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Marco Tullio Cicerone

FILIPPICHE


FILIPPICA I


Prima di entrare nel merito della situazione politica, Cicerone vuole esporre le ragioni della sua recente assenza da Roma e del suo ritorno. Dalla prima convocazione del Senato (17 marzo 44 a.C.) successiva alla morte di Cesare, l'oratore si era adoperato per la pacificazione civile. In quell'occasione Marco Antonio si era mostrato disponibile a cercare la pace e l'accordo con il Senato e nei mesi successivi, insieme al collega nel consolato Publio Cornelio Dolabella, se era comportato in modo coerente a questa intenzione.
Ma il primo giugno, giorno di seduta del Senato, tutto era cambiato: i senatori venivano messi da parte, i cesaricidi si tenevano lontano da Roma, c'era chi incitava i veterani ad accampare nuove ed ambiziose pretese, tutto in un clima di pericolosa eccitazione.
Preferendo non assistere a questa situazione Cicerone era partito per la Grecia, deciso a tornare a Roma entro il primo gennaio, data per la quale era fissata una convocazione del Senato.
Quanto al suo ritorno Cicerone racconta che dopo una breve tappa a Siracusa si era imbarcato alla volta della Grecia ma il vento per due volte aveva respinto la sua nave che era approdata a Reggio. Qui delle persone da poco giunte da Roma gli avevano mostrato il testo di un discorso di Antonio e di un editto di Bruto e Cassio che lo avevano molto soddisfatto in quanto sembrava prossimo un accordo e si poteva sperare che Antonio si sottomettesse all'autorità del Senato. Queste notizie avevano fatto decidere all'oratore di tornare immediatamente a Roma.
In Lucania aveva incontrato Bruto e si era addolorato nel vederlo costretto a stare lontano da Roma. Bruto gli aveva parlato di un discorso in Senato di Lucio Calpurnio Pisone che aveva duramente attaccato Antonio accusandolo di approfittare della situazione a proprio vantaggio.
Cicerone era giunto a Roma il 31 agosto appena in tempo per la seduta del Senato del primo settembre alla quale Antonio gli aveva espressamente ordinato di partecipare ma l'Arpinate non si era presentato giustificando l'assenza con la stanchezza del viaggio e Antonio aveva pronunciato un'invettiva contro di lui minacciando addirittura di far demolire la casa dell'oratore.
All'ordine del giorno di quella seduta era il tributare onori divini alla memoria di Cesare e Cicerone fa notare ai suoi ascoltatori che se fosse stato presente avrebbe certamente votato contro quella proposta che i senatori avevano invece approvato sia pure a malincuore.
Da parte sua Cicerone avrebbe preferito partecipare alla riunione del primo agosto per sostenere Lucio Pisone che aveva avuto il coraggio di accusare Antonio e di riaffermare gli ideali repubblicani fra l'indifferenza generale.
Alla riunione odierna, presieduta dal console Dolabella, Antonio è assente. Cicerone affronta l'argomento della validità dei documenti lasciati da Cesare ed ora in possesso di Antonio. Per l'oratore i veri "atti" di Cesare sono le leggi da lui emanate e a suo tempo approvate dal Senato la cui validità non può essere messa in discussione. Così la legge che limitava nel tempo l'esercizio del governo delle province, così quella che limitava l'accesso ai collegi dei giudici.
Ora Antonio vorrebbe modificare quest'ultima in base ad un appunto che sostiene di aver trovato fra le carte di Cesare, estendendo la professione di giudice anche ai centurioni. In realtà la norma vigente non escludeva alcun cittadino purché almeno di condizione equestre e dotato di un censo minimo. L'ammissione dei centurioni in quanto tali al collegio dei giudici appare quindi come una misura demagogica che Cicerone, mimando un dialogo con l'assente Antonio, decisamente respinge.
Si vorrebbe poi varare una legge che consenta ai condannati per violenza o per lesa maestà la facoltà di appellarsi al popolo (le leggi di Cesare prevedevano che questo tipo di condanna fosse inappellabile). E' un'aberrazione, afferma Cicerone, che proprio chi ha leso la maestà del popolo romano al popolo si appelli per essere assolto. In realtà si vorrebbe evitare questo tipo di processi perché nessun accusatore rischierebbe di essere esposto, a condanna ottenuta, alla furia di una folla prezzolata.
L'oratore ribadisce che le leggi emanate da Cesare sono del tutto valide e si augura che quelle da lui proposte e non ancora approvate (concessione di cittadinanza, condoni fiscali, ecc.) incontrino il favore del Senato in quanto le cose più importanti sono la concordia e l'ordine pubblico. Spera di sbagliare se prevede che presto il Foro sarà circondato di armati e le decisioni imposte con la violenza e non con le leggi.
Rivolgendosi a Dolabella, Cicerone propone che i consoli rispettino la libertà di opinione dei cittadini ed afferma di avere il diritto di esprimere il proprio parere sulla situazione politica senza che questo costituisca un'offesa personale nei confronti del collerico Antonio.
Come è stato notato, Cicerone in questa Filippica fa uso di grande diplomazia, infatti ad ogni attacco ai suoi avversari fa corrispondere un elogio della loro vita e del loro passato. Si dice sicuro che Antonio e Dolabella non aspirino al potere dittatoriale o a illeciti guadagni ma soltanto alla gloria. Ma la gloria, avverte l'anziano consolare, è fatta dell'approvazione, del consenso, del plauso dei concittadini per le azioni giuste e buone che vengono compiute. Lo ha sperimentato lo stesso Dolabella qualche tempo prima sventando la cospirazione di un personaggio che, fingendosi discendente di Caio Mario, aveva tentato un colpo di stato. In quell'occasione Dolabella aveva ricevuto l'elogio, l'ammirazione e la gratitudine di tutti i Romani a prescindere dalla loro condizione sociale e dall'orientamento politico.
Analoga esperienza aveva vissuto Antonio quando si era opposto alla nomina consolare di Dolabella e subito dopo la morte di Cesare lo aveva riconosciuto come collega dimenticando ogni rivalità in nome della concordia e dell'interesse della repubblica ed aveva suscitato uno spontaneo coro di acclamazioni ed applausi da parte di quanti avevano ascoltato il suo discorso.
Cicerone teme che Antonio e Dolabella non abbiano compreso quale sia la via che porta alla vera gloria, che confondano il consenso con il potere, l'essere amati con l'essere temuti. Eppure la recente morte di Cesare dovrebbe essere loro di monito e farli riflettere su cosa significhi che i suoi assassini rimangano impuniti e ricevano la gratitudine del popolo che hanno liberato.
Perché, si chiede l'Oratore, Marco Antonio dopo aver reso tanti preziosi servizi allo Stato, dopo aver abrogato il termine "dittatore", aspira ora a prendere il potere con la violenza? La sua nota onestà esclude che si tratti di avidità, la sua fermezza nega che possa essere stato influenzato da parenti ed amici. Dunque Antonio è solamente in errore e per comprendere da che parte sia la giustizia deve riflettere sui molti segnali che il popolo ha lanciato dopo la morte di Cesare, sui lunghi applausi alla statua di Pompeo durante i giochi e gli spettacoli teatrali, sulla stima e l'affetto pubblicamente indirizzati all'assente Bruto, il principale dei cesaricidi, e si renda conto che un popolo che con questi segnali esprime un preciso giudizio può certamente maturare una decisione sul futuro di Antonio e Dolabella.
Con questa larvata minaccia si conclude l'orazione e Cicerone si compiace di aver potuto ancora una volta parlare al Senato e di essere stato ascoltato con benevolenza. Si ripromette di esprimere liberamente il proprio pensiero in futuro ogni qual volta ne avrà l'occasione. Del resto, conclude, quel che gli resta da vivere più che a lui stesso appartiene alla Repubblica.

La prima Filippica fu pronunciata il 2 settembre 44 a.C., presiedeva la seduta Publio Cornelio Dolabella


FILIPPICA II


Con questa orazione, che non fu pronunciata ma pubblicata per iscritto, Cicerone rispondeva al discorso con il quale Antonio, nella seduta del Senato del 19 settembre 44 a.C., in sua assenza, lo aveva duramente attaccato.
Cicerone inizia con il paragonare l'ostilità di Antonio nei suoi confronti con quella a suo tempo manifestata da Catilina e da Clodio, ma quella di Antonio era meno comprensibile in quanto Cicerone non aveva mai fatto o detto qualcosa contro di lui. Antonio lo aveva accusato di aver infranto la loro amicizia per aver preso parte ad un processo nel quale la parte avversa era difesa dallo stesso Antonio. Ma questo era nel pieno diritto di ogni avvocato e, pur non parlando delle circostanze di quel processo, Cicerone difende la legittimità del suo comportamento.
Antonio ha parlato di ingratitudine di Cicerone perché durante gli eventi di Brindisi aveva evitato di farlo morire (come era accaduto ad altri avversari di Cesare), ma il non commettere un assassinio non sembra essere opera di grande favore quanto il commetterlo sarebbe ingiusto. Del resto l'oratore si è sempre detto ed è sempre stato grato ad Antonio per questo. E la sua gratitudine è dimostrata dalla moderazione della precedente Filippica nella quale l'oratore si è sempre rivolto ad Antonio con parole contenute evitando di additare apertamente le sue colpe ed i suoi vizi.
Antonio è arrivato a dare pubblica lettura di una lettera indirizzatagli privatamente da Cicerone e questo costituisce una grande scorrettezza ed è anche molto stupido in quanto egli non potrebbe dimostrare l'autenticità della missiva, che tuttavia Cicerone non ricusa e che del resto non conteneva nulla di ostile o di offensivo.
Antonio ha attaccato nel suo discorso le azioni compiute da Cicerone molti anni prima durante il suo consolato, eppure il consolato di Cicerone fu approvato da tutti i senatori dell'epoca; l'Arpinate ne cita diversi e si sofferma sui due ancora vivi, Lucio Aurelio Cotta, che propose per lui onori straordinari, e Lucio Giulio Cesare, zio di Antonio. Quest'ultimo, secondo Cicerone, era l'esempio che Antonio avrebbe dovuto seguire invece di imitare il suo patrigno Publio Cornelio Lentulo Sura presso il quale era stato educato (Lentulo fu radiato dal Senato e successivamente giustiziato perché coinvolto nella congiura di Catilina).
Molto lontano dalla diplomazia usata nella prima Filippica, Cicerone reagisce qui duramente all'attacco di Antonio e prende a denunciare i suoi costumi privati dissoluti e viziosi e l'arroganza con la quale osa far vigilare il Senato da un manipolo di armati, non senza deridere argutamente la rudimentale eloquenza dell'avversario.
Antonio ha accusato Cicerone di aver istigato Milone ad uccidere Clodio ma Milone non aveva bisogno di sollecitazioni, del resto lo stesso Antonio aveva aggredito Clodio che si era a stento messo in salvo, e lo aveva fatto con il plauso di Cicerone ma non certo su suo consiglio.
Un'altra grave accusa da parte di Antonio non viene del tutto respinta: Cicerone avrebbe provocato la discordia fra Cesare e Pompeo originando la guerra civile. L'oratore ammette di aver più volte consigliato a Pompeo di opporsi a Cesare, ma quando nonostante tutti i suoi suggerimenti Pompeo si alleò a Cesare fu proprio Cicerone a sperare ed augurare che l'alleanza durasse, appunto per evitare la guerra. Se Pompeo lo avesse ascoltato non sarebbero accadute tante disgrazie e lo stesso Antonio, lontano dal potere, sarebbe caduto sotto il peso della propria infamia.
Quanto all'aver preso parte alla congiura dei cesaricidi, come Antonio ha affermato, Cicerone considera l'affermazione una lusinga più che un'accusa, ma non è così ed il suo nome non avrebbe potuto rimanere occulto quando sono noti i nomi di tutti i congiurati. Del resto Bruto e Cassio, appartenenti a casate di antica tradizione repubblicana, non avevano bisogno di ulteriori stimoli per prendere la loro decisione, e ciò si può dire anche di altri congiurati come Gneo Domizio, Gaio Trebonio, Lucio Tillio Cimbro, Publio Servilio Casca e Gaio Servilio Casca.
L'uccisione di Cesare è stata approvata da tutti i cittadini onesti perchè ha liberato lo stato dalla tirannia, Bruto e Cassio hanno ricevuto onori e privilegi per volontà dello stesso Antonio. Dunque Antonio non si rende conto delle proprie contraddizioni: se il cesaricidio è stata un'azione giusta quale sarebbe la colpa di Cicerone se pure vi avesse partecipato? Se invece è stato un turpe assassinio perché Antonio ha premiato i suoi principali artefici? Un console in carica quale Antonio, sostiene l'Arpinate, non può avere idee confuse su una questione così importante.
D'altro canto il primo ad aver beneficiato della morte di Cesare è stato proprio Antonio che avendo libero accesso a documenti e registri ha potuto mistificarne il contenuto per risolvere la sua grave situazione debitoria.
Cicerone passa alle accuse che considera meno gravi: l'essere stato amico di Pompeo è per lui motivo di orgoglio, non di vergogna; il non essere stato mai nominato erede di qualcuno - come Antonio ha detto - non è vero, piuttosto Antonio dovrebbe ammettere di aver agito con la frode per impadronirsi di eredità di sconosciuti che certamente non gli spettavano.
Avendo risposto a tutte le accuse, Cicerone passa a contrattaccare. Lo farà in modo sistematico, avverte, ma tenendo in serbo parte degli argomenti per le future occasioni. Inizia dall'età giovanile di Antonio: ancora adolescente era già in bancarotta, prese a prostituirsi per denaro finché Gaio Scribonio Curione non fece di lui il proprio amante fisso. Cicerone stesso fu coinvolto dalla famiglia di Curione per risolvere questa situazione scandalosa e convincere il padre a pagare i debiti del figlio salvandolo da altri disonori.
Come si è già detto Antonio tentò di uccidere Clodio, dopo essere stato suo sostenitore per farsi perdonare da Cicerone con il quale si era già riconciliato per intercessione di Cesare.
Eletto questore militò con Cesare per poter pagare, grazie alle donazioni di questi ed ai suoi saccheggi, i suoi pesantissimi debiti. Poco dopo era di nuovo in miseria e tentò di rifarsi con la carica di tribuno della plebe, in questa veste oppose il veto ai provvedimenti del Senato contro le proposte di Cesare nel 49 a.C. (Cesare si diceva disposto a deporre ogni comando se Pompeo avesse fatto altrettanto) e non valse a convincerlo alcun tentativo di persuasione. Il Senato dovette votare un provvedimento straordinario che, sospendendo le garanzie costituzionali, annullava il diritto di veto dei tribuni.
Rifugiatosi presso Cesare, Antonio aveva ottenuto da questi tutto il potere necessario per proseguire nelle sue turpitudini, danneggiando onorati cittadini e facendo assolvere un suo amico condannato per gioco d'azzardo. Quando Cesare partì per la Spagna Antonio diede scandalo con un ridicolo corteo al quale partecipò una famosa ballerina trasportata in lettiga.
A Brindisi, dove come già ricordato Antonio risparmiò la vita di Cicerone, ottenne la carica di comandante della cavalleria all'insaputa di Cesare che si trovava in Egitto.
L'orazione prosegue con taglienti denunce contro Antonio colpevole di grandi imbrogli per accaparrarsi illegittimamente beni ed eredità altrui e di varie indecenze, come l'aver vomitato per il troppo vino bevuto mentre parlava al popolo.
Quando Cesare tornò da Alessandria tutti i beni di Pompeo furono messi all'incanto, nessuno a Roma se la sentì di appropriarsi di ciò che era stato di quel grand'uomo, nessuno tranne Antonio che per una somma modestissima vinse l'asta diventando ricchissimo, da miserabile qual'era, in un solo giorno. Tuttavia i suoi vizi e le sue squallide compagnie dissiparono quelle ricchezze in brevissimo tempo. Ma ciò che più offende la morale dell'oratore è l'idea di Antonio che abita nella casa di Pompeo. Una casa già testimone di uno stile di vita morigerato e virtuoso trasformata in una bisca e in un postribolo dal nuovo proprietario.
Antonio partecipò alla battaglia di Farsalo trucidando insigni cittadini che forse Cesare avrebbe graziato, come Lucio Domizio e molti altri, ma non seguì Cesare in Africa perché fu rimandato a Roma. Qui fu processato e condannato per evasione fiscale e fu indetta un'asta sei suoi beni ma gli eredi dei patrimoni di cui era riuscito ad impadronirsi si opposero ed ebbero ragione, così l'asta si ridusse a ben misera cosa ed Antonio fu di nuovo sommerso dai guai finanziari.
Quando finalmente Antonio partì alla volta della Spagna per combattere contro i figli di Pompeo che rivendicavano i beni ed i diritti da lui stesso sottratti, tornò indietro a Narbona con la scusa delle difficoltà del viaggio e riprese le sue gozzoviglie mentre Dolabella combatteva e veniva ferito al suo posto.
Da Narbona Antonio si precipitò a Roma travestito da Gallo perché aveva saputo che il pretore Munazio Planco stava per vendere all'asta i beni dei suoi mallevadori per pagare i suoi debiti verso l'erario. Si introdusse di notte in città per raggiungere la sua casa e, sempre travestito, presentò alla moglie un messaggio in cui diceva di aver lasciato la ballerina e prometteva di esserle fedele in futuro, quindi si rivelò mentre la donna piangeva commossa raggirando la poveretta. Con la sua piaggeria recuperò il favore di Cesare e si fece eleggere console a scapito di Dolabella. Antonio approfittò della sua carica di augure per interrompere in modo irregolare i comizi evitando che Dolabella venisse eletto.
Raggiunse il massimo dell'abiezione quando durante la festa dei Lupercalia, tutto nudo dopo aver danzato, pronunciò un discorso e tentò di porre sul capo di Cesare un diadema regale, che il dittatore rifiutò.
Il giorno della morte di Cesare coincise con la scadenza dell'ultima dilazione concessa ad Antonio per pagare i suoi debiti. Il console riuscì a fuggire grazie a quanti fra i congiurati si opposero alla sua uccisione e da allora assunse un encomiabile atteggiamento pacifista che era destinato ad essere ben presto rinnegato.
Antonio pronunciò l'elogio funebre di Cesare esortando i concittadini alla concordia e fu promotore della legge che abrogava la dittatura ma poco dopo prese a sfruttare il potere per il proprio tornaconto. Sparirono misteriosamente dalle casse erariali settecento milioni di sesterzi e pochi giorni dopo Antonio pagò i quaranta milioni delle imposte da lui dovute. Il re Deiotaro che era stato sostenitore di Pompeo e avversario di Cesare venne reintegrato nei suoi possedimenti in Armenia in base ad una disposizione che Antonio sosteneva di aver trovato fra le carte del dittatore.
Ancora sulla base degli appunti di Cesare, Antonio intendeva affrancare le città di Creta dai tributi e dalla condizione di provincia (evidentemente corrotto dai Cretesi) e aveva richiamato quasi tutti gli esuli. Fra i pochi esclusi era lo zio Gaio Antonio, già collega di Cicerone nel consolato del 63 a.C.
Di Gaio Antonio aveva ripudiato la figlia (Antonia Ibrida) accusandola di adulterio con Dolabella.
Una commissione che il Senato aveva previsto di istituire per esaminare insieme ai consoli gli atti di Cesare non era mai stata convocata ed Antonio aveva provveduto arbitrariamente ad assegnare lotti di terreno in Campania ai veterani di Cesare per guadagnare il loro favore. In Campania Antonio dedusse nuove colonie in modo del tutto irregolare e fra i beneficiari, oltre ai veterani, erano molti suoi amici: malviventi, compagni di baldoria, prostitute.
Confiscò fra l'altro la villa di Varrone a Cassino senza averne alcun diritto, durante il suo viaggio in Campania non si degnò mai di ricevere quanti venivano a rendergli omaggio in quanto console o di rispondere al loro saluto.
E tornato a Roma Antonio ha preso a circolare circondato di armati e di armati presidia la Curia ed il Foro violando la dignità e la libertà del Senato e della cittadinanza. Difende gli atti di Cesare ma applica solo quelli che tornano a suo vantaggio. Cicerone lo sfida a rispondere alle sue accuse, se non a quelle che riguardano il passato, almeno a quelle sulla situazione presente.
Se non l'onestà almeno la prudenza dovrebbe spingere Antonio a considerare con attenzione il proprio comportamento che gli attira contro la condanna dei giusti e l'odio dei concittadini, odio che presto proveranno anche i suoi amici e seguaci, da una situazione simile non è riuscito a salvarsi neanche Cesare, uomo di ben altre capacità che in comune con Antonio aveva soltanto la sete di potere.
La lunga orazione di conclude con l'augurio a se stesso di Cicerone di morire lasciando il popolo romano in piena libertà e sapendo che ogni cittadino avrà una sorte adeguata ai servigi resi alla patria.
La seconda Filippica fu composta entro il 24 ottobre del 44 a.C. e pubblicata fra il 12 novembre ed il 9 settembre dello stesso anno.

FILIPPICA III


E' il 20 dicembre del 44 a.C. Antonio è partito per la Gallia Cisalpina che intende togliere a Decimo Bruto. Il primo gennaio, scaduto il suo consolato, non potrà più assumere il comando di un esercito ma Cicerone non ritiene che si debba attendere questa scadenza quando Antonio, rifornitosi in Gallia di uomini ed armi, potrebbe da un momento all'altro piombare su Roma. Quindi l'appello che egli rivolge al Senato è pressante: si deve agire e subito.
Antonio è rientrato recentemente dalla Macedonia dove aveva assunto il comando delle legioni ivi stanziate e da Brindisi avrebbe già attaccato Roma se "Gaio Cesare", benché privato cittadino, non avesse investito tutto il suo patrimonio nell'organizzare le schiere dei veterani e dissuaderle dall'ascoltare le proposte del rivale.
Antonio aveva reagito ordinando una decimazione dei legionari e colpendo particolarmente la Legione Marzia, la più prestigiosa, che il 24 novembre si era ribellata. Cicerone elogia questa ribellione: quei soldati, sostiene, hanno compreso che Antonio era indegno della carica di console che ricopriva.
Anche la quarta legione si è schierata con Ottaviano ed egli ha potuto con le sue iniziative fermare la minaccia costituita da Antonio. Cicerone propone che l'operato di Ottaviano e dei legionari che lo hanno seguito venga elogiato e ratificato dal Senato e che si dia formalmente incarico ad Ottaviano di combattere il nemico del popolo Marco Antonio.
Intanto Decimo Bruto ha comunicato formalmente l'intenzione di non cedere ad Antonio e di difendere la sua provincia con le armi. L'Arpinate paragona Antonio a Tarquinio il Superbo i cui abusi furono poca cosa in confronto ai crimini contro lo stato ed i cittadini che Antonio si accinge a commettere o ha già commesso. Di conseguenza il beneficio che il popolo romano riceverà da Decimo Bruto è superiore a quello che ebbe dal giustamente celebrato Lucio Bruto.
L'oratore ricorda il gesto deplorevole di Antonio che il 15 febbraio, parlando in pubblico nudo e ubriaco, aveva offerto una corona a Giulio Cesare, un gesto grave, pieno di disprezzo verso le libertà repubblicane.
Antonio - afferma Cicerone - ha grossolanamente denigrato Ottaviano per i suoi oscuri natali, quando Ottaviano era figlio adottivo di Cesare e il suo vero padre sarebbe stato console se la morte non lo avesse impedito. Quanto alla madre, Antonio la accusa di essere di Aricia come se fosse un disonore essere nati in uno dei municipi più antichi e prestigiosi.
In un altro editto Antonio ha ingiuriato Quinto Cicerone, nipote dell'oratore, accusandolo di essere suo avversario, accusa che Cicerone considera una lode.
Dimostrando totale mancanza di rispetto per il Senato, Antonio lo aveva convocato per il 24 novembre e non si era presentato, aveva riconvocato la riunione per il 28 ma non aveva avuto il coraggio di avanzare la proposta all'ordine del giorno che consisteva nel dichiarare nemico pubblico Ottaviano accusandolo di formazione illegale di bande armate.
E' su questo punto che fa leva il discorso di Cicerone: Antonio agiva in veste di console, Ottaviano per iniziativa privata. Ora se tutti concordano nel lodare l'operato di Ottaviano e di Decimo Bruto che agivano in difesa dello stato è chiaro che il vero nemico pubblico è Antonio.
Dopo alcuni sarcasmi indirizzati all'avversario, Cicerone sostiene che Antonio ha disertato la seduta per cercare di risolvere il problema della Legione Marzia, altrimenti il suo intento sarebbe stato quello di attaccare Ottaviano e per questo motivo aveva cercato di impedire che partecipassero alla riunione alcuni senatori che lo avrebbero certamente ostacolato.
Dopo aver ripercorso rapidamente gli atti di violenza e gli abusi commessi da Antonio dalla morte di Cesare in poi, Cicerone esorta i senatori a non lasciar passare il momento favorevole senza agire, quindi presenta la sua proposta: i consoli designati Gaio Pansa e Aulo Irzio agiscano in modo da garantire che il Senato possa riunirsi in piena sicurezza il primo gennaio; il Senato ratifichi l'operato di Decimo Bruto e di Lucio Planco; il Senato conferisca ad Ottaviano onori e ricompense per le sue iniziative in difesa della libertà della Repubblica.
Il Senato approvò la proposta. Nel pomeriggio dello stesso giorno Cicerone parlò al popolo per riferire le conclusioni della seduta.

FILIPPICA IV


Nel pomeriggio del 20 dicembre del 44 a.C. Cicerone parlò al popolo annunciando le decisioni prese dal Senato nella riunione del mattino.
Si tributeranno elogi ed onori ad Ottaviano che nonostante la sua giovane età ha avuto l'audacia di radunare un esercito di veterani di Cesare per fermare Antonio che dopo la sanguinosa repressione delle milizie ribelli stava tornando da Brindisi con propositi violenti. Marco Antonio, sia pure non in modo formale, è stato dichiarato nemico dello stato.
La necessità di quest'ultima decisione per salvaguardare la libertà dei Romani, i meriti di Ottaviano, la logica connessione fra i due argomenti sono il tema della quarta filippica come lo sono stati della terza, ma qui il linguaggio, in considerazione del diverso pubblico, è più diretto e coinciso.


FILIPPICA V


Il primo gennaio 43 a.C. Marco Antonio è uscito dal mandato consolare è nessun giorno è mai sembrato più lento ad arrivare. Così esordisce Cicerone in Senato nella seduto del primo gennaio convocata dai nuovi consoli Gaio Vibio Pansa e Aulo Irzio.
Il successo che aveva ottenuto il 20 dicembre quando sembrava aver convinto la maggioranza dei senatori a dichiarare Antonio nemico pubblico sta ora vacillando. Le ragioni sono molteplici: i filoantoniani sostengono che non si possa emanare una condanna contro un consolare senza regolare processo; molti percepiscono la lontananza di Antonio come distanza dal pericolo; il timore di conseguenze peggiori, o più semplicemente il desiderio di pace, spinge altri a cercare una soluzione che non passi per la via delle armi; tuttavia Cicerone non demorde e non intende lasciare che quegli che considera l'uomo più pericoloso del momento raccolga nuove risorse e nuovo potere minacciando la repubblica con i suoi progetti di tirannide.
All'intervento dei consoli che, come d'uso, ha aperto la seduta segue quello di Quinto Fufio Caleno, il suocero del console Pansa che è stato console nel 47 a.C. ed è sempre stato di dichiarata fede cesariana. Caleno ha sposato la causa di Antonio subito dopo le idi di marzo e in questo suo primo intervento del 43 a.C. non esita a chiedere che venga accantonata qualsiasi ostilità e che si avviino trattative diplomatiche con Marco Antonio.
Gli argomenti di confutazione di Cicerone sono come sempre estremamente precisi. Consentire ad Antonio di assumente il governo di una provincia vasta e ricca come la Gallia Cisalpina o la Gallia Transalpina significherebbe lasciare che si rifornisca di denaro e di risorse militari da usare senza scrupoli contro i suoi avversari politici.
A quanti non ritengono Antonio capace di tali abusi, l'Oratore fa notare come dopo la morte di Cesare Antonio e i suoi sostenitori abbiano spesso ignorato le regole della repubblica emanando nuove disposizioni e abrogandone di esistenti senza rispettare le procedure previste e, quel che è peggio, promuovendo le loro decisioni con la violenza e l'intimidazione.
Per questi motivi Cicerone ritriene che le leggi di Antonio non siano vincolanti per i cittadini e che quelle "buone in se stesse" dovranno essere ripresentate senza vizi di forma.
Fra i crimini di Antonio,Antonio, Cicerone ricorda il continuo "mercato" di falsi decreti ed altri raggiri che hanno permesso al suo avversario di incamerare enormi somme di denaro in modo illegale ai danni dello stato e dei cittadini.
In ambito giudiziario Antonio ha ancora abusato della propria autorità nominando giudici corrotti e compiacenti, spesso privi dei titoli per esercitare quella funzione, in qualche caso addirittura dei Greci ignari del latino.
Ma la colpa più scandalosa di Antonio sta nell'essersi pubblicamente circondato di armati, come non facevano neanche gli antichi re, come non hanno osato fare Cinna, Silla e lo stesso Cesare; il Tempio della Concordia, presidiato dagli uomini di Antonio accoglieva i senatori costretti a votare a porte chiuse le proposte dell'aspirante dittatore sotto lo sguardo minaccioso dei suoi militari.
Anche tutti i provvedimenti dei settemviri preposti all'applicazione della legge agraria, fra cui Lucio Antonio, dovranno essere annullati perché molti terreni sono stati espropriati e riassegnati in modo del tutto arbitrario ed illegittimo.
Mandare ora un'ambasceria a Antonio sarebbe soltanto segno di debolezza, si proceda quindi a costringerlo con la forza a ritirarsi dalla provincia di cui sta ingiustamente tentando di impossessarsi.
Seguendo l'ordine del giorno Cicerone passa a proporre encomi e premi per quanti in quei difficili momenti hanno dimostrato di saper e voler agire con lealtà e coraggio nell'interesse della repubblica.
Primo fra tutti Decimo Bruto che ha resistito a Marco Antonio rifiutando di consegnargli la Gallia, quindi Marco Emilio Lepido la cui moderazione ha forse evitato una guerra civile. Per Ottaviano, l'eroe del momento, Cicerone chiede il comando militare: gli venga conferita la carica di pretore con tutte le relative attribuzioni derogando al limite minimo di età previsto dalla legge. L'oratore arriva a garantire personalmente che questi onori non confonderanno la modestia del giovane che saprà sempre comportarsi con la saggezza già dimostrata.
Un encomio vada a Lucio Egnatuleio, che ha indotto la legione quarta ad unirsi a Ottaviano contro Antonio e per tutti i veterani che hanno militato e stanno militando con Ottaviano Cicerone chiede il congedo, l'esenzione dal servizio militare per i figli, ed un'equa assegnazione dei terreni da ridistribuire.


FILIPPICA VI


Il dibattito al quale Cicerone ha partecipato pronunciando la quinta filippica è durato dal primo al 4 gennaio del 43 a.C.
Al termine del quarto giorno il tribuno Publio Apuleio, amico e sostenitore di Cicerone, lo invita a riferire al popolo gli argomenti salienti della seduta e le decisioni del Senato.
In Senato si è giunti alla conclusione di inviare un'ambasceria ad Antonio, contrariamente alla proposta di Cicerone, ma questo non rappresenta una sconfitta per l'oratore perché gli ambasciatori hanno il compito di intimare la resa ad Antonio. Non si tratta quindi di cedere alla volontà del generale ma soltanto di procrastinare la guerra.
E' pur vero che Cicerone non ha riportato una completa vittoria come il 20 dicembre, quando aveva visto approvare tutte le sue proposte, per questo motivo affronta il suo pubblico prendendo le distanze da quanto è stato stabilito. Comunica la decisione del Senato in merito all'ambasceria in modo da indurre la folla a rumoreggiare contrariata e non si lascia sfuggire l'occasione per sottolineare di aver proposto una mobilitazione generale da attuarsi senza indugi.
Come per la quarta filippica, qui Cicerone sceglie nel rivolgersi al popolo un linguaggio più semplice e inserisce nel discorso un'ampia parentesi dai toni denigratori e a volte grotteschi sugli abusi di Marco Antonio e Lucio Antonio e sui loro poco rispettabili costumi.
L'aspetto positivo della decisione odierna, conclude Cicerone, è che quando gli ambasciatori torneranno a comunicare l'inevitabile fallimento della loro missione e l'impossibilità di ridurre Antonio alla ragione, anche quanti ora sono per l'attesa e per la prudenza, non avranno più argomenti per differire un'azione definitiva.


FILIPPICA VII


La decisione di mandare un'ambasceria a Antonio è stata applicata senza indugio e gli ambasciatori sono partiti il cinque gennaio, ma tardano forse a tornare e Cicerone prende la parola in una riunione del Senato convocata per altri scopi per riaccendere l'attenzione sulla situazione politica. Non ci è nota la data certa di questa riunione ma vari indizi ricavabili dal testo dell'orazione inducono a ritenere molto probabile che si sia svolta nell'ultima settimana del gennaio 43 a.C.
Nel frattempo sono arrivate a Roma lettere di Antonio dirette ai suoi sostenitori e sono circolate notizie spesso confuse e non sempre vere. Si dice che Antonio chiederà la Gallia Transalpina invece della Cisalpina, che comunque avanzerà controproposte, ma Cicerone ribadisce che gli ambasciatori sono andati da Antonio per intimargli di arrendersi, non per avviare trattative.
Al termine di un lunghissimo periodo che ha la funzione di introdurre il punto chiave del suo discorso e nello stesso tempo di catturare l'interesse degli ascoltatori, Cicerone pronuncia un'affermazione grave e drammatica: non vuole la pace, e precisa che non la vuole perché sarebbe vergognosa, pericolosa, impossibile.
Vergognosa perché sarebbe una dimostrazione di incoerenza e di superficialità arrivare alla pace con Antonio dopo averlo giudicato nemico della patria.
Cicerone sa bene che il Senato non ha ancora ufficialmente dichiarato nemico della patria Antonio ma ritiene che questa dichiarazione sia implicita nell'aver premiato ed elogiato Ottaviano, Decimo Bruto e tutti coloro che lo hanno combattuto. Ritiene che nei preparativi di guerra e nelle leve in corso sia manifesto che i senatori considerano Antonio un nemico.
Il Senato, dice l'oratore, deve mantenersi coerente e perseverante riprendendo l'austerità di una volta e tutto il suo decoro.
La pace sarebbe pericolosa perché significherebbe lasciare ad Antonio e ai suoi fratelli la possibilità di commettere liberamente tutti gli abusi di cui hanno già dimostrato di essere capaci.
Infine la pace è impossibile perché non ci sarebbe modo di riconciliare Antonio e i suoi seguaci con le persone che hanno subito la loro violenza o con quelle che si sono già mosse per combatterli. Non sarebbe possibile, ad esempio, proporre Antonio come amico a Modena, città che egli sta attualmente assediando, o ai cavalieri che in quel momento attendono fuori dall'aula del Senato, pronti ad imbracciare le armi per riconquistare la libertà.
I senatori dovranno stare attenti, ammonisce Cicerone, a non perdere la possibilità di una pace salda e duratura per l'illusione di un accordo con Antonio.


FILIPPICA VIII


La prima parte di questa orazione è contro l'opinione di quei senatori che vogliono evitare l'uso della parola "guerra" nei decreti relativi all'attuale situazione, come ha proposto Lucio Giulio Cesare, fratello della madre di Marco Antonio.
Cicerone insiste che la guerra è già in atto, indipendentemente dal nome con cui la si voglia definire. Lo dimostrano le leve, le operazioni in corso, la lettera del console Irzio che comunica di aver tolto agli antoniani la piccola città di Claterna, nei pressi di Modena, ed informa che negli scontri ci sono stati dei caduti.
Si tratta dunque di guerra e di guerra civile, la quinta durante la vita di Cicerone dopo quelle fra Silla e Sulpicio, Cinna e Ottavio, Silla e Mario, Cesare e Pompeo. Ma le quattro precedenti hanno avuto motivi politici mentre questa dipende soltanto dall'avidità e dalla tirannide di Antonio.
Non si tratta quindi di combattere per questa o quella fazione ma per la libertà che è la causa più giusta che una guerra possa avere. Pace non significa servitù, afferma Cicerone rivolgendosi a Caleno che cerca di far passare il proprio atteggiamento favorevole a Antonio per semplice pacifismo.
L'oratore cita diversi episodi più o meno recenti in cui si è dovuto combattere contro chi metteva in pericolo la repubblica, dal tempo dei Gracchi fino alla congiura di Catilina.
L'ambasceria inviata a Antonio è rientrata (salvo Servio Sulpicio Rufo deceduto durante il viaggio) recando le controproposte di Antonio. Insieme agli ambasciatori Lucio Calpurnio Pisone e Lucio Marcio Filippo è arrivato anche un certo Vario Cotila, rappresentante di Antonio.
Antonio in sostanza offre di rinunciare alle province e alle legioni a condizione che anche i suoi diretti avversari, soprattutto Bruto e Cassio, facciano altrettanto e accettino la condizione di privati cittadini. In alternativa Antonio vorrebbe la Gallia Transalpina e mantenere le sue legioni con l'aggiunta dell'esercito di Decimo Bruto finché Bruto e Cassio ricopriranno cariche pubbliche e disporranno di risorse militari.
Cicerone è indignato da queste proposte e si chiede come abbiano potuto gli ambasciatori riferirle senza esserne disgustati.
L'orazione si conclude con la proposta di rimandare Cotila dal suo generale, offrire il perdono ai seguaci di Antonio che si ravvedano entro il 15 marzo e dichiarare gli altri nemici della patria.


FILIPPICA IX


La nona Filippica è l'elogio funebre per Servio Sulpicio che, partito in cattive condizioni di salute a capo dell'ambasceria presso Antonio, non ha fatto ritorno.
La commemorazione in Senato è stata proposta dal console Pansa che ha pronunciato il suo discorso prima di Cicerone.
Publio Servilio Isaurico ha mosso un'obiezione all'ipotesi di dedicare una statua al defunto in quanto questo onore era riservato agli ambasciatori uccisi durante la loro missione. Cicerone risponde che non è il modo ma la causa della morte che conta e Servio Sulpicio, partendo mentre era seriamente malato, aveva messo consapevolmente a rischio la propria vita per il bene della patria.
Cicerone ricorda due esempi storici di ambasciatori caduti mentre erano al servizio dello stato: quelli uccisi dall'etrusco Tolumnio e Gneo Ottavio, assassinato a Laodicea mentre era in missione presso Antioco V.
L'oratore insiste sulla dedica del monumento che oltre ad essere un giusto riconoscimento alla dedizione di Sulpicio rappresenterà anche l'importanza della guerra in corso contro Antonio agli occhi dei contemporanei e a quelli dei posteri.
Responsabili della morte di Sulpicio sono anche i senatori ed il console Pansa che hanno insistito perché egli accettasse il comando della missione nonostante le sue giuste preoccupazioni per la salute.
"Rendetegli dunque, o senatori, la vita che gli avete tolta" dice chiaramente Cicerone riferendosi alla duratura memoria dell'uomo da affidare al suo monumento.
L'oratore prosegue il suo elogio ricordando il sapere di Sulpicio in materia di diritto e di giurisprudenza, la sua mitezza e la sua equità. Parla anche del cordoglio del giovane figlio del defunto, ancora troppo scosso per essere presente in quell'occasione.
Ben conoscendo le preferenze minimaliste e la modestia di Sulpicio, Cicerone propone che la statua sia di bronzo e non dorata, la figura in piedi e non a cavallo, propone inoltre che venga accolta che l'idea di Servilio di dedicare un sepolcro sull'Esquilino a spese dello stato. Tutto ciò servirà ad onorare la memoria di un grande cittadino ma anche a bollare di infamia la guerra di Marco Antonio contro il popolo romano.


FILIPPICA X


Era probabilmente il 4 febbraio del 43 a.C., o pochi giorni dopo, quando il console Pansa convocò d'urgenza il Senato per comunicare di aver ricevuto un messaggio di Bruto.
Dopo l'intervento di apertura Pansa aveva dato la parola a Caleno, quindi a Cicerone.
In Grecia Bruto ha raccolto consistenti forze militari e, fedele alle tradizioni repubblicane, si è affrettato a darne notizia al Senato. Caleno si è mostrato contrario all'iniziativa di Bruto e Cicerone interviene attaccandolo con forza e chiedendogli apertamente ragione dei suoi comportamenti filoantoniani.
E' indubbio che le notizie dalla Grecia consentono a Cicerone di partire da una posizione di vantaggio: Bruto è un campione della libertà, il liberatore, il regicida amato e rispettato da tutti la cui fama e reputazione è di per se un punto di forza rispetto alla luce sinistra in cui Antonio si sta muovendo con i suoi fratelli e seguaci.
L'intervento di Bruto è servito anche ad evitare che Gaio Antonio si impadronisse della Macedonia come aveva tentato di fare nonostante il divieto del Senato.
Bruto ha scritto che Gaio Antonio si trova in Apollonia con pochi soldati, sarà fatto prigioniero poco più tardi dallo stesso Bruto. In Macedonia le legioni di Antonio si consegnano spontaneamente ai seguaci di Bruto. Publio Vatinio, governatore dell'Illiria, ha consegnato il suo esercito a Bruto. La situazione è dunque radicalmente cambiata a favore dei repubblicani ma c'è chi obietta che i veterani che militano nelle legioni ora comandate da Bruto potrebbero reagire negativamente agli ordini dell'uccisore di Cesare.
Cicerone è consapevole del realismo di questa preoccupazione ma in un primo momento cerca di ridimensionarla quindi passa ad un'affermazione forte e, certo, sinceramente sentita: se pure i veterani sono contrari a Bruto e alle forze repubblicane non potranno impedire che il popolo romano difenda la propria libertà perché i meriti e la gloria guadagnati sui campi di battaglia non li autorizzano ad essere fautori di servitù.
Cicerone conclude con la proposta di ratificare l'operato di Bruto conferendogli l'imperium maius su Macedonia, Illiria e Grecia.
Riconoscimenti vengono chiesti anche per Quinto Ortensio e Marco Apuleio che hanno aiutato Bruto a reperire truppe e fondi.


FILIPPICA XI


Le due sedute durante le quali Cicerone pronunciò l'undicesima filippica si svolsero molto probabilmente il 6 e il 7 marzo del 43 a.C.
Era giunta la notizia che Gaio Trebonio, uno dei cesaricidi, era stato assassinato a Smirne da Dolabella.
E' proprio questo assassinio l'argomento che apre l'orazione: Dolabella si era recato in oriente per rilevare la provincia di Siria e aveva fatto irruzione di notte nella casa di Trebonio che era stato catturato e decapitato dopo due giorni di tortura. Il suo capo era stato esposto pubblicamente, il corpo scempiato e poi buttato in mare.
Cicerone insiste sui particolari macabri del delitto sottolineando più volte Dolabella e Antonio siano divenuti alleati perché l'affinità di carattere li porta a gradire gli stessi orrori e commettere gli stessi delitti.
Cicerone è ancora inorridito al pensiero che Dolabella è stato suo genero ed ha fatto parte della sua famiglia, tuttavia avverte che Antonio è ancora più pericoloso per il suo seguito di malfattori come il fratello Lucio o come Calpurnio Bestia.
Segue un rapido elenco di personaggi sinistri vicini ad Antonio: Nucula e Lentone che distribuivano terreni in base alla legge agraria poi abrogata dal Senato, Trebellio, Tito Munazio Planco, Tito Annio Cimbro uccisore di suo fratello.
Per una volta Cicerone si trova d'accordo con Caleno che ha proposto di dichiarare Dolabella nemico pubblico e confiscare i suoi beni. Stabilito che Dolabella è un nemico pubblico diventa necessario combatterlo e quindi scegliere un generale che muova contro di lui. Sono state fatte due proposte alle quali Cicerone di dichiara contrario.
La prima, avanzata da Lucio Cesare, prevedeva di affidare il comando a Publio Servilio Isaurico. L'obiezione di Cicerone è che Servilio in quel momento non riveste alcuna carica ed affidare poteri straordinari ad un privato cittadino è una pratica generalmente evitata dal Senato, come Cicerone dimostra con diversi esempi, perché non priva di rischi (il prescelto poteva approfittare della situazione e sfuggire al controllo). Vero è che si sono appena conferiti poteri straordinari a Ottaviano ma in quel caso ci si è trovati di fronte al fatto compiuto perché due legioni lo hanno seguito spontaneamente.
L'altra proposta è quella di inviare contro Dolabella uno o entrambi i consoli e di assegnare loro, alla scadenza del consolato, le province dell'Asia e di Siria, ma Cicerone è contrario perché questa scelta, se attuata immediatamente distoglierebbe risorse e attenzione dal fronte di Modena, se rimandata comporterebbe un intervento troppo tardivo.
A questo punto Cicerone, forte dell'essere riuscito a far ratificare l'operato di Bruto, azzarda la richiesta di affidare la guerra contro Dolabella a Cassio.
Mentre Bruto è impegnato contro Gaio Antonio che ha occupato numerose città orientali, solo Cassio può intervenire contro Dolabella e molti sono gli elementi a favore di questa scelta: Cassio si trova già sui luoghi, sta già raccogliendo le risorse militari necessarie, al pari di Bruto è in grado di decidere cosa sia meglio per la patria e agire di conseguenza.
Cicerone propone quindi di conferire a Cassio la carica di proconsole di Siria con pieni potere perché muova guerra a Dolabella.
Quanto alla preoccupazione, nutrita da una parte dei senatori, riguardo agli umori dei veterani, Cicerone afferma che il Senato non può ridursi a decidere in base a ciò che vogliono i veterani che, del resto, se stanno combattendo per la libertà della patria devono essere premiati, se sono neutrali devono essere protetti, ma se si sono fatti seguaci di Antonio e di Dolabella dovranno essere combattuti e puniti.


FILIPPICA XII


In una seduta del Senato tenutasi non più tardi del 7 marzo 43 è stato proposto l'invio di una nuova ambasceria presso Antonio. Sorprendentemente Cicerone non si è opposto, anzi ha accettato di essere fra gli ambasciatori.
Nella seduta successiva, che dovette svolgersi solo pochi giorni più tardi, l'oratore pronunciò la XII filippica.
Cicerone ritira la sua disponibilità ammettendo di aver sbagliato nel concederla ma precisando che è stato tratto in inganno da Pisone, Caleno ed altri antoniani che gli hanno fatto credere che Antonio fosse in difficoltà e prossimo alla resa.
Lo stesso errore, del resto, ha commesso Publio Servilio che come Cicerone ha ritirato la sua adesione al progetto dell'ambasceria.
Ma poichè quanti sono in stretto contatto con Antonio confermano che non si sono verificati cambiamenti importanti nella situazione nulla giustificherebbe il Senato se cambiasse atteggiamento verso il nemico e passasse a mostrarsi più mite e meno determinato con una nuova ambasceria.
Come Cicerone ha avuto modo di sostenere già in altre occasioni, un comportamento pacifista dei senatori potrebbe demotivare coloro che affrontando pericoli e sacrifici stanno combattendo per evitare di trovarsi soggiogati dalla tirannide di Antonio.
Se il timore per la sorte di Decimo Bruto e dei suoi soldati ha spinto l'oratore ad una spontanea e poco meditata adesione per il desiderio di contribuire alla loro salvezza, una più attenta riflessione lo porta alla conclusione che quell'adesione debba essere ritirata.
Egli è contrario ad una nuova ambasceria come lo era stato alla precedente che in effetti non aveva prodotto alcun frutto, ma se il Senato deciderà di inviare la seconda deputazione gli ambasciatori partiranno senza di lui.
Cicerone è consapevole dei rischi personali che dovrebbe affrontare durante la missione dalla quale difficilmente tornerebbe vivo. Si dichiara certo di poter essere più utile alla repubblica rimanendo a Roma piuttosto che facendosi uccidere. Afferma di non temere la morte - e non abbiamo motivi di dubitare delle sue parole - ma di rifiutare di compiere uno stupido atto di imprudenza.
Non sarà forse mai possibile appurare se l'accettazione ed il successivo ripensamento di Cicerone furono il risultato di una consapevole tattica temporeggiatrice. Comunque la seconda ambasceria non fu deliberata.


FILIPPICA XIII


La riunione è stata convocata in assenza dei consoli dal pretore urbano Marco Cecilio Cornuto, infatti Pansa è partito pochi giorni prima per raggiungere il collega sul fronte modenese.
L'ordine del giorno consiste nella discussione di tre importanti messaggi da poco giunti al Senato: il primo è una lettera di Antonio a Irzio e Ottaviano che venivano invitati a ricostituire il partito cesariano e che i due destinatari hanno girato per conoscenza a Cicerone; gli altri due sono lettere di Marco Emilio Lepido governatore della Gallia Narbonese e della Spagna Citeriore e di Lucio Munazio Planco governatore della Gallia Transalpina che consigliano ai senatori di concludere la pace con Antonio.
Cicerone, che parla dopo l'intervento di Publio Servilio Isaurico, inizia esaminando la posizione di Lepido. Potente per le sue province, politicamente influente e molto ricco, Lepido può far pesare la sua opinione e la sua proposta è stata forse concordata con Antonio "dietro le quinte", Cicerone ne è consapevole e dice di concordare sugli indiscutibili benefici della pace a condizione che la pace stessa venga vissuta in piena libertà altrimenti è meglio combattere e, se necessario, morire.
Quando Lepido volesse avvalersi delle risorse militari di cui dispone ricordi che gli sono state conferite dal Senato ed il Senato che è e deve rimanere unico arbitro dei destini della Repubblica, può toglierle in qualsiasi momento.
Necessariamente Cicerone passa a esporre nuovamente le turpitudini commesse da Antonio e dai suoi compagni dalla idi di marzo in poi: l'Oratore vuole mantenere chiara di fronte agli occhi di chi lo ascolta l'immagine del "brigante", del "gladiatore", dell'avvinazzato di cui si sta parlando perchè non si dimentichi che si tratta di una guerra e non di una questione diplomatica.
Quindi, omettendo di parlare della lettera di Munazio Planco (che forse gli aveva assicurato il suo appoggio in altra sede), Cicerone passa ad esaminare il messaggio di Antonio. Lo legge e critica frase per frase mettendo in evidenza ogni passaggio contraddittorio o arrogante e in effetti in queste pagine risulta evidente il contrasto fra il linguaggio scontato di Antonio e le eleganti sottigliezze dialettiche dell'Arpinate.
La riunione si chiuse con una vittoria di Cicerone in quanto gli inviti alla pace di Lepido e di Munazio Planco vennero respinti.

Nella sua disanima del messaggio di Antonio, criticando duramente i compagni dell'avversario, Cicerone ne pronuncia una sorta di elenco stigmatizzando di ciascuno colpe e difetti: innanzi tutto Dolabella, per il quale Antonio è addolorato perché è stato dichiarato nemico pubblico, Fadia, prima moglie di Marco Antonio e figlia di un liberto; Publio Ventidio Basso, cesariano, pretore designato per il 43 passato a Antonio; Lucio Calpurnio Bestia, un politicante già difeso da Cicerone in ben sei processi; Trebellio, bancarottiere fraudolento, Cotila Vario che Antonio faceva frustare nei banchetti; il "gladiatore" Lucio Antonio, Sassa Decidio ed altri.
Per contro l'oratore cita nella stessa filippica anche alcuni illustri consolari rammaricandosi che siano morti e che non possano essere suoi alleati nella situazione presente: Marco Marcello, Servio Sulpicio, Lucio Afranio, Lucio Cornelio Lentulo, Marco Bibulo, Lucio Domizio, Appio Claudio, Publio Scipione.


FILIPPICA XIV


Irzio, Pansa e Ottaviano hanno comunicato al Senato una vittoria contro Antonio (15 aprile 43 a.C.) proponendo una supplica di ringraziamento agli dei.
Cicerone sostiene che sia giusto offrire la supplica e propone anche di conferire ai tre vincitori il titolo di "generale vittorioso", ma insiste che per fare tutto ciò correttamente è necessario che prima Antonio venga dichiarato nemico pubblico.
Si oppone invece a Publio Servilio Isaurico che propone che i senatori depongano ormai l'abito da guerra perché, afferma, ciò sarà giusto e possibile solo quando Decimo Bruto sarà stato liberato dall'assedio e Antonio allontanato dalla provincia che pretende e definitivamente debellato.
Cicerone rivela quindi una macchinazione degli antoniani rimasti in città con lo scopo manifesto di eliminarlo e di organizzare un colpo di stato. L'oratore si riserva di rivelare in un secondo momento le circostanze che hanno portato alla scoperta della congiura (evidentemente farlo ora sarebbe pericoloso) ma precisa comunque che si è cercato di calunniarlo accusandolo di aspirare alla tirannide per poi istigare il popolo ad un linciaggio.
A salvarlo è stato un suo amico, il tribuno Publio Apuleio che ha convocato un'assemblea per chiarire la situazione e smentire le accuse.
Cicerone prosegue lodando l'operato dei comandanti e dei soldati e conclude con una serie di mozioni chiedendo: cinquanta giorni di supplicazioni in tutti i templi; il titolo di generale vittorioso per i tre comandanti; la costruzione di un grande monumento in memoria dei caduti; l'erogazione dei compensi promessi ai soldati e, nel caso dei caduti, alle loro famiglie.
La quattordicesima filippica è l'ultima orazione di Cicerone che ci sia pervenuta, ma non l'ultima che egli pronunciò in Senato.
Ne pronunciò certamente un'altra dopo il 21 aprile quando Antonio fu di nuovo sconfitto, Decimo Bruto riuscì a lasciare Modena e l'oratore riuscì finalmente a far dichiarare nemico pubblico il suo acerrimo avversario.