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TIBERIO

Prima parte



Livia, vivi nel ricordo della nostra grande unione. Addio.

Con queste parole, stando a Svetonio, Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto prese congedo dalla moglie Livia Drusilla, dal mondo, dall’impero e dalla propria vita. Era il 19 agosto del 14 d.C., l’imperatore morì a settantasette anni di malattia nella casa della sua famiglia a Nola. La sua salute non era mai stata particolarmente robusta ed i suoi ultimi anni gli avevano portato numerosi malanni: non di meno la gente mormorò che fosse stato avvelenato, forse proprio dalla moglie che, prima di morire a sua volta, voleva vedere suo figlio Tiberio insediarsi al comando dell’impero. Cassio Dione arriva a descrivere il modo con cui la consorte dell’imperatore avrebbe compiuto il misfatto: cospargendo di veleno i fichi di un albero del loro giardino al quale Augusto era solito cogliere personalmente dei frutti per i suoi pasti notoriamente frugali.
La scelta del suo successore dovette essere una questione tormentosa per Augusto: non aveva avuto figli maschi e la sorte gli aveva portato via ad uno ad uno i membri più degni della sua famiglia, a cominciare da Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, che era stato il primo marito di sua figlia Giulia ed era morto, ancora molto giovane, nel 23 a.C.
Dopo Marcello, Ottaviano aveva voluto che Giulia sposasse il suo più fidato collaboratore: Marco Vipsanio Agrippa, uomo di grande ricchezza e potere, benché fosse coetaneo del padre della sposa. Da questa unione erano nati tre figli (Gaio Cesare, Lucio Cesare, Agrippa Postumo) e due figlie (Giulia Minore e Vipsania Agrippina). Gaio Cesare e Lucio Cesare morirono nel 2 a.C., il primo in Licia ed il secondo a Marsiglia. Agrippa Postumo, che si chiamava così per essere nato dopo la morte del padre, era a detta di Tacito assolutamente disadorno di buone qualità, stoltamente brutale per robustezza di corpo ma, nonostante ciò, innocente di qualsiasi colpa. Augusto lo adottò ma poi lo mandò in esilio, come fece del resto anche con la figlia Giulia e con la nipote Giulia Minore, per comportamento indecente ed atteggiamento ribelle. Sembra che verso la fine il vecchio imperatore pensò di riabilitare il nipote Agrippa ed infatti, racconta ancora Tacito, gli fece una visita privata nel luogo dell’esilio e forse i due si sarebbero riconciliati se Augusto non fosse morto poco dopo.
Proprio questa coincidenza, sembra, fece nascere le dicerie sulle possibili responsabilità di Livia Drusilla, infatti il povero Agrippa Postumo era l’unico che, per rapporti di parentela con Augusto, potesse vantare diritti alla successione più diretti di quelli dell’altro pretendente, Claudio Tiberio Nerone, figlio di primo letto di Livia che era stato adottato da Ottaviano nel 4 a.C. e nel 12 a.C. ne aveva sposato la figlia.
Ma procediamo con l’ordine che queste intricate parentele richiedono: Ottaviano aveva avuto tre mogli: Claudia, Scribonia e Livia Drusilla, a quest’ultima era rimasto legato, per usare le parole di Svetonio “con singolare perseveranza”.
Era stato uno strano matrimonio: Livia Drusilla, figlia di Marco Livio Druso Claudiano, aveva cinque anni di meno di Ottaviano ed era regolarmente sposata con Claudio Tiberio Nerone quando Ottaviano, innamoratosi di lei, pretese che divorziasse e diventasse sua moglie. Questa pratica non scandalizzò nessuno e – a quanto dicono – anche Claudio Tiberio Nerone accettò di buon grado di cedere la sua compagna, se pur incinta, all’uomo che si accingeva a prendere in mano i destini di Roma.
Claudio Tiberio Nerone, appartenente al ramo patrizio dell’antica Gens Claudia, era stato un cesariano convinto. Nella guerra alessandrina aveva comandato la flotta di Cesare, quindi fu inviato nella Gallia Narbonense per fondare delle nuove colonie, nel 42 a.C. (anno della nascita di Tiberio) era pretore. Le sue disgrazie cominciarono quando nella Guerra di Perugia si trovò dalla parte sbagliata, cioè con Lucio Antonio e Fulvia. Costretto a fuggire con la famiglia a Preneste, poi a Napoli ed infine in Sicilia presso Sesto Pompeo fu richiamato in patria nel 39 a.C. in seguito all’accordo di Miseno stipulato fra Ottaviano, Antonio e Sesto Pompeo che prevedeva una sorta di amnistia generale. Proprio in quell’anno Claudio Tiberio Nerone fu cortesemente invitato a cedere la sua signora al vincitore… morì pochi anni dopo lasciando due figli, Tiberio e Druso Nerone che era nato subito dopo il nuovo matrimonio della madre.

Sui primi anni di Tiberio i nostri autori non tramandano molte notizie, ma due sono gli aspetti che tutti mettono in evidenza: ebbe un’educazione superiore, come era normale per un rampollo di grandi casate, ed un’infanzia disgraziata.
La sua genealogia, come si è già accennato, era senz’altro prestigiosa. Apparteneva alla Gens Claudia per parte di padre e di madre e le origini di questa casata risalivano agli albori della città, quando Attio Claudio era emigrato a Roma dalla Sabina per invito – nientemeno – di Tito Tazio, il collega di Romolo. Almeno così narrava la tradizione, comunque di testimonianze dei Claudii è piena l’intera storia romana dai tempi più antichi. Inoltre il nonno materno, Livio Druso Claudiano, forniva a Tiberio anche una parentela con la famiglia Livia, altra schiatta di grande prestigio che annoverava fra i suoi componenti numerosi consoli ed alti magistrati. Quanto all’infanzia disgraziata gli storici si rifanno soprattutto al periodo di esilio che i suoi genitori subirono dopo Perugia, Svetonio racconta piuttosto dettagliatamente una serie di situazioni angosciose vissute dai fuggitivi che cercavano con ogni mezzo di non farsi identificare per sfuggire alle proscrizioni del momento. Trascorse, in questo contesto, qualche tempo anche in Grecia dove, fra l’altro, scampò miracolosamente ad un incendio.
Come si è visto comunque i suoi guai finirono con l’accordo di Miseno e con le nozze fra Livia ed Ottaviano. Quando all’età di nove anni perse il padre ne pronunciò l’elogio funebre pro rostris cioè da una tribuna al cospetto di una numerosa folla di cittadini venuti ad onorare lo scomparso e fino al momento di indossare la toga virile visse nel modo tipico degli adolescenti della sua condizione sociale: studiando con i migliori precettori, partecipando ai giochi ed alle cerimonie. Quando Ottaviano celebrò il trionfo in occasione della vittoria di Azio, Tiberio sfilò in una posizione di prestigio, cavalcando a sinistra del carro del trionfatore mentre a destra cavalcava Marcello, quel nipote di Ottaviano che molto probabilmente, se fosse sopravvissuto, sarebbe stato il secondo imperatore.
Divenuto adulto Tiberio iniziò la sua attività politica il che, per i Romani dell’epoca, comportava una notevole pratica di interventi oratori davanti alla popolazione ed al Senato. Acquisì un certo prestigio pronunciandosi in favore di una serie di vittime delle avversità, dal re Archelao di Cappadocia  contrastato dai suoi sudditi agli abitanti di Laodicea e di altre località greche colpite dal terremoto ed in cerca di aiuti.
Il caso di Archelao, vale la pena di notarlo, è un significativo esempio delle asperità del carattere di Tiberio: nel 26 a.C., durante le sue prime esperienze politico-forensi, si è detto, Tiberio lo aiutò perorando davanti ad Augusto le sue ragioni in una controversia della quale non abbiamo esaustiva testimonianza. Più tardi, durante il suo volontario esilio a Rodi, Tiberio si aspettò evidentemente che il monarca gli tributasse visite ed onori ma venne ignorato e non lo dimenticò. Tacito afferma che questo atto di così evidente ingratitudine non fu dovuto a superbia da parte di Archelao ma fu provocato dalla paura che questi poteva avere del potere di Caio Cesare, in quegli anni al massimo della fortuna e del quale Tiberio era un potenziale rivale alla successione. Fatto sta che Archelao non degnò Tiberio neanche di una lettera di due righe durante il soggiorno a Rodi, ma molti anni dopo, divenuto imperatore, Tiberio lo convocò a Roma e gli mosse gravi accuse davanti al Senato. Poco dopo accadde che Archelao finem vitae sponte an fato implevit, cioè morì forse per propria volontà, forse per editto improrogabile del destino. Un'altra notizia particolare sulle prime cariche politiche di Tiberio viene da Svetonio: ebbe a svolgere un’inchiesta sui responsabili degli ergastoli di tutta Italia che, a quanto pare, davano ricetto ai renitenti alla leva. Il suo debutto come comandante avvenne invece nel corso di una campagna di Augusto contro i Cantabri nel corso della quale Tiberio ottenne la carica di tribuno militare.
Nel 20 a.C. Augusto andava riorganizzando le province romane ed i rapporti con gli Stati clienti di Roma, in particolare in Oriente dove intervenne con mezzi diplomatici in favore di Archelao di Cappadocia, del quale si è parlato, di Erode in Giudea,  di Mitridate III di Commagene. In quel periodo, un certo Artasse, figlio del defunto re di Armenia Artavasde II, aiutato dai Parti, rientrava nella sua nazione dalla quale era dovuto fuggire ai tempi dell’invasione guidata da Marco Antonio. Artasse mise a morte i Romani, militari e civili, che ancora risiedevano in Armenia, Augusto decise di intervenire contro di lui e decise di restaurare sul trono Tigrane, fratello di Artasse, che si trovava a Roma. La missione venne affidata a Tiberio che, però, arrivato in Armenia scoprì che Artasse era stato ucciso dai dissidenti del suo nuovo regime: senza alcune difficoltà poté quindi restituire il trono a Tigrane. Tuttavia Tiberio (a detta di Cassio Dione) non esitò ad attribuirsi il merito del successo, accettando le relative onorificenze, inorgogliendosi anche per un singolare prodigio riportato da diversi autori antichi: durante il viaggio – dicono – degli altari si incendiarono spontaneamente al suo passaggio. L’anno successivo Ottaviano dovette frettolosamente rientrare a Roma dove la situazione politica stava arroventandosi a causa delle contese relative alle elezioni dei magistrati e a varie problematiche sociali: Tiberio rientrò con lui ed ottenne una nuova onorificenza, gli fu cioè riconosciuto il titolo di ex pretore, vale a dire la possibilità di sedere in Senato fra quanti avevano già rivestito cariche che egli, ancora troppo giovane, non aveva modo di ricoprire. Contemporaneamente venne concesso  a suo fratello minore Druso il permesso di iniziare la carriera politica con un lustro di anticipo sull’età protocollare. Negli anni dal 19 al 17 a.C. l’imperatore si trattenne a Roma, dedicandosi alla politica interna e consolidando il proprio potere, ottenendo fra l’altro che il Senato approvasse una serie di leggi che gli consentivano di esercitare più direttamente l’amministrazione statale senza per questo dover assumere un titolo palesemente monarchico. Fra le innovazioni importanti introdotte da Augusto gli storici ricordano la costituzione di alcune istituzioni militari stabilmente residenti all’interno del territorio urbano di Roma (caso che non si era mai verificato per tutta la durata della Repubblica): tre delle dodici coorti formate da cinquecento uomini ciascuna di cui Augusto disponeva come milizia personale furono collocate entro le mura, furono inoltre istituiti un corpo di vigili del fuoco ed una polizia urbana.
In questo periodo Augusto procedette ad una nuova revisione dei componenti del Senato (lectio senatus del 18 a.C.), la seconda delle quattro che si sarebbero svolte sotto il suo principato,  con l’intenzione di ridurre il numero dei senatori a trecento come avveniva nel periodo più antico della Repubblica, tuttavia si rese conto che il provvedimento avrebbe generato eccessivo malcontento ed operò in modo che la nuova compagine senatoriale constasse di seicento membri, numero che da allora rimase invariato per secoli.
I principali collaboratori di Augusto in questi anni furono Agrippa, che l’imperatore associò in varie forme al potere, e Mecenate anche se i rapporti con quest’ultimo andavano guastandosi a causa della relazione sentimentale che Ottaviano intratteneva con Terenzia, moglie di Mecenate.
Nel 17 a.C. Augusto adottò Gaio Cesare e Lucio Cesare, figli di Agrippa e di Giulia, rendendoli così suoi possibili successori.
Nel frattempo Tiberio viveva la propria esperienza politica partecipando all’entourage dell’imperatore e rivestendo cariche pubbliche. Era infatti pretore quando, nel 16 a.C., Augusto decise di muovere personalmente contro la Gallia e di portare il figliastro con se; le mansioni della pretura furono perciò delegate, grazie ad un apposito decreto, a Druso fratello di Tiberio.

A Roma, dunque, Augusto aveva reso stabile il proprio governo; nel resto dell’Italia andava promovendo la formazione di nuove colonie da parte dei veterani e riusciva in tal modo a sistemare i numerosissimi reduci delle molte guerre dei decenni precedenti senza che il loro mantenimento gravasse in maniera eccessiva sulle casse dello Stato. Nelle province periferiche dell’impero invece la situazione era meno tranquilla. Praticamente in ogni direzione le popolazioni non ancora assoggettate e quelle sottomesse di recente costituivano un pericolo costante. Se pure le loro organizzazioni militari erano praticamente nullità di fronte alla rodata macchina da guerra romana, le loro tattiche di guerriglia, i luoghi impervi ed estranei alle legioni, a volte la solidarietà delle popolazioni limitrofe erano tutti concreti motivi di preoccupazione per l’esercito romano e per i suoi comandanti. Se Augusto voleva coltivare le proprie ambizioni espansionistiche sul resto del mondo e soprattutto garantire la continuità dell’impero doveva prima di tutto estinguere questi focolai di rivolta. Si può forse dire che questa attività di pacificazione, condotta a volte con strumenti militari, a volte con la diplomazia, caratterizzò distintamente la politica del suo principato e lo vide spesso trascorrere lunghi periodi lontano da Roma, direttamente impegnato nel risolvere le problematiche delle varie province.
Negli anni dal 27 al 25 Augusto si trattenne in Spagna dove ebbe ragione delle popolazioni selvagge che abitavano la regione nord occidentale della Penisola Iberica. Subito dopo si dedicò a ridurre a l’ordine i Salassi nelle zone occidentali dell’arco alpino: per mantenere sotto controllo questa porzione dell’impero fu fondata una colonia di pretoriani denominata Augusta Praetoria che costituì il primo nucleo abitativo di quella che oggi è la città di Aosta. Nel 22 l’imperatore aveva concentrato la propria attenzione sulle province orientali svolgendo un lungo viaggio in Grecia, in Macedonia e nell’Asia Minore, viaggio che fu coronato da un considerevole successo diplomatico quando riuscì senza combattere a convincere i Parti a restituire le insegne che questi avevano preso a Crasso nel 53 presso Carre e a liberare quanti fra i romani che erano caduti prigionieri in quell’occasione fossero ancora in vita. Quando nel 16 Ottaviano decise, come si diceva, di intraprendere una nuova missione fuori dall’Italia la situazione andava di nuovo facendosi rovente, questa volta nelle regioni settentrionali dell’Impero che da qualche tempo erano teatro di numerosi incidenti. Gli storici ricordano ad esempio ribellioni dei Camuni e di altre tribù stanziate nel Nord Italia, nonché incursioni delle genti danubiane nei territori dell’Istria e del Norico. Ma il problema più grave del momento era costituito dalle popolazioni germaniche stanziate alla destra del Reno: questi erano riusciti a sorprendere un contingente romano, avevano ucciso barbaramente gran parte dei prigionieri inviandone alcuni a chiedere un riscatto per gli ostaggi ed infine avevano inferto a Roma una delle più gravi sconfitte dell’epoca, quella patita dalle forze del governatore Lollio nella quale la Legio V Alaudae perse le proprie insegne. Nel frattempo in Gallia ferveva il malcontento fra la popolazione civile a causa degli abusi del corrotto governatore Licino.
Ottaviano fronteggiò la situazione recandosi personalmente in Gallia mentre inviava Tiberio e Druso più ad Oriente a rispondere agli attacchi dei Reti, una popolazione non soggetta all’impero che depredava le confinanti regioni italiane ed insidiava i viaggiatori romani. I due fratelli svolsero nella zona delle Alpi Tridentine un intervento capillare, portando contemporaneamente la guerra in più punti e smembrando le forze nemiche, non si fermarono finché non ebbero eliminato o deportato gran parte degli uomini in grado di combattere, evitando anche per il futuro ogni possibilità di nuove insurrezioni. Tiberio e Druso furono grandemente onorati per queste vittorie, ma ben presto ai problemi creati dai Reti fecero seguito quelli, certamente più impegnativi, provocati dalle popolazioni della Pannonia. Questa regione era compresa fra il Danubio, il Norico, e la Dalmazia e corrispondeva, pressappoco, alla parte orientale dell’attuale Croazia. Una regione dal clima molto rigido abitata da genti di stirpe celto-illirica, i Pannoni, poco civilizzate e molto bellicose. La prima spedizione in Pannonia (13 a.C.)  fu guidata da Agrippa,  questi era da poco tornato da un periodo trascorso in Siria come governatore quando Augusto gli affidò l’incarico conferendogli poteri di comandante supremo. Agrippa non combatté perché i Pannoni, spaventati dal suo arrivo, rinunciarono spontaneamente alla ribellione, tuttavia egli si ammalò gravemente, probabilmente per il rigore dell’inverno, e tornato in Italia si recò in una sua residenza in Campania dove morì poco dopo il suo arrivo, tanto che Ottaviano, immediatamente accorso a rendergli visita, non fece in tempo a vederlo un ultima volta da vivo. Tutti gli storici antichi sono concordi nell’affermare che la morte di Agrippa fu una grave perdita per Augusto e per tutto lo stato romano e, in effetti, le testimonianze lo disegnano come un uomo estremamente capace, munifico e di irreprensibile onestà. All’imperatore venne improvvisamente a mancare il suo collaboratore più valido ed il suo consigliere più affidabile, era indispensabile trovare un sostituto. Ecco come Cassio Dione descrive la situazione: Dopo la morte di Agrippa, prediletto dal principe per la sua virtù e non perché ci fosse qualche parentela fra loro, Augusto aveva bisogno di un collaboratore per gestire i pubblici affari, un uomo che spiccasse sugli altri sia per il suo rango che per la sua autorità, in modo tale che ogni questione venisse portata a termine nella maniera opportuna senza diventare il bersaglio di odi e di congiure; la scelta del principe, sia pure con riluttanza, ricadde su Tiberio, dal momento che a quel tempo i suoi stessi nipoti erano ancora dei fanciulli. (LIV, 31 – Traduzione di Alessandro Stroppa).

Il primo incarico ricevuto da Tiberio dopo la morte di Agrippa fu quello di portare a termine la sottomissione della Pannonia, la resa dei ribelli avvenuta poco prima non era infatti questione duratura ed appena i Pannoni seppero della morte di Agrippa riaprirono le ostilità. Come aveva già fatto con i Reti, Tiberio svolse un intervento drastico e definitivo, non si limitò ad ottenere vittorie campali sui Pannoni ma li perseguitò nel loro paese fino a catturarli e renderli schiavi. Le campagne di Tiberio in Pannonia e Dalmazia si svolsero negli anni 12, 11 e 10 a.C., alla fine la regione era stata posta sotto il diretto controllo imperiale e vi erano stati istituiti presidi militari romani. Nello stesso periodo Druso, fratello di Tiberio, agiva e riportava vittorie in Germania, sul Reno, combattendo contro i Cherusci ed altre popolazioni locali ed Augusto trascorreva un nuovo periodo nella Gallia Lugdunense ancora impegnato nell’organizzazione politica delle province.
Nel 9 a.C., mentre si trovava ancora in Germania, Druso morì improvvisamente: le fonti non sono concordi sulle cause della sua morte, alcuni parlano di una caduta da cavallo, altri di una malattia contratta dal generale, comunque sembra sicuro che non morì in combattimento e Tiberio, tempestivamente avvisato delle gravi condizioni del fratello, fece in tempo a raggiungerlo prima che spirasse. Tiberio, che amava profondamente Druso, scortò la sua salma fino a Roma e qui pronunciò personalmente l’elogio funebre. Le ceneri di Druso vennero tumulate nel Mausoleo di Augusto e fu attribuito a lui, con estensione ai suoi diretti discendent,i l’appellativo di Germanico. Quella di onorare i comandanti militari con un appellativo che ricordasse i luoghi che erano stati teatro delle loro imprese era una consuetudine antica della Repubblica, si pensi ad esempio a Scipione Africano, Antonio Cretico, Metello Numidico e molti altri. L’uso rimarrà in vigore nell’età imperiale e quello di Druso Germanico fu il primo caso in cui fu applicato sotto il nuovo regime.
La campagna di Germania fu affidata a Tiberio che ricevette i poteri che erano stati di Druso e proseguì la sua opera di sottomissione delle popolazioni locali. Nel 7 a.C. Tiberio fu console insieme a Gneo Calpurnio Pisone, durante quell’anno celebrò un trionfo per le sue campagne in Pannonia ed in Germania e fu protagonista di alcuni importanti eventi pubblici, come l’inaugurazione del portico di Livia e di altri monumenti. L’anno successivo gli fu conferita la tribunicia potestas  per cinque anni ma proprio in quei giorni, improvvisamente, Tiberio abbandonò Roma per ritirarsi in esilio volontario a Rodi. Indagare sulle ragioni di questo evento non è semplice. Innanzitutto non è chiaro se la partenza fosse stata spontaneamente decisa da Tiberio o gli fosse stata ordinata da Augusto. Svetonio, ad esempio, segue la prima ipotesi, Dione la seconda. Per tutti comunque a motivare l’allontanamento di Tiberio dal cuore dell’impero contribuirono due circostanze, la sua inevitabile rivalità con i nipoti di Augusto ed il disgusto di Tiberio per la propria situazione familiare.
Se la stella di Tiberio era particolarmente splendente in quei tempi, ad oscurarla persisteva soltanto un problema: Lucio Cesare e Gaio Cesare, nipoti di Augusto e figli di Agrippa, stavano crescendo e cominciavano a prendere parte alla vita politica romana nella misura in cui ciò era possibile per persone ancora molto giovani. Ottaviano, dicono, non vedeva di buon occhio le adulazioni che popolo e senatori tributavano ai due ragazzi e non voleva che la loro carriera politica fosse eccessivamente facilitata dal fatto di essere nipoti dell’imperatore in carica. Si oppose ad esempio ad un decreto proposto dal Senato che avrebbe consentito a Gaio Cesare di candidarsi al consolato prima di aver raggiunto il limite minimo di età previsto dalla legge. Inoltre Ottaviano deprecava il lusso ed i piaceri che i due si concedevano, così evidentemente in contrasto con i costumi notoriamente morigerati dell’imperatore e dei suoi più stretti collaboratori. A conti fatti, dunque, Tiberio aveva dalla sua il prestigio acquisito con le sue imprese militari, l’approvazione di Ottaviano per la sua condotta e per la disciplina che sapeva mantenere fra le truppe ed il non trascurabile vantaggio di essere figlio di Livia Drusilla, consorte di Ottaviano non certo priva di influenza sul marito, dal canto loro Gaio Cesare e Lucio Cesare, anche se non avevano avuto il tempo di acquisire altri meriti personali, potevano contare su una parentela più stretta con Augusto, sul fatto di risultare più graditi alla popolazione che poco amava il carattere altezzoso e tetragono di Tiberio, e soprattutto sull’essere figli del grande Agrippa, la cui memoria, a cinque, sei anni dalla sua scomparsa, era ancora viva e rispettata da tutti. Ancora giovane Tiberio aveva sposato Agrippina, figlia di Agrippa e nipote del Cecilio Attico famoso per la sua amicizia con Cicerone. Tiberio amò Agrippina ed ebbe da lei il figlio Druso, detto Druso Minore: pare che soffrì amaramente quando, nel 12 a.C., Ottaviano lo costrinse a ripudiarla per sposare sua figlia Giulia, già vedova di e di Agrippa.
L’unione con
Giulia – donna di costumi notoriamente scandalosi – fu particolarmente infelice anche se nei primi tempi i due riuscirono a convivere pacificamente: a segnare la fine della loro unione fu, secondo Svetonio, la morte in tenerissima età dell’unico figlio che avevano avuto.
Caratteristica fondamentale dell’uomo era, almeno secondo gli storici antichi, l’abitudine di celare sempre i propri pensieri e le proprie, vere motivazioni. Sulla dissimulatio tipica di Tiberio avremo modo di tornare, soprattutto quando lo vedremo prendere il potere manifestando timori e perplessità che probabilmente era ben lungi dal provare. Comunque anche in questa occasione rifiutò a lungo di rivelare i veri motivi della sua decisione di partire. Del resto la moglie fedifraga ed esibizionista era pur sempre la figlia di Augusto e ripudiarla pubblicamente o anche – più semplicemente – parlare troppo chiaramente dei suoi vizi sarebbe stato certamente pericoloso, ma viverci insieme non era cosa che Tiberio potesse più sopportare, così trovò altri pretesti: la stanchezza per le molte imprese e per i troppi onori, il bisogno di solitudine e di meditazione, la volontà – infine – di non apparire in contrasto o in rivalità con i nipoti e figli adottivi di Ottaviano, Lucio Cesare e Caio Cesare, nei quali molti vedevano i successori naturali dell’imperatore.
Sulla decisione di Tiberio di darsi volontariamente l’esilio si è molto discusso e molto si è scritto. Se seguiamo Svetonio, storico autorevole e scrittore piacevolissimo ma senz’altro incline al gossip, la vera causa di questa grave crisi esistenziale furono le vicende familiari: il dolore per il forzato abbandono di Agrippina prima e l’indignazione per la condotta di Giulia poi. Ora è vero che, se facciamo un piccolo sforzo di immaginazione, possiamo intuire quanto fosse gravosa questa situazione domestica per un uomo come Tiberio, aristocratico, conservatore e benpensante, d’altro canto si trattava anche di un individuo per nulla tenero che all’epoca dei fatti aveva già avuto modo di misurarsi su campi di battaglia più che impegnativi ed in situazioni politiche e militari alquanto pericolose, un uomo quindi che è difficile immaginare così fragile da fuggire in modo piuttosto ignominioso dalle beghe della propria famiglia rischiando di esporsi, come in effetti almeno in parte accadde, al pubblico ludibrio ed a altri rischi ancora più tangibili.
Dove sarà dunque la verità? In questo caso, come in molti altri, la Storia non ci lascia – io credo – sufficienti elementi di giudizio e noi posteri dovremmo astenerci dal pronunciare “l’ardua sentenza”: giudicare le motivazioni profonde di una crisi personale è affare di non poco momento e comporta grandi rischi di errore anche quando si parla di contemporanei, figuriamoci quando il soggetto ha lasciato da una ventina di secoli questo nostro mondo e tutte le sue sofferenze … limitiamoci quindi a prendere atto del dato storico: mentre era all’apice del prestigio Tiberio abbandonò la partita per ritirarsi nell’isola di Rodi. Gli autori che seguono l’ipotesi della scelta volontaria sostengono che non fu facile, per lui, ottenere il consenso della madre e del patrigno: questi prima supplicarono, poi discussero, infine minacciarono ma Tiberio fu irremovibile ed addirittura iniziò uno sciopero della fame pur di poter partire indisturbato. Ottenne infine il consenso e si imbarcò da Ostia, sembra che parti senza dire una parola, lasciando la moglie ed il figlio senza neanche un saluto. Giunto a Rodi si stabilì in una casa modesta, per viverci da privato cittadino, nonostante godesse ancora – almeno sulla carta – della potestà tribunizia. Intanto Giulia a Roma continuava imperterrita a folleggiare con i suoi numerosi amanti, ma ciò che provocò la sua rovina, in realtà, fu l’atteggiamento provocatorio ed offensivo che la donna aveva assunto nei confronti del padre. I suoi amori ed i suoi scandali erano noti a tutti ed alcuni autori arrivano a raccontare che la donna solesse organizzare convegni orgiastici notturni all’aria aperta, nel Foro, proprio al cospetto di quei rostri dai quali il padre aveva promulgato la legge contro l’adulterio. Perché poi tanta esibizione ? Anche questo è difficile da stabilire, forse per mania di protagonismo, forse per un gusto aristocratico della dissacrazione, o forse per vendicarsi del padre con il quale - come alcuni insinuano – Giulia avrebbe intrattenuto per alcuni anni una relazione incestuosa.
Non crediamo che Giulia adottasse questi costumi soltanto dopo la partenza del marito per Rodi, del resto anche gli anni precedenti del loro matrimonio Tiberio li aveva trascorsi in giro per il mondo a combattere contro Pannoni e Germani, forse ha ragione Dione che sostiene che quanto accadde nel 3 e nel 2 a.C. fu semplicemente che Augusto venne a conoscenza del comportamento della figlia e decise di occuparsene a modo suo. Lo scandalo fu grande e l’imperatore non usò clemenza nel punirne i responsabili: Giulia fu esiliata a Pandateria (Ventotene) dove, accompagnata dalla madre Scribonia che la seguì spontaneamente, visse per molti anni in una sorta di clausura, sorvegliata a vista dagli incaricati di Ottaviano. I suoi molti amanti vennero perseguitati, esiliati a loro volta o messi a morte, fra questi ultimi alcuni uomini illustri e famosi come Iullo Antonio, figlio di Marco Antonio e di Fulvia. L’episodio indusse Ottaviano anche ad inasprire le pene previste per il reato di adulterio ed a sollecitare lo svolgimento una serie di processi in corso per questi motivi. Il suo scopo era evidentemente non solo quello di moralizzare i costumi dei Romani ma anche (o forse soprattutto) quello di dimostrare la distanza che esisteva fra la casa dell’imperatore e lo scandaloso comportamento della figlia degenere. Fra i molti che fecero le spese di questa situazione fu il poeta Ovidio che pagò con l’esilio la colpa di aver scritto opere troppo licenziose e forse anche quella di essere stato troppo a contatto con l’ambiente di Giulia ed essere venuto a conoscenza di troppi particolari piccanti su quanto avveniva nella casa di Augusto.
Caduta in disgrazia la moglie, Tiberio decise che era ora di rientrare a Roma e chiese il permesso all’imperatore, ma non lo ottenne finché la morte di Lucio Cesare e di Gaio Cesare non lo rese di nuovo l’unico possibile collaboratore e successore di Ottaviano.
Gli ultimi anni di Tiberio a Rodi furono particolarmente sofferti in quanto – stando a Svetonio – girava voce che fosse sospettato di ordine qualcosa a danno dei suoi giovani rivali. Sembra che la sua vita in quegli anni divenisse ancor più austera e solitaria, si trasferì all’interno dell’isola per evitare le visite dei Romani che transitando nelle acque di Rodi si fermavano a rendergli omaggio e trascorse giorni amari avvelenati dal sospetto e dal timore che si volesse eliminarlo. Questo atteggiamento vagamente paranoico appare tipico del personaggio che, anni più tardi, mentre era imperatore, si isolò sull’isola di Capri per timore di congiure contro di lui.
Si arrivò in questa situazione all’anno 2 d.C. quando scoppiarono disordini in Armenia a causa delle discordie fra i regnanti ed i nobili locali. Augusto sapeva di dover intervenire prima che gli eventi precipitassero ma si riteneva ormai troppo anziano per guidare personalmente l’esercito e fra i suoi più stretti collaboratori non individuava un comandante all’altezza del compito del quale potesse fidarsi. Non senza esitazioni decise infine di affidare a Gaio Cesare il comando dell’impresa in Oriente, pur ritenendolo ancora troppo giovane ed inesperto. Durante il viaggio di andata Gaio fu intercettato da Tiberio che si recò al suo cospetto per rendergli onore: un atto di umiltà con il quale Tiberio intendeva chiarire definitivamente che non si considerava rivale di Gaio e di suo fratello Lucio e che questi non avrebbero avuto nulla da temere da parte sua qualora gli fosse stato concesso di tornare a Roma. Sembra che Gaio non gradì l’omaggio, lo trattò freddamente e dopo un brevissimo incontro congedò un Tiberio sempre più angosciato e spaventato.
La missione in Armenia non andò bene: si svolsero una serie di trattative, di scontri ed altre vicende che qui non è il caso di raccontare. Ciò che conta ai fini del nostro argomento è che Gaio Cesare in uno di questi scontri fu gravemente ferito e morì mentre tentava dolorosamente di rientrare in patria. Più o meno contemporaneamente Lucio Cesare che stava viaggiando per le province occidentali impegnato in una sorta di tirocinio militare si ammalò a sua volta e spirò  a Marsiglia il 20 agosto del 2 d.C. Come al solito la morte del giovane apparve sospetta ed i pubblici sospetti ricaddero su Livia Drusilla, ma anche questa volta nessuno osò accusare pubblicamente la moglie dell’imperatore ed agli storici moderni mancano  elementi certi per confermare o meno questo presunto veneficio. Tiberio venne subito richiamato a Roma, dopo sette anni di esilio, tuttavia per altri tre anni continuò a vivere privatamente e si tenne lontano da ogni attività politica o militare. Nel 4 d.C. divenne figlio adottivo di Augusto, insieme ad Agrippa Postumo ma nessuno dei due ottenne con questo nuovi privilegi o incarichi.  A Tiberio venne inoltre ordinato di adottare a sua volta Germanico, figlio di Druso. Seguirono degli anni difficili: Roma fu colpita da un grave terremoto, fatto piuttosto insolito nella storia della città, e da un’inondazione del Tevere, molte zone dell’impero patirono per la carestia e l’imperatore fu costretto a far votare dal Senato alcuni inasprimenti fiscali che certamente non contribuirono a facilitare la situazione, inoltre le popolazioni delle province e delle regioni limitrofe ai confini dell’impero continuavano a suscitare preoccupazioni. Nel 6 d.C. Tiberio tornò alle armi e fu impegnato in una serie di campagne in Germania, nell’Illirico ed in Pannonia, ma Augusto - che evidentemente non riusciva a fidarsi pienamente di lui - gli affiancò a più riprese il nipote Germanico conferendo a questi parte delle funzioni di comando e facendo in modo che fra i due sussistesse sempre una certa rivalità. Nessun incarico militare o politico venne invece conferito ad Agrippa Postumo il cui comportamento, se pur non scandaloso come quello di Giulia, era certamente riprovevole agli occhi dell’imperatore. Fannullone ed irriverente il giovane Agrippa, raccontano, passava il tempo a pescare, facendosi per questo chiamare Nettuno, era spesso preda di attacchi di collera furiosa ed irrazionale e commetteva spesso l’errore di parlar male di Augusto e di Livia Drusilla. Sembra che Ottaviano fece qualche tentativo amichevole di ridurre il nipote alla ragione ma, non riuscendovi, risolse infine di farlo allontanare da Roma (7 d.C.) mandandolo in esilio a Sorrento e successivamente a Planasia, una piccola isola nei pressi della Corsica. Dopo la deportazione di Agrippa Postumo, Tiberio ricevette di nuovo la potestà tribunizia per cinque anni con il compito di pacificare definitivamente l’Illirico e la Germania.
Tiberio svolse l’ennesima missione in Dalmazia riportando nuove considerevoli vittorie, in parallelo con Germanico che ripuliva i territori più meridionali dell’Illirico da nuovi focolai di rivolta. Tutte queste operazioni ovviamente impegnavano molto l’esercito romano e rendevano necessari continui arruolamenti. I governatori delle province più pacifiche si privavano di parte delle proprie risorse militari per renderle disponibili ai due generali: così fece anche Quinto Publilio Varo, governatore della Germania o, più precisamente, di quella parte della Germania che nel 9 d.C. si trovava sotto il dominio di Roma.
Costui, imparentato con Augusto per aver sposato una nipote di Ottavia e di , era stato console nel 13 a.C., governatore della Siria dal 6 a.C. al 4 a.C., e dal 7 d.C. era comandante delle forze stanziate in Germania. Doveva dunque essere un generale ed un politico di una certa esperienza, tuttavia commise alcuni errori che agli occhi dei posteri sembrano dettati da una grande ingenuità. Innanzitutto tentò di introdurre nella sua provincia il diritto romano non considerando che in questo modo si andava inimicando l’aristocrazia locale che, in forza di una legislazione meno evoluta, aveva sempre esercitato sulla popolazione grande controllo ed autorità. In secondo luogo dimostrò di avere la mano pesante nel campo fiscale ed anche questo aspetto non fu certamente gradito ai Germani. Nonostante tutto Varo riuscì a tenere la situazione sotto controllo per un paio d’anni anche grazie al timore che i contingenti militari a sua disposizione incutevano sulla popolazione, ma quando tali contingenti vennero diminuiti, come si è detto, per favorire quanti combattevano più ad oriente, la nobiltà germanica comprese che era arrivata la sua grande occasione. Fingendosi disponibili e rispettosi nei confronti del governatore romano i notabili locali, coordinati da un certo Arminio che per aver militato nell’esercito romano era particolarmente esperto della mentalità del nemico, lo convinsero che poteva muoversi liberamente per la provincia senza la pesante scorta militare che sarebbe stato naturale adottare in un paese nemico e riuscirono lentamente a far si parte dei suoi uomini si disperdesse a poco a poco nel territorio, quindi attrassero con un pretesto Varo nella Selva di Teutoburgo e qui lo attaccarono facendo strage dei legionari che lo accompagnavano. Nei giorni successivi i Germani proseguirono nella strage catturando ed uccidendo quanti erano riusciti a fuggire all’agguato e gli altri cittadini romani che si trovavano nel loro Paese. Quanto a Varo si uccise presso il campo di battaglia prima di essere catturato. Fu la più grave sconfitta subita dai Romani durante il principato di Augusto. Quando l’imperatore apprese la tragica notizia, dicono, fu colto da un momento di disperazione: oltre alla tragica perdita subita egli vedeva gravemente in pericolo le sue province settentrionali e temeva che i Germani, organizzandosi, avrebbero avuto modo di arrivare ad attaccare l’Italia ed addirittura a colpire Roma. Inoltre per i motivi che abbiamo visto le forze militari disponibili erano piuttosto esigue ed Ottaviano dovette ricorrere ad arruolamento forzoso richiamando soldati già in congedo ed imponendo la leva a liberti e cittadini estratti a sorte. Le truppe così raccolte furono affidate a Tiberio che raggiunse rapidamente il Reno e, senza attraversarlo, si dispose a fronteggiare il nemico accampato sulla riva opposta. A Roma furono allontanati, per timore di sommosse, tutti i Galli ed i Germani che per qualsiasi ragione si trovavano in città e venne proclamato uno stato d’emergenza che durò finché Augusto non ebbe notizia sicura che i Germani erano arroccati nelle loro posizioni e non stavano progettando spedizioni contro l’Italia. La repressione della rivolta dei Germani non fu cosa facile: Tiberio condusse lunghe operazioni negli anni successivi in quelle regioni ed Arminio, che ancora ai tempi del nazismo era considerato un eroe nazionale tedesco, fu sconfitto definitivamente da Germanico solo nel 16 d.C.
Tiberio ebbe comunque grandi onori per i suoi successi militari di quegli anni, prima di tutto perché molti osservarono, come racconta Svetonio, che la rivolta germanica sarebbe stata incontenibile se fosse stata appoggiata dalle popolazioni dell’Illirico (andava quindi a Tiberio il merito di aver debellato per tempo queste ultime) in secondo luogo perché anche se non riuscì a sconfiggere immediatamente Arminio e le sue truppe riuscì a contenerle nei loro territori limitandone al massimo la potenzialità offensiva. Il Senato infatti decretò un trionfo per Tiberio ma egli chiese di rimandarne la celebrazione per rispettare il lutto che la città stava ancora osservando per la sconfitta di Varo.
Negli ultimi anni della sua vita l’anziano imperatore Augusto continuò ad occuparsi degli affari dello Stato ma ridusse gradualmente la propria vita sociale ed i propri interventi nelle manifestazioni ufficiali. I suoi veri rapporti con Tiberio che, come abbiamo già ripetuto, era rimasto il suo unico possibile successore non sono molto chiari. Alcuni autori raccontano che Tiberio, in partenza per l’Illirico fu richiamato urgentemente in Italia perché Augusto in fin di vita voleva avere un colloquio privato con lui. Nessuno sa cosa si dissero ma Svetonio racconta che qualcuno avrebbe sentito Augusto esclamare, mentre Tiberio si allontanava alla fine dell’incontro, “Miserum populum, qui sub tam lentis maxillis erit” (povero popolo, destinato a rimanere sotto mandibole così lente – Tib. XXI). Ancora Svetonio afferma che Augusto non approvasse l’eccessiva durezza del carattere di Tiberio e che non lo avesse personalmente in simpatia, d’altro canto lo stesso autore riporta brani di lettere in cui Augusto lodava il figlio adottivo per le sue imprese militari, per le sue capacità di comandante e per la sua avvedutezza. Fatto sta che quando fu aperto il testamento di Augusto si seppe che l’imperatore aveva lasciato gran parte delle proprie sostanze a Tiberio e a Livia e questo gesto ratificava definitivamente la volontà del defunto in merito alla scelta del proprio successore.

Quando i senatori chiesero a Tiberio di accettare il principato egli aveva cinquantasei anni, non era un uomo felice, aveva conseguito vittorie e trionfi ma aveva anche subito l’esilio ed altre umiliazioni. La sua vita privata era stata devastata dagli eventi politici, in particolare dalla politica matrimoniale di Ottaviano; non si sa se avesse amici, sicuramente riscuoteva l’adulazione del popolo ma forse non ne aveva conquistato la sincera ammirazione, insomma un uomo amareggiato che aveva alle spalle una vita non facile e che riceveva ora in eredità gli onori e gli oneri legati al governo di uno dei più grandi imperi dell’antichità, un impero che ufficialmente era ancora una repubblica, non governato da un monarca ma protetto dal genio benigno dell’uomo che l’aveva creato.