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GIUSEPPE CAPPELLETTI


STORIA DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA DAL SUO PRINCIPIO AL SUO FINE

Libro Primo

Confutando l'opinione di altri storici che parlavano di origine gallica dei Veneti, l'autore sostiene che queste genti furono italiche, alleate dei Romani.
Alla caduta dell'impero per difendersi dalle invasioni barbariche presero ad occupare la laguna, prima in modo episodico, poi sempre più stabilmente.
Fu con l'invasione degli Unni che i profughi si insediarono definitivamente nella laguna, in particolare sull'isola di Rialto. Provenivano da diverse località, come dimostrerebbe la differenza dell'accento dialettale fra gruppi di attuali cittadini. La data tradizionale della fondazione, 24 marzo 421 d.C. è priva di fondamento storico.
Secondo Cappelletti la fondazione, nel senso dello stabilirsi definitivo dei profughi nella laguna, è da considerarsi anteriore al 421 in quanto in quell'anno erano già presenti elementi di insediamento definitivo come la chiesa di San Jacopo (San Giacomo di Rialto).
L'unione delle isole con i ponti e i lavori di interramento delle paludi che portarono a consolidare la struttura della città risalgono all'VIII secolo. Nel 774 Venezia divenne sede vescovile e nell'813 vi fu trasferita la sede ducale di Malamocco.
Nel 452 Oderzo, Concordia, Altino ed Aquileia furono saccheggiate e distrutte da Attila, pochi anni dopo di nuovo minacciata da Genserico e la loro popolazione corse ad accrescere quella di Venezia.
Fra i capi politici dei gruppi di profughi si cominciarono ad eleggere i membri di un organo di governo detto Concione o Arengo i quali esercitarono il potere con il titolo di tribuni, come dimostra una lettera che Cassiodoro inviò loro.
Ogni tribuno governava una delle isole che si erano unite a formare il primo nucleo cittadino: Rialto (Rivoalto) , Poveglia (Popilia), Chioggia (Clugia), Malamocco, Grado, Caorle (Caprule), Bavezzana (Bibiana), Equilio, Torcello, Murano (Amoriano) e la città di Eraclea costruita sull'estremità di una penisola fra i fiumi Piave e Livenza.
L'autore sostiene che la Repubblica Veneziana fu indipendente fin dagli inizi e per tutta la sua storia. Fra gli argomenti a sostegno di questa affermazione cita il fatto che Cassiodoro nel presentare a Teodorico l'analisi delle province del suo regno non cita le isole veneziane.
Nel 529 le incursioni degli Slavi spinsero gli Istriani ad insediarsi su un'isola dove fondarono una città che chiamarono Giustinopoli, in onore dell'imperatore Giustino allora regnante e che successivamente prese il nome di Capodistria.
La presenza degli Slavi nel loro mare non piacque ai Veneziani che li affrontarono in una battaglia navale e li sconfissero duramente.
Nel 538 i Veneziani aiutarono il generale bizantino Belisario a sconfiggere e catturare il capo goto Vitige che aveva assediato Ravenna. Nel 552 combatterono con Narsete contro Totila liberando la città di Ancona assediata dagli Ostrogoti.
Narsete arbitrò una disputa fra Padovani e Veneziani sul libero utilizzo delle acque lagunari e finanziò, a seguito di un voto, la costruzione delle chiese di San Teodoro e di San Geminiano, in seguito demolite per far spazio alla Basilica di San Marco.
Gli eventi relativi alla questione dei Tre Capitoli, la pressione fiscale bizantina, l'invasione dei Longobardi (568) spinsero altre famiglie a trasferirsi dalla terraferma alla laguna andando ad accrescere la popolazione veneziana.
Già nel 540 l'arcivescovo di Aquileia Macedonio, favorevole ai Tre Capitoli, aveva respinto le decisioni del Concilio di Costantinopoli; il suo successore Paolino I completò lo scisma e trasferì la sede patriarcale da Aquileia a Grado.
A Paolino successe Probino e a questi Elia che convocò un concilio per dichiarare Grado metropoli ecclesiastica delle Venezie e dell'Istria e per sostituire il proprio titolo di arcivescovo con quello di patriarca.
Ad Elia successe Severo che proseguì la linea scismatica venendo in contrasto con l'esarca di Ravenna Smaragdo che lo fece arrestare e lo tenne prigioniero a Ravenna finchè non ricusò lo scisma. Liberato, Severo rifugiò a Merano, in territorio longobardo, e convocò un sinodo per ritrattare quanto aveva detto a Ravenna.
Neanche San Gregorio, papa dal 590, riuscì a risolvere la situazione. Dopo la morte di Severo i Longobardi vollero ripristinare la cattedra di Aquileia ed elessero arcivescovo Giovanni I mentre a Grado veniva nominato patriarca Candidiano, la regione si trovava così ad avere due cattedre episcopali, l'una ad Aquileia e l'altra a Grado.
Dopo Candidiano fu nominato Cipriano al quale successe Fortunato I che alla morte di Giovanni di Aquileia riuscì a riunire le due cattedre.
Nel 598 gli abitanti di Caorle chiesero al papa Gregorio di poter nominare un proprio vescovo per staccarsi dalla diocesi di Concordia che tendeva all'arianesimo. Il nuovo vescovo, tuttavia, non fu gradito agli abitanti, fu allontanato e sostituito dal vescovo di Concordia che, tornato all'ortodossia, fu costretto a lasciare la propria sede.
Nel 635 il vescovo di Altino si trasferì a Torcello per analoghi motivi, come quello di Padova che nel 640 si stabilì a Malamocco. San Magno vescovo di Oderzo si trasferì ad Eraclea con il clero e gran parte del popolo e fondò la chiesa di San Pietro.
Anche l'isola di Equilio venne popolata dai profughi cacciati dai Longobardi.
La popolazione delle isole veneziane, dunque, aumentò considerevolmente per effetto di queste migrazioni. In particolare l'isola di Rialto conobbe questa sorta di esplosione demografica tanto che fu necessario aumentare lo spazio disponibile collegandola con nuovi ponti agli isolotti circostanti e costruire nuove abitazioni. Le poche chiese costruite fino a quel momento non bastarono più. Ad edificarne di nuove, secondo la tradizione, fu San Magno che ricevette in sogno dalla Madonna l'indicazione di otto siti. Sarebbero nate così: San Pietro Apostolo nell'isola di Olivolo, San Raffaele Arcangelo in Dorsoduro, Santa Maria Formosa, San Salvatore, Santa Giustina, San Zaccaria, San Giovanni Battista in Bragosa, Santi Apostoli.
Con il crescere della popolazione e del commercio i tribuni presero a rivaleggiare fra loro e, nella ricerca della supremazia, trascurarono i loro doveri di governo e di vigilanza. Ne approfittarono i pirati slavi, istriani e dalmati che tentarono più volte di depredare le isole finché una notte si arrivò ad un sanguinoso combattimento. La popolazione decise allora di rivedere il sistema di governo e fu convocata una grande assemblea nella chiesa di Eraclea.
Cristoforo patriarca di Grado tenne un discorsò nel quale evidenziò i problemi derivanti dalla rivalità fra i tribuni e propose di eleggere un unico magistrato al quale affidare il comando supremo. La proposta venne accolta con entusiasmo, seguì una consultazione elettorale vinta da Paolo (o Paoluccio) Anafesto. L'assemblea stabilì anche quali fossero i poteri del nuovo magistrato, il Doge, che venne a detenere una sorta di autorità centrale, superiore a quella dei tribuni che a lui dovevano rispondere. Era l'anno 697.
Al doge furono assegnate una rendita ed una serie di simboli onorifici consistenti nel particolare abbigliamento, nello scettro, nel seggio.
Ebbe inoltre una guardia personale formata da uomini provenienti da tutte le isole ed una serie di "benefit" in natura minuziosamente descritti in un antico documento che Cappelletti riporta testualmente.
Si stabilì infine che la carica del doge fosse conferita a tempo indeterminato ma non potesse mai essere ereditaria.
Paoluccio Anafesto volle fortificare le isole e costruire grandi arsenali nei quali custodire le navi al riparo dei pirati. Istituì la carica di "maestro delle milizie" che fu ricoperta sotto di lui probabilmente da quel Marcello Tegalliano che fu suo successore nel dogato.
Anafesto concluse un trattato con il re longobardo Liutprando fissando i confini della Repubblica ed ottenne franchige ed agevolazioni per i traffici dei mercanti veneziani in territorio longobardo.
Si occupò anche di dirimere le discordie interne e, nel complesso, i venti anni del suo governo costituirono per i Veneziani un periodo di serenità ed opulenza.
Ad Anafesto successe Marcello Tegalliano, durante il suo governo non avvennero particolari eventi e non si ricordano grandi decisioni o imprese, comunque lasciò la Repubblica in condizioni non peggiori di quelle in cui l'aveva ricevuta.
Lo scisma dei Tre Capitoli fu risolto con il pontificato di Sergio I nel 717. Erano patriarchi di Aquileia e di Grado rispettivamente Sereno e Donato che erano rivali fra loro. Neanche gli interventi del doge Marcello Tegalliano e del papa Gregorio II servirono a risolvere la disputa. A Donato successe Pietro, già vescovo di Pola. Gregorio II si oppose alla scelta ma infine la approvò per le preghiere dei Veneziani.
A Sereno successe Callisto che proseguì nella rivolta contro Grado ed arrivò ad un attacco armato con il supporto dei Longobardi. Intervenne il papa Gregorio III costringendo Callisto a liberare le isole che aveva occupato.
Marcello Tegalliano morì nel 726 ed il titolo di doge passò a Orso Ipato (Oleo Orso o Orso Partecipazio in alcune fonti). Il terzo doge curò molto l'organizzazione e l'addestramento dei militari e combattè contro i pirati dell'Adriatico, a volte con l'aiuto dei Bizantini.
Il re longobardo Liutprando attaccò Ravenna ed i territori bizantini in Italia approfittando delle agitazioni provocate dall'editto dell'imperatore Leone Isaurico contro il culto delle immagini.
L'esarca di Ravenna Paolo fuggì a Venezia dove ottenne asilo e protezione per la mediazione di Gregorio II.
L'assemblea popolare, aderendo alle parole del Doge, decise di intervenire per liberare Ravenna. L'impresa fu svolta da ottanta navi da guerra veneziane e da un piccolo esercito radunato ad Imola dall'esarca Paolo.
Dopo la vittoria di Ravenna il doge fu celebrato ed onorato dai Veneziani, dal papa e dall'imperatore Leone che, secondo alcuni, gli conferì il titolo di console da cui avrebbe derivato il cognome (Ipato = console).
Qualche tempo dopo, tuttavia, si riaccesero le ostilità fra gruppi di diversa origine e ne seguirono delle lotte civili nel corso delle quali Orso Ipato morì assassinato (737).
L'assemblea decise di abrogare la carica di doge ed eleggere un magistrato annuale con il titolo di Maestro dei Militi. Fu scelto un Domenico che aveva il soprannome di Leone e pare fosse molto esperto di cose militari.
Seguì Felice Cornicola, di costumi più pacifici, che richiamò dall'esilio Diodato, figlio di Orso Ipato, e convinse i Veneziani ad eleggerlo come suo successore. La carica di Diodato fu prorogata per un secondo anno, venne quindi eletto un Giuliano ed a questi seguì Giovanni Fabriziaco.
Questo Giovanni fu un personaggio equivoco e pare che per ambizioni personali sobillò una nuova guerra fra Eraclea ed Equilio. Scoperto, venne deposto ed accecato.
Si era nel 742. Fu deciso di tornare alla nomina del Doge (decisione che non sarà più revocata fino alla fine della Repubblica) e, per la forza politica della sua famiglia o per i meriti acquisiti come mastromile , venne rieletto Diodato Orso Ipato.
Diodato concluse un accordo con il re dei Longobardi Astolfo e nei primi anni del suo dogato la navigazione ed il commercio veneziani ebbero grande impulso mentre la Repubblica si asteneva da ogni attività bellica.
Un cittadino di Equilio di nome Galla Lupanio covava rancori verso Diodato che lo aveva vinto nelle elezioni. Quando Diodato fece costruire delle fortificazioni per proteggere Venezia da eventuali attacchi dall'entroterra, Galla ne approfittò per tacciarlo di mire tiranniche e tramò al punto da sollevare il popolo contro il doge che venne a sua volta deposto ed accecato.
Galla fu eletto doge (756) ma il suo potere non fu di lunga durata perché quando vennero in evidenza i suoi costumi scandalosi e la sua avidità subì lo stesso supplizio al quale aveva sottoposto Diodato e venne esiliato, un anno dopo la nomina.
Venne eletto Domenico Monegario. Per limitare il potere del doge e controllare il suo operato si decise di affiancargli due tribuni annuali con mansioni di consiglieri, ma la misura fornì pessimi risultati. L'antagonismo fra doge e tribuni creò una situazione negativa e complessa che si concluse con la deposizione e (come era ormai costume) l'accecamento di Monegario (764).
Seguì un periodo di pace e prosperità sotto il governo del saggio Maurizio Galbaio il quale riuscì a risolvere la rivalità interne e placare gli odii fra le famiglie nobiliari veneziane.
Tanta serenità fu turbata da nuove discordie fra i patriarchi di Aquileia e Grado. Sigualdo di Aquileia, longobardo, accampava pretese sulle chiese dell'Istria. Giovanni patriarca di Grado, con l'appoggio del doge, si rivolse al papa Stefano III il quale ordinò ai vescovi istriani di sottomettersi a Grado senza ottenere obbedienza.
Si progettò quindi, da parte dei Veneziani, un intervento militare ma con la morte del pontefice la vicenda rimase in sospeso. La definì Adriano I dopo che Carlo Magno ebbe sconfitto Desiderio ed i patriarchi di Aquileia, privati della protezione dei Longobardi, dovettero rimettersi alla volontà del papa.
Ancora durante il dogato di Maurizio fu istituita la sede vescovile di Olivolo che più tardi divenne vescovato di Venezia.
Quando Carlo Magno assediò Pavia necessitò di una piccola flotta che attaccasse la città dalla parte del fiume. Tramite un ambasciatore di papa Adriano la chiese ai Veneziani i quali, benché avessero buoni rapporti con Desiderio e non volessero far cosa sgradita ai Bizantini ostili ai Franchi, deliberarono infine di concedere l'aiuto richiesto e parteciparono all'assedio collaborando alla caduta di Pavia, ma i Franchi non si mostrarono riconoscenti nei loro confronti.
Maurizio Galbaio chiese che suo figlio Giovanni fosse associato al governo. I Veneziani lo permisero in considerazione dei meriti del doge, che era al potere ormai da quattordici anni, ma questo evento costituì un precedente che in epoche successive portò alla formazione di pericolose dittature dinastiche.
Giovanni, una volta morto Maurizio, si dimostrò iniquo, avido e lussurioso. Governò per diciassette anni commettendo ogni sorta di abuso e sobillando quelle ostilità interne che il padre era riuscito a sedare. Associò al potere il figlio Maurizio. I due dogi intrattenevano relazioni con l'imperatore bizantino Niceforo il quale propose loro di insediare un ragazzo a lui gradito come nuovo vescovo di Olivolo. Si oppose Giovanni patriarca di Grado e i due Galbaio lo assassinarono.
A Giovanni seguì il nipote Fortunato che organizzò una congiura per abbattere i dogi. Scoperto, fu costretto a fuggire in Sassonia dove si pose sotto la protezione di Carlo Magno, ma gli altri congiurati riuscirono a deporre i Galbaio che trascorsero in esilio il resto della vita.
Fu eletto doge Obelerio Antenoreo. Durante il suo governo scoppiò una guerra civile fra Eraclea ed Equilio che dilagò rapidamente coinvolgendo altre isole della laguna.
I Franchi manovrarono per penetrare nel dominio veneziano sostenendo un certo Giovanni, ex vescovo di Olivolo in esilio che fu insediato in Istria sotto la protezione di Carlo Magno per sorvegliare da vicino le vicende della Repubblica.
Obelerio, dispotico ed arrivista, riuscì ad associare al potere i due fratelli Beato e Valentino, tentando di consolidare la supremazia della loro famiglia.
Esisteva un trattato fra Bizantini e Franchi che proteggeva le città delle Venezie e della Dalmazia garantendone l'indipendenza. Temendo che Carlo Magno stesse per violare questo trattato, Niceforo inviò una flotta nella laguna per sorvegliare Venezia. In effetti il doge Obelerio stava tessendo patti segreti con i Franchi.
Quando Carlo Magno ed il figlio Pipino decisero di impadronirsi dell'alto Adriatico chiesero una flotta ai Veneziani ma questi decisero di negarla per non violare i trattati di amicizia con Bisanzio. Il doge Obelerio ed il fratello Beato furono inviati come ambasciatori presso Carlo Magno per spiegare le ragioni del rifiuto.
Tuttavia Pipino non tardò ad aprire le ostilità: organizzò una flotta con base a Ravenna con la quale isolò le isole veneziane, quindi attaccò portando sterminio e distruzione nella laguna.
Pipino si accampò ad Albiola ed esitò nell'attaccare Malamocco. Angelo Partecipazio, che aveva convinto l'assemblea a rifiutare l'aiuto ai Franchi, assunse il comando dei Veneziani, chiese ed ottenne che i dogi Obelerio, Beato e Valentino fossero esiliati.
Prima di attaccare nuovamente Pipino, che non era ancora riuscito a penetrare nella parte più interna della laguna, propose la resa ai Veneziani. Questi rifiutarono e si disposero al combattimento disponendo di navi più piccole e più adatte a manovrare in quelle acque. Le ostilità durarono per mesi ed alla fine i Franchi, sconfitti, abbandonarono l'impresa.
Fu eletto doge Angelo o Agnello Partecipazio (810) e la sede del governo venne trasferita da Malamocco alla più protetta Rialto.
Il primo libro si conclude con la cronologia dei vescovi nelle sedi veneziane (Grado, Malamocco, Torcello, Eraclea, Equilio).

Libro Secondo
Partecipazio fece costruire sull'isola di Rialto il primo palazzo ducale che, a seguito di numerosi rifacimenti e restauri, assunse nei secoli l'aspetto attuale.
Il doge curò particolarmente l'urbanistica e gli abbellimenti della città facendo costruire nuovi ponti, abitazioni e chiese e promuovendo la manutenzione di dighe ed argini.
Inviò il figlio maggiore Giustiniano a Costantinopoli come ambasciatore presso l'imperatore Leone ed associò al governo il secondo figlio Giovanni. Quando Giustiniano tornò da Costantinopoli considerò un'offesa l'associazione del fratello al governo e convinse il padre a deporre Giovanni. Questi fu esiliato e si rivolse all'imperatore Ludovico perché lo reintegrasse nella sua carica ma Ludovico, accogliendo la richiesta di Angelo Partecipazio, lo fece catturare e lo riconsegnò ai Veneziani.
Angelo confinò Giovanni a Costantinopoli ed associò al ducato Giustiniano, riprendendo la pericolosa politica dinastica.
Fortunato patriarca di Grado ritornò alla sua sede dopo quattro mesi di esilio e conferì alla sua chiesa i ricchi doni che aveva avuto da Carlo Magno, inoltre ottenne dal re dei Franchi la libertà per le isole della laguna e dell'Istria di eleggere autonomamente i magistrati.
I meriti di Fortunato, tuttavia, furono oscurati quando egli prese parte ad una congiura contro i Partecipazio.
Coinvolto in queste cospirazioni ordite da famiglie nobiliari ostili al doge, Fortunato fuggì a Costantinopoli, poi presso l'imperatore Ludovico, infine morì dopo un periodo di pericoli e di fughe fra l'anno 824 e l'826. Fu eletto patriarca il monaco Giovanni (Giovanni II) che tuttavia rinunciò alla carica dopo un breve periodo. Seguì Venerio.
Angelo Partecipazio morì nell'827 e fu sepolto nel monastero di Sant'Ilario. Il ducato passò al figlio Giustiniano. Questi fondò il monastero di San Zaccaria, collegato all'omonima antica chiesa che venne restaurata ed arricchita per custodirvi le reliquie del santo donate dall'imperatore di Bisanzio.
Un certo Massenzio che dall'811 era patriarca di Aquileia si rivolse all'imperatore Ludovico chiedendo che la cattedra di Grado fosse abrogata o sottomessa alla sua e definendo tutti i patriarchi di Grado usurpatori del primato di Aquileia. Ludovico rimise la questione al papa Eugenio II il quale convocò i due vescovi coinvolti.
Venerio si presentò ma Massenzio rifiutò ed infine ottenne che la questione fosse giudicata da un concilio di vescovi che si riunì a Mantova il 6 giugno 827.
Il concilio fu favorevole a Massenzio e Venerio ricorse al papa. Ma Eugenio II morì poco dopo ed il suo successore Valentino non regnò che quaranta giorni, così l'istanza di Venerio fu giudicata da Gregorio IV. Le notizie in merito alla decisione di Gregorio IV sono confuse ma pare che egli confermò la legittimità del patriarcato di Grado, così come più tardi il suo successore Sergio II.
Le dispute non ebbero comunque termine ed ancora nell'880 il doge Orso Partecipazio intervenne per sedarle, fu concluso un accordo che portò la pace per circa sessanta anni, quindi le ostilità fra le due Chiese ripresero e durarono ancora per secoli.
I Saraceni infestavano il Mediterraneo con le scorrerie delle loro navi. L'imperatore bizantino Michele organizzò una flotta contro di loro chiese ai Veneziani di partecipare a questa lotta contro la pirateria.
I Veneziani aderirono alla richiesta ma le loro azioni non ebbero buon esito.
Nell'anno 827 una nave mercantile veneziana fu spinta da una tempesta verso l'Egitto ed approdò ad Alessandria. Qui si custodivano in un tempio le spoglie di San Marco Evangelista ma i sacerdoti di quella chiesa erano molto preoccupati per i rischi che le sacre reliquie correvano a causa dei Saraceni. I mercanti veneziani riuscirono a convincere quei religiosi a consegnare loro il corpo dell'Evangelista perché lo portassero in salvo a Venezia come era stato per altro predetto da un'antica profezia.
La città accolse con una solenne cerimonia le reliquie che furono provvisoriamente deposte nella cappella ducale. Il doge Giustiniano Partecipazio decretò la demolizione della piccola chiesa di San Teodoro e la costruzione di una grande basilica. I lavori ebbero inizio durante il governo di Giustiniano che lasciò al suo successore il legato di portarli a termine.
Nel nono secolo, mentre il resto dell'Italia e gran parte dell'Europa attraversavano un periodo oscuro, il commercio veneziano era più che mai fluente.
L'attività più importante era il commercio del sale, nel quale Venezia non temeva rivali, seguiva l'importazione di spezie, profumi, sete ed altri tessuti pregiati dall'Oriente.
Inoltre i mercanti veneziani viaggiando nel Mediterraneo e nei paesi asiatici apprendevano nuove conoscenze, soprattutto nel campo dell'ingegneria nautica e in quello dell'architettura, e nuovi mestieri nel settore artigianale.
Il commercio veneziano, come Cappelletti vuole dimostrare con una serie di dotte citazioni, era regolato da antiche leggi che furono più volte riviste e ricodificate nel corso dei secoli.
Prima di morire Giustiniano Partecipazio richiamò il fratello Giovanni dall'esilio a Costantinopoli e lo associò al ducato. Quando Giustiniano morì nell'829, Giovanni divenne il nuovo doge.
Giovanni attese con impegno alla costruzione della Basilica di San Marco, ma il suo ducato fu turbato da una guerra contro gli Slavi, poi interrotta per la resa di questi.
Più grave fu la guerra civile causata dall'improvviso ritorno del deposto doge Obelerio che tentò di riprendere il potere ma venne sconfitto e giustiziato.
Conseguenza di questa guerra civile fu una congiura contro Giovanni Partecipazio che fu costretto a fuggire in Francia presso l'imperatore Ludovico. Capo della congiura era un certo Carausio o Caroso che i ribelli fecero eleggere dall'assemblea in sostituzione di Partecipazio.
Dopo sei mesi il partito favorevole all'esule rovesciò Carausio che venne accecato ed incarcerato e richiamò Partecipazio.
Giovanni tornò ma dopo un breve tempo le famiglie a lui ostili riuscirono a rovesciarlo e lo costrinsero a farsi monaco nella chiesa di Grado, dove dopo poco morì.
Venne eletto doge Pietro Tradonico, oriundo di Pola, che riprese la lotta contro i pirati slavi, lotta che durò a lungo con alterne fortune.
Nell'840, accogliendo una richiesta dell'imperatore bizantino Teofilo, Tradonico armò una grande flotta per combattere contro i Saraceni ma i Veneziani furono duramente sconfitti nel golfo di Taranto e subirono forti perdite.
Il doge Tradonico concluse con l'imperatore Lotario un trattato molto vantaggioso per Venezia che proteggeva i Veneziani da attacchi, incursioni e rapimenti oltre a regolare opportunamente i rapporti commerciali fra impero e repubblica e garantire la libertà di traffici terrestri a questa e di traffici marittimi a quello.
L'anno successivo i Veneziani combatterono nuovamente contro i Saraceni presso le coste dell'Istria ma questa volta la sconfitta non fu grave come la precedente. Anche gli Slavi attaccarono ancora e riuscirono a saccheggiare la città di Caorle.
Fin dall'860 la vita cittadina fu turbata da discordie fra famiglie nobili tanto che il doge esiliò alcuni illustri personaggi che furono poi richiamati in patria per intercessione dell'imperatore.
Il giorno di Pasqua dell'864, mentre tornava dalla tradizionale visita annuale alle monache di San Zaccaria, il doge Tradonico venne assassinato da un gruppo di congiurati.
E' opinione dell'autore che l'assassinio fu compiuto per una vendetta personale o per mandato di una famiglia ostile in quanto pare che il doge fosse persona giusta e benvoluta, infatti le sue guardie si trincerarono nel palazzo ducale giurando che nessuno vi sarebbe entrato finché l'omicidio non fosse stato punito.
La situazione era grave e si ritenne opportuno nominare subito un nuovo doge, fu scelto Orso Partecipazio la cui prima azione fu indire un'inchiesta per individuare gli assassini del predecessore. I colpevoli vennero identificati ma prima che si potesse giudicarli alcuni di loro furono linciati dal popolo, gli altri vennero esiliati.
Il processo fu condotto da un tribunale temporaneo, antesignano del tribunale di stato che più tardi sarà istituito definitivamente.
Partecipazio volle premiare la fedeltà delle guardie concedendo loro due isole da colonizzare ed una quasi totale esenzione fiscale. Anche questo Doge dovette combattere contro Slavi e Saraceni. Assunse il comando della flotta e riportò importanti vittoria contro gli Slavi presso le coste dalmate.
L'imperatore bizantino Basilio, per combattere i Saraceni, si rivolse all'imperatore franco Ludovico II ed ai Veneziani. Inviò un'onorificenza a Partecipazio che ricambiò con il dono di dodici grandi campane, le prime installate a Costantinopoli.
La flotta veneziana sconfisse i Saraceni nelle acque di Taranto vendicando la sconfitta subita ventotto anni prima nello stesso luogo, ma Basilio, in disaccordo con Ludovico, abbandonò l'impresa.
I Saraceni portarono l'attacco nella laguna ma i Veneziani li sconfissero nuovamente ed aiutarono Ludovico a conquistare Bari.
Fra il doge Partecipazio ed il patriarcato di Grado nacque una controversia sulla consacrazione a vescovo di un protetto del doge che era eunuco. La disputa durò quattro anni e fu infine appianata con l'intercessione del papa Giovanni VIII.
Orso Partecipazio morì nell'881 ed il ducato passò al figlio Giovanni che già era stato associato al potere dal padre.
Giovanni inviò a Roma il fratello Badoario per chiedere al papa il possesso della contea di Comacchio, ma Badoario cadde in un'imboscata tesa dal conte di Comacchio Marino. Fu gravemente ferito ed imprigionato. Venne liberato in cambio della promessa di non vendicarsi ma tornato a Venezia morì per la ferita ed il fratello attaccò Comacchio e la conquistò.
Qualche tempo dopo Giovanni I Partecipazio si ammalò ed ottenne che il fratello Pietro fosse associato al ducato per aiutarlo a governare, ma Pietro morì presto e fu sostituito da un altro fratello di nome Orso che non aveva le doti necessarie per detenere il potere.
Aggravandosi le sue condizioni, Giovanni si dimise convincendo il fratello a fare altrettanto e lasciando libera la Repubblica di scegliere un nuovo doge. Fu eletto Pietro Candiano il 17 aprile 887.
Dopo soltanto cinque mesi di governo, il 18 settembre 887, Pietro Candiano morì combattendo contro i pirati dell'Adriatico. L'assemblea richiamò al potere Giovanni Partecipazio il quale, dopo aver opposto molta resistenza, accettò ma tenne il ducato solo per sette mesi, quindi si dimise nuovamente.
Nell'888 fu eletto doge Pietro Tribuno. Alcune cronache parlano anche di un Domenico Tribuno, forse associato da Giovanni Partecipazio nell'ultimo periodo del suo governo, ma alcune contraddizioni cronologiche nei documenti rendono incerta la notizia.
In quel periodo scoppiò la lotta per il trono italiano fra Berengario del Friuli e Guido da Spoleto, inoltre Venezia era minacciata dagli Unni che, chiamati da Arnolfo di Carinzia per sedare rivolte in Moravia e Boemia, stavano penetrando anche in Italia.
Una grande affluenza di profughi in cerca di scampo da questi pericoli aumentò notevolmente la popolazione veneziana e le costruzioni si moltiplicarono.
Il doge Tribuno realizzò opere di difesa: una muraglia e lo sbarramento del Canal Grande mediante una robusta catena, un castello a difesa del porto ed altri forti e torri.
Gli Ungari sbaragliarono l'esercito di Berengario, penetrarono nel Trevigiano e saccheggiando e distruggendo varie località si avvicinarono pericolosamente a Venezia. Quando organizzarono una modesta flotta per tentare un attacco via mare, Pietro Tribuno mise in campo la sua flotta assumendone personalmente il comando per respingerli (903). La sconfitta dei barbari, inesperti di cose di mare, fu tale che essi non tentarono mai più di penetrare nella laguna.
A Pietro Tribuno, morto nel 912, successe Orso Partecipazio II detto Badoes, uomo mite e molto religioso.
Orso inviò il figlio Pietro a Costantinopoli per confermare i rapporti amichevoli fra la Repubblica e l'Impero. Durante il viaggio di ritorno Pietro fu catturato dagli Slavi e consegnato al re dei Bulgari, poi riscattato dall'arcivescovo di Malamocco.
Nel 925 ambasciatori veneziani si presentarono all'imperatore Rodolfo ed ottennero il rinnovo delle immunità nei possedimenti di Venezia che comprendevano il diritto di spendere la moneta della Repubblica nel dominio imperiale.
Nel 911 venne creato vescovo della sede olivese Domenico Daviel Onciano, un laico con moglie e figli che dovette accettare la nomina suo malgrado per pressioni della popolazione. Cappelletti ne deduce che all'epoca nella chiesa veneziana la regola del celibato non doveva essere troppo rigida.
Dopo venti anni di governo il doge Orso II Partecipazio si dimise perché gravato dall'età e si ritirò in monastero. Fu eletto doge Pietro Candiano.
Fu stipulato un trattato di alleanza fra Venezia e gli Istriani. Il trattato non piacque al marchese Winktero che reagì confiscando tutti i possedimento veneziani in Istria, proibendo agli Istriani il commercio con Venezia e depredando molte navi della Repubblica.
Il doge Pietro Candiano, saggiamente, evitò l'uso della violenza e per risolvere la questione ordinò il blocco di qualsiasi fornitura agli Istriani.
Il marchese fu costretto dalla mancanza di generi primari a cercare la riconciliazione (932) e con la mediazione dei vescovi si giunse ad un accordo.
Poco dopo il doge inviò la flotta contro gli abitanti di Comacchio che avevano predato alcune navi mercantili veneziane. La missione ebbe rapidamente successo ed i Comacchiesi, per evitare la distruzione della loro città, accettarono di restiruire la refurtiva e di sottomettersi alla Repubblica.
Un avvenimento famoso all'epoca fu il rapimento delle spose veneziane da parte dei Triestini. Era tradizione che ogni anno il comune fornisse di dote le dodici spose più povere della città e che i loro matrimoni si celebrassero tutti insieme con una grande festa alla quale partecipava la popolazione. Ne approfittarono i Triestini per insinuarsi fra la folla ed improvvisamente rapire le spose ed i loro cofanetti contenenti le doti ricevute. Superata la sorpresa i Veneziani salirono sulle loro barche, raggiunsero i rapitori e ne fecero strage recuperando le giovani ed il bottino.
Gli abitanti della zona di Maria Formosa, in maggioranza falegnami fabbricatori di casse per il trasporto delle merci, furono fra i più attivi nella battaglia contro i Triestini, come premio chiesero al Doge di visitare ogni anno nei giorni 1 e 2 febbraio la loro chiesa, tradizione che durò fino alla fine della Repubblica.
Nella stessa occasione fu istituita la Festa delle Marie che prevedeva una processione con statue di legno rappresentanti le dodici spose ed un angelo. Successivamente le statue furono sostituite da dodici ragazze (due per sestiere) e da un giovanotti, tutti riccamente vestiti.
La festa, inizialmente concepita come cerimonia religiosa, nel tempo degenerò diventando molto licenziosa e fu spesso causa di disordini finché nel 1379 venne abrogata.
Fu istituita allora la regata, sorta di sfilata e di gara di barche riccamente adornate alla quale partecipava anche il Bucintoro, l'imbarcazione da parata del Doge.
A Pietro II Candiano successe Pietro Partecipazio, figlio di Orso II, che fu eletto nel 939.
Pietro Partecipazio era un uomo pacifico e sotto il suo breve governo regnarono la prosperità e la pace ma non mancarono discordie interne che successivamente portarono ad eventi drammatici. Il doge morì dopo soli tre anni e fu sostituito da Pietro Candiano III figlio di Pietro Candiano II.
Pochi anni dopo (943) il patriarca friulano Lupo aggredì con le armi la città di Grado. Per sedare i disordini anche Pietro Candiano III tagliò al Friuli i rifornimenti dal mare costringendo Lupo a cercare la mediazione del patriarca di Grado per risolvere la situazione e a impegnarsi a non molestare più Grado o qualsiasi altro possedimento della Repubblica, pena una multa di cinquanta libbre d'oro (13 marzo 944).
Pietro Candiano III rinnovò i patti politici e commerciali con il re d'Italia Berengario. Il trattato prevedeva la libera circolazione della moneta veneziana nel territorio italiano, regolamentava i rapporti doganali e commerciali, precisava i confini, ecc.
Pietro IV Candiano, figlio di Pietro III, fu da questi associato al governo ma ordì una congiura contro il padre. Scoperto venne processato e condannato a morte, poi la pena fu commutata in esilio perpetuo per intercessione del padre e Pietro IV si trasferì a Ravenna presso Guido figlio di Berengario.
Con Guido, del quale divenne grande amico, combattè contro i marchesi di Spoleto e Camerino, quindi catturò sette navi veneziane alla foce del Po.
Pietro III Candiano morì, sembra, per il dolore procuratogli dal comportamento del figlio e dei suoi sostenitori rimasti a Venezia. Aveva regnato dal 942 al 957.
Inopinatamente venne eletto doge Pietro IV, forse perché la sua fazione aveva avuto il sopravvento.
Fra i primi atti del nuovo doge fu la convocazione di un concilio di vescovi per combattere il traffico di schiavi cristiani ( 960).
Il concilio vietò questo commercio stabilendo pene per i trasgressori. Le nuove leggi non vietavano di acquistare schiavi per proprio uso e una legge del 1417 dimostra che secoli dopo questa possibilità era ancora in vigore. Le famiglie patrizie, infatti, disponevano di molti schiavi che in genere venivano liberati alla morte del padrone.
Lo stesso sinodo convocato da Pietro IV Candiano decretò l'assoluta proibizione di portare dispacci e lettere provenienti dalla corti europee a Costantinopoli. La misura, solo apparentemente formale, mirava a salvaguardare l'indipendenza della Repubblica evitandone il coinvolgimento in ogni manovra politica estranea. Ma se il doge Pietro IV fu promotore di queste sagge e lodevoli iniziative, in altre occasioni pospose l'interesse dello stato alla propria ambizione.
Quando l'imperatore Ottone che voleva l'alleanza con Venezia per favorire le sue mire sull'Italia gli propose di sposare la nobile Waldrada sorella di Ugo marchese di Toscana, Pietro non esitò a ripudiare la moglie e un figlio, costringendoli a prendere i voti, per realizzare il matrimonio incamerando la ricchissima dote della sposa.
Essendo entrato in possesso di tenute, castelli e borghi, il doge assoldò molti militari per difenderli e spesso usò questa milizia a danno dei vicini, come nel caso di Ferrara e Oderzo contro le quali effettuò azioni ingiustficate. Ottone, che intanto era stato nominato re d'Italia, confermò i possedimenti dei Veneziani in territorio italiano, altrettanto fece il papa Giovanni XIII rispetto ai diritti della Chiesa di Grado.
Ottone si stabilì a Ravenna e non attaccò mai Venezia preferendo forse attendere l'occasione per impossessarsene senza combattere, ma i Veneziani riuscirono sempre a mantenere buoni rapporti con Bisanzio e quindi a non dover mai chiedere aiuto all'imperatore tedesco. In particolare i Veneziani si impegnarono a non trasportare verso i porti dei Saraceni armi o materiali adatti a fabbricarne.
Il doge tuttavia non era amato e il risentimento della nobiltà incontro anche l'appoggio popolare culminando in un assalto armato al palazzo ducale nel 976. La guardia del doge resistette al primo assalto ma dovette cedere quando i rivoltosi incendiarono il palazzo. Pietro IV tentò di fuggire ma fu trucidato insieme al figlio neonato. Aveva governato Venezia per diciotto anni. I beni del doge furono acquisiti dall'erario e Waldrada fu lasciata fuggire per evitare incidenti internazionali e riparò a Pavia presso la madre Adelaide.
Il doge tuttavia non era amato e il risentimento della nobiltà incontro anche l'appoggio popolare culminando in un assalto armato al palazzo ducale nel 976. La guardia del doge resistette al primo assalto ma dovette cedere quando i rivoltosi incendiarono il palazzo. Pietro IV tentò di fuggire ma fu trucidato insieme al figlio neonato. Aveva governato Venezia per diciotto anni. I beni del doge furono acquisiti dall'erario e Waldrada fu lasciata fuggire per evitare incidenti internazionali e riparò a Pavia presso la madre Adelaide.
Vitale, il figlio ripudiato di Pietro IV che nel frattempo era divenuto patriarca di Grado, perseguitato dai nemici del padre fuggì in Germania presso Ottone II.
Il 12 agosto 976 fu eletto doge Pietro Orseolo, uomo particolarmente religioso.
Pietro Orseolo e sua moglie Felicia avevano avuto un figlio che avevano chiamato Pietro come il padre (Pietro II Orseolo). Fece ricostruire la chiesa di San Marco e il Palazzo Ducale finanziando i lavori con mezzi della sua famiglia, ma certamente non potè completare l'opera che fu terminata solo nel 1071.
Valdrada vedova del doge Pietro Candiano IV aveva la protezione della madre dell'imperatore Ottone II. Avanzò la richiesta alla repubblica di Venezia della restituzione dei beni che aveva portato in dote quando aveva sposato Pietro Candiano. Un rifiuto sarebbe stato pericoloso perché poteva comportare la reazione dell'imperatore ma il doge, tramite il suo ambasciatore Domenico Cerimano, trovò un decoroso accomodamento restituendole la dote originale ma non il denaro e i preziosi che il marito le aveva donato il giorno della nozze secondo un'antica tradizione.
Orseolo riformò le norme fiscali e rinnovò i patti di alleanza con Giustinopoli (Capo d'Istria).


Dopo Tribuno Manio venne eletto Pietro II Orseolo figlio di Pietro I, uomo di grandi qualità umane e plitiche. La prima preoccupazione del nuovo doge fu quella di risolvere le dispute e le rivalità interne e riportare la pace nella repubblica, ciò favorì il commercio che Pietro II aiutò anche stringendo nuovi accordi con la corte di Bisanzio che concesse a Venezia agevolazioni e esenzioni in tutte le regioni dell'impero. Inviò ambasciatori anche ai sultani e agli emiri del Vicino Oriente definendo anche con loro accordi vantaggiosi.
La diplomazia del doge ottenne ottimi risultati anche dalle trattative con Ottone: furon rinnovati i precedenti trattati e Venezia ottenne la restituzione di Cavarzere e Loreo che erano state assoggettate da Ottone II.
Nuovi trattati commerciali furono sottoscritti anche con il duca di Benevento e con gli altri duchi longobardi che avevano possedimenti in Italia.
Dove non poteva arrivare con la diplomazia Orseolo II passò alle armi e così liberò le zone del Veneto oppresse dagli Slavi.
Il vescovo di Belluno aveva occupato abusivamente alcune località nei territori di Eraclea, Caorle e Grado. Orseolo chiese in merito l'intervento di Ottone III che inviò più volte i suoi legati al vescovo con l'ordine di liberare quelle località. Persistendo l'ecclesiastico nel suo rifiuto di obbedire all'imperatore, li doge bloccò le forniture di sale e di altri generi di prima necessità rivolte al Bellunese. Era una strategia già collaudata da altri dogi che anche questa volta funzionò, il vescovo Giovanni di Belluno e i suoi alleati Bozo di Treviso e Sicardo di Ceneda, costretti da sollevazioni popolari, inviarono messi al doge per trattare ma Orseolo li congedò senza accettare alcuna proposta. Ai vescovi non rimase che chiedere la mediazione dell'imperatore che impose loro di dare piena soddisfazione alle istanze dei Veneziani.
Ottone III inoltre concesse a Venezia di aprire altri mercati in territorio italico e volle essere padrino nella cresima di uno dei figli del doge.
Citando documenti originali rinvenuti negli archivi delle città interessate, Cappelletti narra di accordi conclusi da Pietro II Orseolo con Treviso, Ceneda e altre località che in pratica procurarono a Venezia il monopolio nella vendita del sale e di altri generi in tutto il territorio fino ai confini dell'impero.
Ottime erano anche le relazioni del doge con Costantinopoli, su invito dell'imperatore Basilio, Pietro II mandò il suo primogenito Giovanni in visita nella capitale dell'impero dove il giovane ricevette il titolo di Ipato oltre a molti preziosi regali.
A ostacolare i commerci veneziani in mare erano soltanto i pirati slavi dell'isola di Lissa che addirittura imponevano il pagamento di un'imposta annuale ai mercanti in cambio della libertà di navigare. Pietro II vietò il pagamento di quell'illegittimo tributo, quindi allestì sei vascelli da guerra che al comando di Badoario Bragadin portarono il saccheggio nei territori controllati dai pirati lungo la costa dalmata, quindi puntarono sull'isola di Lissa. I soldati veneziani assaltarono l'abitato di Lissa facendo strage degli uomini che vi si trovavano e prendendo prigionieri donne e bambini.
Un documento del 996 o 997, verbale di un'assemblea generale convocata da Pietro II, riferiva la confessione resa da molte persone di aver congiurato contro il doge e stabiliva nei confronti di tali persone le pene da applicare in caso di recidiva. Non si conoscono le circostanze del complotto ma è probabile che il movente fosse la gelosia delle principali famiglie veneziane per i successi dell'Orseolo.
Il cronista Sagornino, che visse in quei tempi, racconta che le città della Dalmazia continuamente tormentate dalle incursioni del Croati, dopo aver chiesto aiuto a Bisanzio senza ottenerlo, si rivolsero a Venezia della quale erano del resto tributarie.
Nel maggio 997 Pietro II Orseolo intraprese una campagna in Dalmazia con l'approvazione di Bisanzio. Facendo brevi soste a Grado, Parenzo, Pola, Ossero, la flotta veneziana giuse a Zara. Il re croato Murcimiro tentò di intavolare trattative per guadagnare tempo nell'attesa di ricevere rinforzi dai suoi alleati ma il doge respinse i suoi approcci. Murcimiro quindi attaccò con venti navi che furono tutte catturare dai Veneziani.
In conseguenza di questa vittoria, Orseolo ricevette la resa spontanea di diversi presidi croati. Suringa, fratello di Murcimiro, chiese aiuto a Orseolo contro il fratello che l'aveva espulso dal regno. Continuando ad avanzare, Orseolo incontrò resistenza degli Slavi delle isole di Curzola e Lagosta che non intendevano arrendersi ai Veneziani. La conquista di Curzola fu relativamente facile e rapida mentre Lagosta resistette più a lungo e quando i Veneziani riuscirono a entrare nella città fecero strage degli abitanti. Il resto degli slavi ostili a Venezia si arrese senza combattere e il Doge, dopo esserci impadronito dei loro paesi, tornò in patria dove fu acclamato "Doge di Venezia e della Dalmazia", titolo di cui si ornarono anche i suoi successori.
In chiusura del secondo libro, l'autore fornisce la cronotassi dei vescovi delle diocesi veneziane nel periodo che sta narrando.

Libro Terzo

Come era prassi per Venezia, Orseolo II non impose ai paesi conquistati governatori o presidi militari, ma si limitò ad esigere un tributo e a impegnarli a fornire aiuti militari quando necessario.
Per commemorare la conquista della Dalmazia e le vittorie di Pietro II Orseolo fu istituita una speciale cerimonia da tenersi il giorno dell'Ascensione (Sensa in dialetto), anniversario della partenza della flotta all'inizio dell'impresa. In quest ricorrenza il doge, vestendo le insegne regali, si recava al porto di Olivolo con l'imbarcazione detta Bucintoro a compiere la cerimonia dello "sposalizio del mare" che prevedeva tra l'altro che il vescovo di Olivolo porgesse i suoi complimenti al doge vincitore.
Mentre il doge era impegnato in Dalmazia, l'imperatore Ottone III scese in Italia per la terza volta. Raggiunto a Pavia dalla notizia delle vittorie veneziane decise di recarsi a Venezia con un ridottissimo seguito per congratularsi con Pietro II. Ottone fece visita in incognito a Pietro alloggiando in un appartamento del palazzo ducale appositamente preparato e preferì evitare i fasti e le cerimonie di una visita ufficiale. Prima di ripartire Ottone confermò i privilegi della Repubblica Veneziana concedendo nuove esenzioni fiscali che il doge comunicò all'assemblea soltanto alcuni giorni dopo la partenza dell'ospite.
Nel 1002 morì Ottone III e in Italia si accese la speranza di liberarsi del dominio tedesco, tuttavia come sempre mancò l'unità: una fazione nominò re Arduino marchese di Ivrea, l'altra sosteneva Arrigo duca di Baviera. Inizialmente Arduino e i suoi sostenitori prevalsero ma dopo due anni Arrigo, divenuto re di Germania, scese in Italia e Arduino fu sopraffatto.
In Italia soltanto Venezia era in pace e viveva sicura con i suoi commerci e le sue istituzioni. I Veneziani onoravano in tutti i modi il loro doge e vollero dimostrarlo dichiarando Giovanni Orseolo, figlio di Pietro II, collega del padre e suo successore.
Il doge inviò ambasciatori a Ratisbona per omaggiare Arrigo e rinnovare i trattati esistenti tra Venezia e il regno italico.
Nel 1004 i Saraceni assediarono Bari. Cappelletti ricava la data dal cronista Sagornino vissuto all'epoca dei fatti. Muratori e Sigonio dipendendo da altre fonti datavano l'evento rispettivamente 1002 e 1005, ma la discrepanza sembra irrilevante.
Non riuscendo il presidio bizantino a liberare Bari, l'imperatore Basilio II chiese aiuto a Venezia. Pietro Orseolo armò la flotta e si portò di fronte a Bari, qui i Veneziani manovrarono così abilmente da riuscire a entrare in porto nonostante lo sbarramento di navi nemiche. Oltre alle milizie del doge trasportavano rifornimenti di viveri per gli assediati.
Nel quaranta giorni successivi l'azione combinata di Veneziani e Bizantini portò grandi danni agli assedianti con rapidi attacchi in più punti contemporaneamente. Infine Orseolo assunto il comando supremo, ordinò un attacco in massa dei Bizantini e di parte dei Veneziani contro le truppe saracene in terra mentre il resto delle forze veneziane operava in mare contro la flotta nemica. Dopo tre giorni di durissima battaglia i Saraceni fuggirono lasciando libera Bari. Era il 18 ottobre 1004.
Come riconoscimento per la parte avuta da Venezia nella liberazione di Bari, gli imperatori Basilio II e Costantino VIII offrirono a Giovanni, figlio e collega di Pietro Orseolo, la mano di Maria, figlia di Romano Argiro (futuro imperatore) e della sorella di Basilio II e dopo il matrimonio lo nominarono patrizio.
Enrico II, come già Ottone III, volle essere padrino alla cresima di un figlio del doge, il più piccolo.
Verso la fine dell'anno 1005 la principessa Maria partorì un maschio che fu chiamato Basilio in onore dell'imperatore di Bisanzio.
L'anno successivo una terribile epidemia di peste colpì la laguna provocando una strage e la conseguente carestia. Fra le vittime furono Giovanni Orseolo, la moglie Maria e il loro figlio Basilio. Per consolare il doge della perdita i Veneziani vollero associargli un altro suo figlio, Ottone che aveva solo quattordici anni.
Benché avesse solo quarantotto anni, Pietro Orseolo non godeva di buona salute, perciò dettò le sue volontà testamentarie destinando metà dei suoi averi ad opere di beneficenza e l'altra metà ai figli. Ne aveva avuti nove: Giovanni che morì di peste, Orso che fu vescovo di Torcello, Ottone associato al dogato, Vitale che divenne vescovo di Torcello nel 1018 quando Orso fu nominato patriarca di Grado, Enrico era il minore, noto per la sua bellezza, che aveva avuto l'imperatore Enrico II come padrino alla cresima. Delle quattro figlie la più grande, Icella, sposò Stefano figlio del croato Suringa che era stato esiliato dal fratello, mentre le altre tre entrarono in monastero.
Pietro II Orseolo morì nel 1008 dopo aver governato Venezia per diciassette anni.

A Pietro Orseolo II successe il figlio Ottone che era associato al potere già da due anni, giovane di diciotto anni ma saggio e prudente che aveva l'affetto dei Veneziani e la stima degli stranieri. Quando Gezia re d'Ungheria gli offerse la mano della figlia (Geiza), Ottone accettò volentieri per i vantaggi di un'alleanza con il regno di Ungheria.
Nell'ottavo anno del dogato di Ottone Orseolo il vescovo di Adria Pietro assediò il castello di Loreo (o Laureto) di proprietà della Repubblica Veneziana pretendendo che spettasse alla chiesa di Adria. Ottone intervenne con milizie molto maggiori di quelle del vescovo e rapidamente liberò il castello e impose un accordo agli Adriesi che li obbligava a rinunciare al castello e al suo territorio senza tentare ulteriori azioni per impadronirsene.
Sconfitto il vescovo Pietro, Ottone passò a recuperare la città di Zara occupata dai Croati. Il doge mosse con la flotta contro gli invasori e li sconfisse in una grande battaglia terrestre e marittima. Dopo la vittoria, Ottone visitò le città della Dalmazia rinnovando gli accordi stipulati da suo padre Pietro II.
Alcuni nobili veneziani, gelosi per i successi e il prestigio del doge, diffusero il sospetto che Ottone mirasse alla dittatura con l'appoggio di potenti famiglie a lui vicine, questa diceria ebbe grande eco nella popolazione e infine Ottone dovette fuggire da Venezia insieme al fratello Orso patriarca di Grado.
Mentre i fratelli Orseolo riparavano in Istria, l'imperatore Enrico II scendeva in Italia con un corpo di quindicimila uomini. Nel suo seguito era anche Poppone patriarca di Aquileia, uomo di grandi aspirazioni, che approfittando dell'assenza del patriarca avanzò pretese su Grado denunciando la carica di Orso come illecita al papa Benedetto VIII che accolse la denuncia e convocò Orso ma questi declinò la chiamata giustificandosi con il timore che Poppone gli tendesse insidie durante il viaggio. Poppone spinse sotto le mura di Grado le milizie di cui disponeva e simulando buone intenzioni indusse gli abitanti ad aprire le porte. I suoi uomini saccheggiarono la città portando via, tra l'altro, tesori e reliquie dalla chiese. Poppone tornò in Friuli lasciando un presidio a Grado.
L'impressione che la notizia del saccheggio suscitò a Venezia giovò ai sostenitori degli Orseolo che riuscirono a convincere i cittadini di aver commesso un errore nel cacciare il doge e in breve Ottone e Pietro Orseolo vennero richiamati.
Ottone formò un esercito ma non ebbe bisogno di combattere perchè il presidio di Poppone si arrese al suo arrivo riconsegnando la città. Questo nuovo successo non bastò a Ottone per consolidare il suo potere perchè alcune potenti famiglie fra cui i Grandenigo ostili agli Orseolo suscitarono una rivolta. Ottone fu catturato e confinato a Costantinopoli mentre il fratello Orso andava di nuovo in esilio volontario. Le aspettative di Domenico Flabanico che aveva capeggiato la rivolta nella speranza di ottenere il dogato furono deluse, venne eletto Pietro Centranigo Barbolano.
La contesa tra Poppone e Orso Orseolo fu giudicata dal papa Giovanni XIX che riconobbe i diritti del secondo. Le città dalmate rifiutarono di rinnovare gli accordi con il nuovo doge mentre l'imperatore di Bisanzio, cognato dell'esule, si preparava a intervenire militarmente, tutto ciò spinse a Veneziani a deporre Centranigo e a richiamare Ottone Orseolo. Orso patriarca di Grado ebbe l'incarico di governare provvisoriamente la Repubblica in attesa del ritorno del fratello Ottone. Svolse l'incarico per quattordici mesi con pieno consenso dei Veneziani e durante quel periodo fece restaurare le chiese di Grado danneggiate dai soldati di Poppone. La deputazione inviata a Costantinopoli per richiamare Ottone tornò con la notizia della morte dell'esule. Orso depose immediatamente il suo governo provvisorio e tornò nella sede patriarcale di Grado.