagliata da Giove adirato.
Numa consultò Egeria e questa gli consigliò di rivolgersi a Pico e Fauno, personaggi della più antica mitologia italica: tuttavia questi numi silvestri dalla natura selvatica e poco socievole avrebbero aiutato il re solo se costretti con la forza. Astutamente Numa li attirò con offerte di vino per catturarli addormentati dopo le libagioni e li costrinse a recitare un rituale misterioso che aveva l'arcano potere di far scendere sulla terra Giove in persona. Terribile apparizione quella del signore degli dei che, adiratissimo, pretende un sacrificio umano, ma Numa fu così abile nell'eludere la richiesta che Giove, divertito, finì per placare la propria ira e promettergli un segno certo di comando.
Il poeta Ovidio, dai cui "Fasti" abbiamo appreso questo racconto, riferisce che il mattino seguente lo scudo ancile cadde dal cielo direttamente nelle mani del re e le disgrazie inviate da Giove ebbero fine. Fu in quell'occasione, si dice, che Numa istituì il collegio dei Salii e le danze cerimoniali in segno di ringraziamento verso la benevolenza divina.
Temendo il furto della miracolosa reliquia, Numa ne fece fare undici copie perfette commissionandole ad un artefice abilissimo di nome Mamurio o Mamuzio il quale chiese come solo compenso l'onore di essere ricordato nei canti dei Salii.

Dall'austera reggia che si era fatto costruire presso il tempio di Vesta, Numa regnò per ben 43 anni durante i quali le "porte della guerra" restarono chiuse. Erano queste le porte del tempio di Giano che rimaneva chiuso sono in tempo di pace: dopo Numa, in tutta la storia di Roma, quelle porte si chiuderanno soltanto due volte, nel 235 a.C. quando erano consoli Attilio Bulbo e Tito Manlio Torquato e, molto più tardi, durante il regno di Augusto.
Considerando nel loro insieme le molte riforme ed istituzioni religiose che la tradizione attribuisce a Numa Pompilio, si vede con chiarezza l'intenzione di consacrare in qualche modo gli elementi sostanziali del diritto e della vita sociale con il crisma della leggenda, così l'istituzione delle corporazioni professionali, basate sul mestiere dei membri e dotate di una propria autonomia decisionale, viene fatta risalire al secondo re di Roma dagli antiquari classici (mentre per gli studiosi moderni si tratta di vicenda del quinto secolo).
Riformatore religioso per eccellenza, Numa avrebbe introdotto anche il culto di Termine, il nume tutelare dei confini, istituendo la festa annuale dei "Terminalia": un modo per conferire dignità religiosa e morale al concetto di proprietà privata ed alla distinzione di questa dalla cosa pubblica.
Ancora in materia civile si racconta che Numa fece concessioni alla plebe distribuendo beni pubblici e terreni facenti parte dell'eredità di Romolo, alcune fonti gli attribuiscono anche l'annessione del Quirinale al territorio cittadino, ma la sua riforma più famosa ed importante fu quella del calendario.
Si trattò, per Roma, del primo calendario soli-lunare, si ritiene infatti che in precedenza si misurasse il tempo facendo riferimento ai soli cicli della luna. Con il nuovo calendario si distinsero dodici mesi di cui quattro di trentuno giorni, sette di ventinove ed uno di ventotto. Per arrivare ad un calendario capace di far corrispondere con maggior esattezza le lunazioni con le stagioni solari si dovrà attendere la riforma di Giulio Cesare.
I Romani usavano contrassegnare i giorni con una sigla che indicava le attività che si potevano svolgere durante i giorni stessi: la lettera C (Comitialis) era per i giorni in cui si potevano tenere comizi ed assemblee; nei giorni "fasti" che il romano riconosceva con la lettera F, si trattavano affari e si svolgeva l'attività giudiziaria ma non era lecito convocare assemblee; la lettera N indicava invece i giorni "nefasti" in cui erano vietati sia gli affari che le assemblee.

La lunga vita di Numa si concluse intorno agli ottanta anni, per una malattia lunga ma non dolorosa; le sue esequie solenni videro la partecipazione del popolo romano e delle genti di molte città vicine presso le quali il re godeva fama di grande mistico e di insigne legislatore. Così come aveva disposto, Numa fu sepolto ai piedi del Gianicolo in un'arca di pietra, in un'altra arca nelle vicinanze vennero chiusi i suoi scritti perché il re volle che il suo pensiero fosse tramandato soltanto tramite i sacerdoti che, in qualche modo, erano stati i suoi allievi (ancora un'analogia con la scuola pitagorica).
Dopo Tazia, secondo molti autori, Numa non ebbe altre mogli a meno che i suoi incontri esoterici con la ninfa Egeria non vengano considerati alla stregua di un nuovo matrimonio. Alcune fonti parlavano invece di una seconda moglie di nome Lucrezia. Anche sui figli le voci degli antichi non sono concordi: tutti riconoscono che ebbe una figlia, Pompilia, moglie del senatore sabino Marcio che si candidò alla successione e che si uccise vedendosi battuto da Tullo Ostilio; secondo qualcuno, tuttavia, ebbe anche quattro figli maschi: Pompone, Pino, Calpo e Memerco, mitici progenitori delle casate dei Pomponii, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci.
Cinque secoli dopo la morte di Numa, erano consoli Publio Cornelio Cetico e Marco Bebio Tamfilo (181 a.C.), una grande alluvione sconvolse il terreno della sua sepoltura riportando alla luce le due arche: quella che aveva contenuto le spoglie mortali del re era ormai completamente vuota mentre nell'altra furono rinvenuti degli scritti. Ritenendo sacrilego divulgare quei testi che Numa aveva voluto seppellire, il Senato stabilì che fossero bruciati.