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INNI OMERICI


Sembra che in Grecia, almeno fino al quarto secolo, operasse una gilda di rapsodi che, secondo un costume dell'epoca attestato in molti altri casi, faceva risalire ad Omero le origini comuni di tutti i suoi membri. Cultori e conservatori della tradizione omerica, gli "Omerici" disdegnavano i rapsodi professionisti il cui avvento segnò forse la fine della loro istituzione. Nell'incertezza che avvolge la realtà storica di un poeta di nome Omero, alcuni studiosi hanno ipotizzato che proprio dalla parola "Omerici" - la cui etimologia è collegabile al concetto di riunione, di pubblica occasione - sia derivato il nome "Omero". Nell'ambito della gilda, che probabilmente comprendeva vari gruppi familiari, è probabile, se si segue questa ipotesi, che numerosi componenti abbiano ricevuto o scelto il nome di Omero in onore del leggendario capostipite. In altri termini le scuole dei rapsodi che seguivano tale corrente di poesia epica erano dette degli "Omerici" ed alcuni dei loro membri assumevano il nome di Omero per evidenziare la propria scelta artistica e letteraria. Gli inni omerici sono attribuiti alla gilda degli omerici di Chio in base a varie affermazioni di autori antichi (Tucidide, Semonide, Teocrito): in ogni caso quella di Chio dovette essere la più importante delle scuole di rapsodi.

Nella tradizione Omero era nato a Smirne (Strabone, Aristotele, Proclo) o comunque era di stirpe smirnea (Eforo, Damaste di Sigeo) si ritiene che questa notizia derivasse dall'esistenza di una scuola omerica a Smirne in tempi molto antichi. Nonostante la scarsità di dati sulle gilde omeriche minori, la diffusione della poesia epica nella Grecia arcaica attesterebbe l'esistenza di numerose scuole di questo genere nelle diverse città.
Nel complesso si può affermare che gli Inni sono scritti in linguaggio tradizionale, che probabilmente furono composti oralmente e scritti in epoche successive più o meno distanti dalla loro originale composizione.
Quest'ultima considerazione rende molto problematica la datazione degli inni stessi in quanto le varie caratteristiche del linguaggio possono risentire degli usi dell'epoca della redazione scritta, oltre che di quella della composizione orale. Quanto alla compilazione della raccolta si ritiene che sia stata effettuata in età tarda, fra il quarto ed il secondo secolo a.C. a fini professionali: il fatto che alcuni inni siano costituiti da soli esordi e congedi dimostrerebbe che la silloge doveva avere uso di prontuario, una sorta di "manuale del rapsodo", come è stata definita, che il cantore utilizzava per trarne interi brani da recitare esattamente o ai quali apportare di volta in volta sue personali varianti.
Solo fra il secondo ed il primo secolo a.C. la silloge, probabilmente per l'interesse mitografico degli Inni, uscì dalla ristretta cerchia delle scuole rapsodiche per riscuotere qualche rinomanza negli ambienti eruditi greci e latini.


INNO I
A DIONISO

L'inno inizia con l'enumerazione dei vari luoghi che venivano talvolta ritenuti patria di Dioniso: il monte Dracano (citato anche da Teocrito e da Nonno, ma di incerta identificazione), l'isola Icaria, Nasso, il fiume Alfeo o Tebe (nella tradizione più diffusa Semele, madre di Dioniso era tebana). Tuttavia l'autore dell'inno sostiene che Dioniso venne al mondo in un luogo lontano dagli sguardi degli uomini, il monte Nisa, "ben oltre la Fenicia, presso le correnti di Egitto".
Dopo una lacuna prosegue con le parole finali di un discorso con cui Zeus promette a Dioniso che gli uomini gli tributeranno onori, feste e sacrifici.
Segue il congedo in cui il rapsodo invoca il favore di Dioniso, dio sempre ricordato dagli aedi all'inizio ed alla fine di ogni loro esibizione.



INNO II
A DEMETRA

I Greci interpretavano il nome Demetra come "Terra Madre". Nel mito arcaico Demetra si trasforma in giumenta per sfuggire a Poseidone ma questi assume a sua volta le forme di un cavallo e la raggiunge.
Mentre in età arcaica è confusamente identificabile con Gea (la Terra), nell'epoca classica diviene chiaramente la dea che dona agli uomini i cereali e che ha insegnato loro l'agricoltura. Si unisce con l'eroe Iasione o Iasios sui campi appena arati dando vita a Pluto che rappresenta l'abbondanza dei raccolti. La figlia Persefone, il cui nome è certamente preellenico, regna sul mondo dei morti. In Omero Persefone non è mai definita figlia di Demetra. Nell'inno omerico Persefone viene rapita da Aidoneo, signore degli Inferi. Per placare Demetra che vietava alle messi di crescere, Zeus decreta che Persefone passi un terzo dell'anno negli inferi e gli altri due sulla terra. Quindi Persefone ritorna sulla Terra le piante tornano a fiorire, questa allegoria ce la indica come dea della vegetazione. Demetra e Persefone erano venerate nei riti misterici di Eleusi dei quali ovviamente non si sa molto proprio a causa del segreto che vincolava gli iniziati. Dopo una notte di canti che ricordavano il mito del rapimento di Persefone il sacerdote (ierofante) invocava la Core , appellativo della dea che significa "la fanciulla" e quindi mostrava ai fedeli una spiga, simbolo del concepimento e della nascita del bambino Brimos (temibile, forte), ovvero Pluto. Se i Misteri derivano quasi certamente da un antico rituale agrario celebrato per propiziare l'abbondanza del raccolto, il progressivo inserirsi del concetto di Persefone come regina degli Inferi ne fa anche (forse soprattutto) una liturgia connessa alla vita ultraterrena i cui obiettivi non si realizzeranno in questo ma nell'altro mondo. L'inno a Demetra viene generalmente datato negli ultimi decenni del settimo secolo.

L'inno


Persefone fu rapita da Aidoneo (Ade) mentre giocava con le figlie di Oceano un giorno di primavera in un prato fiorito. Il dio degli Inferi apparve improvvisamente da una voragine e rapì la fanciulla che si era allontanata della compagne per raccogliere fiori.
Sconvolta dal dolore, la madre Demetra vagò per nove giorni sulla terra in cerca della scomparsa Persefone. Si unì alla ricerca la dea Ecate, infine Demetra interrogò Elio e da questi apprese che Ade aveva rapito Persefone con il consenso di Zeus per farne la sua sposa. Offesa ed adirata contro Zeus, Demetra abbandonò l'Olimpo e si dette a vagabondare, con aspetto umano, fra le città della terra, fino a che non giunse nella casa di Celeo, signore di Eleusi.
Alle figlie di Celeo Demetra, che appariva come una vecchia, raccontò di chiamarsi Demo e di provenire da Creta, rapita dai pirati era riuscita a fuggire ed aveva vagabondato fino a Eleusi. Per intercessione delle fanciulle Demetra venne accolta nella casa e Metanira, moglie di Celeo le affidò il compito di allevare il suo figlio più piccolo. Ospite di Metanira, Demetra rifiutò il vino e chiese di bere il ciceone, bevanda composta di acqua, farina d'orzo e menta, che diverrà bevanda rituale della liturgia di Eleusi. Metanira propose alla visitatrice di rimanere presso di lei e di occuparsi del figlio Demofonte, incarico che Demetra accettò di buon grado. Nell'allevare Demofonte, Demetra iniziò una pratica che avrebbe reso il ragazzo immortale: di notte, di nascosto dai genitori, lo poneva nel fuoco. Dopo qualche tempo però Metanira la scoprì e, temendo per la vita del figlio, interruppe il rituale. Davanti al terrore di Metanira Demetra, adirata si rivelò: ora Demofonte non potrà aspirare all'immortalità, tuttavia gli sarà concesso il privilegio imperituro di una festa annuale ad Eleusi. Ordinando la costruzione di un tempio in suo onore Demetra assunse il suo aspetto abituale, al cospetto della sconvolta Metanira e uscì dalla casa. L'indomani Celeo ordinò la costruzione del nuovo tempio e quando questo fu pronto Demetra vi si stabilì, ma nel cuore della dea non si era sopito il rimpianto per la figlia perduta. Quell'anno la dea impedì che i semi germogliassero, il raccolto mancò e gli uomini soffrirono la fame.
Zeus, preoccupato dalla carestia mandò Iride a chiamare Demetra ma la dea rifiutò di presentarsi finchè non avesse rivisto Persefone. Ad uno ad uno tutti gli dei tentarono, senza successo, di indurla a rinunciare a questa posizione. Infine Zeus inviò Ermes nell'Erebo per convincere Ade a lasciar tornare la giovane alla luce del sole. Ermes spiegò ad Ade la terribile rappresaglia di Demetra e lo persuase a lasciarla andare. Ade accettò ma prima che la sposa prendesse commiato le fece mangiare alcuni semi di melograno. L'aver preso cibo nel regno dei morti era ritenuto un legame indissolubile, inoltre il melograno, così ricco di semi, era considerato un simbolo di fertilità sacro ad Afrodite , è quindi una sorta di filtro amoroso quello che Ade porge a Persefone per essere certo che tornerà da lui. Demetra, dopo aver abbracciato la figlia, sospettò l'inganno e chiese alla giovane se nell'Erebo avesse toccato cibo. Quando Persefone ammise di aver mangiato il melograno fu chiaro ad entrambe che la fanciulla dovrà trascorrere almeno una stagione ogni anno presso Ade. Durante quella stagione la terra rimarrà sterile e nessun seme germoglierà. Zeus confermò la sentenza ed inviò Rea a chiamare Demetra perché tornasse nell'Olimpo ponendo fine alla discordia. Prima di lasciare la Terra Demetra insegnò a Celeo e ad altri monarchi la norma rituale dei misteri a cui solo gli iniziati avrebbero potuto accedere.



INNO III
AD APOLLO

La figura di Apollo, per la quantità delle sue attribuzioni e la ricchezza delle sue funzioni risulta fra le più complesse, se non la più complessa dell'Olimpo greco. Ispiratore della musica e della poesia, guaritore, garante della legge e delle pace, dio del vaticinio, purificatore e a volte protettore dell'agricoltura e della pastorizia, presenta anche aspetti oscuri, da divinità infera, dispensatrice di pestilenze e di morti improvvise. E' infatti tipico della mentalità greca che ogni potente attributo divino ammetta nello stesso dio il suo contrario, quindi se Apollo è per antonomasia "colui che tiene lontano il male", può essere anche colui che con le sue terribili frecce toglie improvvisamente la vita o che si vendica delle offese ricevute scatenando epidemie, come avviene, ad esempio, nel primo canto dell'Iliade. La sua capacità di allontanare i mali sembra derivare dalla sua funzione di purificatore (Febo=Puro) in quanto la malattia e le epidemie erano sempre associate al concetto di "impurità". Da qui a fare di Apollo anche un dio della medicina il passo è ovviamente breve. Anche il vaticinio è spesso legato a queste funzioni in quanto gli oracoli possono costituire delle "ricette" per allontanare o guarire le impurità. Inoltre in antico l'attività del medico che individua la natura delle malattie e ne prevede il decorso era considerata di carattere divinatorio.
Controverse le origini del mito di Apollo, prevale oggi la teoria che sia divinità di origine orientale. Alcuni studiosi ne trovano conferma nel fatto che nell'Iliade Apollo è alleato dei Troiani. Anche nel terzo inno omerico si troverebbe un elemento estraneo alla mentalità religiosa greca, costituito dal timore e dallo stupore degli altri dei all'entrata di Apollo. Un'ipotesi di qualche spessore è che Apollo sia di origine Licia e sia entrato nell'Olimpo greco per il tramite dei cretesi verso il XV secolo a.C.
L'isola di Delo fu abitata già nel terzo millennio a.C. da una popolazione di origine anatolica. Nel secondo millennio vi si insediarono i Greci. L'attività cultuale sull'isola è attestata da documenti archeologici risalenti all'inizio del secondo millennio. Dopo un periodo di decadenza, alla fine dell'età micenea, i templi di Delo rifiorirono per divenire nel settimo secolo il centro religioso della Grecia insulare e della Ionia. Con Pisistrato, Delo entrò nell'influenza ateniese, influenza che si accentuò con le guerre persiane. In età preellenica a Delo non si venerava Apollo ma una divinità femminile con attributi simili a quelli di Artemide. Si ritiene che il culto di Apollo si consolidò fra il XIII e il XII secolo a.C. nell'isola di Delo prima che nel resto della Grecia. Il santuario di Delo ed il suo oracolo conobbero la loro massima fama nel VII secolo per poi decadere nel VI e nel V, eclissati a favore dell'oracolo di Delfi. Dalla prima metà del secondo millennio in poi furono venerate a Delo anche le due tombe delle "fanciulle iperboree", collegate al mitico popolo Iperboreo descritto da più fonti come residente presso il Danubio. Non è certo se questa circostanza debba considerarsi come indizio di una provenienza del culto di Apollo dall'Europa centrale o se si tratti di un mito più antico dell'affermazione del culto apollineo.

Anche nel caso di Delfi il culto di Apollo ne sostituì uno precedente di età micenea. Apollo ereditò il santuario da una divinità femminile ctonia (forse Gea) e dal suo paredro Poseidone. (Il paredro era una divinità maschile che in questi casi svolgeva un ruolo minore come compagno della dea). Nell'inno omerico questa sostituzione cultuale è forse adombrata da Apollo che conquista a Delfi il luogo ove sorgerà il suo tempio sconfiggendo un terribile "drago femmina". La fama di Apollo Pitico presso i rapsodi dimostra che il culto di Apollo a Delfi si attestò non più tardi del nono secolo. Dall'ottavo secolo il santuario delfico raggiunse la massima importanza. Lottarono a lungo per il controllo di Delfi la città di Crisa in Focide da una parte e la "Lega Anfictionica" composta da città beote e focesi dall'altra. Nel sesto secolo la rivalità portò alla "guerra sacra" che che si concluse con la distruzione di Crisa. La comunità di Delfi che probabilmente era indipendente prima della guerra sacra, passò così sotto il parziale controllo della Lega Anfictionica che pur lasciando autonomia politico amministrativa alla piccola polis, governava direttamente l'ingente patrimonio del santuario. L'oracolo di Apollo, pronunciato tramite la sacerdotessa detta Pizia, dichiarava di annunciare la volontà di Zeus e non di predire il futuro. Controversa è l'interpretazione dell'eccitazione che, secondo le fonti, coglieva la Pizia quando proferiva i responsi. Per alcuni si trattava di un delirio di tipo dionisiaco, per altri di un'estasi derivante dall'ispirazione. Nei rapsodi i responsi oracolari risultati errati sono considerati un castigo verso postulanti empi, colpevoli di inosservanze rituali o di non aver versato le offerte. Più tardi prevale la tesi che gli errori erano da attribuirsi a difetti di interpretazione da parte degli uomini. Un noto esempio di questa tesi è nelle vicende di Creso narrate da Erodoto. L'intensa frequentazione del santuario da parte di visitatori provenienti da tutta la Grecia procurava vaste informazioni al clero delfico, informazioni che venivano utilizzate per formulare i responsi risultati attendibili. Del resto l'oracolo veniva consultato frequentemente sui temi politici di più calda attualità. Importanti furono, fra l'altro, i responsi delfici nei momenti decisionali che portarono alla fondazione di molte colonie in Sicilia ed in Italia. I rapporti fra i Focesi e le colonie occidentali attestati già in età micenea, spiegherebbero la possibilità dell'oracolo di fornire informazioni sui territori italici agli aspiranti colonizzatori.

E' opinione diffusa ed accettata dalla critica moderna che il terzo inno sia la risultante di due inni uniti insieme, il primo dedicato ad Apollo Delio ed il secondo ad Apollo Delfico, composti da due diversi rapsodi oppure, e più probabilmente si tratti dell'opera di un rapsodo che abbia esteso ed integrato un inno preesistente. Queste opinioni si basano soprattutto sul fatto che dal verso 165 inizia un congedo del cantore dopo il quale l'inno prosegue per altri 360 versi. Inoltre differenze linguistiche e stilistiche, sia pur non fondamentali, corroborano l'ipotesi di due diversi autori. Il primo inno è datato fra l'ottavo ed il settimo secolo, mentre il secondo risale al sesto.

L'inno ad Apollo


L'ingresso di Apollo nella sede degli dei sull'Olimpo incute timore negli immortali. Soltanto Leto lo accoglie con tranquillità, prende e ripone il suo arco e la sua faretra e lo conduce a sedere accanto al padre. Apollo viene accolto dal padre che gli offre il nettare e Leto si compiace di averlo generato. Nell'inno il dio è invocato a questo punto con il nome di Febo (puro, purificatore). Si racconta la sua nascita: Leto aveva a lungo vagato cercando una terra che la accogliesse durante il parto ma era stata ovunque respinta per timore della potenza del nuovo dio (in altri autori - come Callimaco - la causa del timore è la gelosia di Era). Infine giunse all'arida Delo alla quale promise le ricchezze indotte dal tempio che sarebbe sorto in onore di suo figlio.
Anche Delo esita perché ha sentito dire che nascerà un dio indomabile e violento che non gradendo la natura rocciosa dell'isola potrebbe farla inabissare per recarsi altrove. Tuttavia il giuramento di Leto che promette a Delo culto imperituro vale a farla accogliere benevolmente.
Le doglie di Leto si prolungano per nove giorni e nove notti. Per volere della gelosa Era, infatti, la dea Ilitia "che procura il travaglio del parto" era stata tenuta all'oscuro dell'imminente nascita di Apollo. Le dee che assistono Leto mandano infine Iride ad avvertire Ilitia senza farsi notare da Era ed all'arrivo della divinità che provoca il parto, le doglie di Leto si risolvono rapidamente con la nascita di Apollo. Nutrito con il nettare e l'ambrosia Apollo cresce con prodigiosa rapidità e ben presto è in grado di scegliere e dichiarare i suoi attributi: la cetra, l'arco e la parola oracolare ("io rivelerò agli uomini l'immortale volere di Zeus"). così Delo fu la culla di Apollo e fu ricompensata con il sorgere del grande santuario nel quale il dio stabilì la prima sede del suo oracolo. Presso il tempio si celebrano feste ed agoni, vi vivono le fanciulle ancelle del dio che sanno cantare inni antichissimi in lingue diverse. A questo punto l'aedo, nel congedo della prima parte del canto, contrariamente alla tradizione rapsodica, allude a se stesso e si presenta come "un uomo cieco, che vive nella rocciosa Chio".
Con una nuova invocazione Apollo viene definito signore di Delo, si tratta evidentemente delle sutura fra le due parti dell'inno. Dalla terra ascende all'Olimpo e qui si svolgono cori nei quali cantano le Muse, le Ore, le Grazie, Ebe, Armonia ed Afrodite. Con queste dee canta e danza anche Artemide, sorella di Apollo. Danzano Ares ed Ermes. L'aedo passa a cantare gli amori e le avventure di Apollo alla ricerca del luogo dove fondare un nuovo santuario. Nella descrizione del vagabondare del dio vengono citate numerose località connesse al suo mito ed al suo culto. Infine Apollo giunge nel territorio di Crisa e qui getta le fondamenta del tempio. Alla fonte prossima al tempio Apollo uccide la mostruosa Dracena o dragonessa, rettile immane. La Dracena era stata la nutrice di Tifone che in questo inno nasce per partenogenesi da Era, desiderosa di vendicarsi perché Zeus ha generato da solo Atena.
L'episodio della gelosia di Era e della nascita di Tifone sono raccontati in un brano digressivo che i critici considerano un'interpolazione.
Apollo dunque, con il suo infallibile arco, uccide la Dracena per liberare la zona del suo tempio dalla mostruosa creatura che avrebbe sterminato i fedeli. Fondato il tempio Apollo si chiede quali uomini saranno sacerdoti ed in quel momento scorge una nave proveniente da Creta.
Apollo, assunto l'aspetto di un enorme delfino, raggiunge la nave e salta a bordo, mentre i marinai esterrefatti contemplano l'animale e la nave, non più obbedendo al timone, prende a navigare verso l'isola. Giunto a terra il dio assume il suo aspetto divino ed invita i Cretesi a sbarcare. Spiega ai marinai che sono stati scelti per essere custodi del suo tempio ed ordina di costruire sulla spiaggia un'ara che sarà detta delfica in memoria del delfino di cui aveva assunto l'aspetto. Ai suoi nuovi sacerdoti Apollo profetizza la futura ricchezza del tempio che sarà visitato da tutte le genti e riceverà grandi doni, tuttavia li avverte che più tardi saranno sottomessi da altri uomini ai quali saranno soggetti per sempre. In questi versi si allude evidentemente al dominio dell'Anfictionia su Delfi.


INNO IV
A ERMES


La complessa figura di Ermes è connessa fin dalle testimonianze più antiche con la pastorizia e - in genere - con l'allevamento di animali domestici. così nella letteratura (per es. nell'Odissea, Eumeo sacrifica a Ermes), così nella plastica dove il dio è spesso rappresentato con un ariete sulle spalle. Anche in questo inno omerico Ermes contende ad Apollo un armento, glielo ruba ed infine lo ottiene in cambio della lira. Dio propizio per la riproduzione del bestiame è dunque un dio della fecondità come dimostrerebbe l'attributo fallico dell'erma, scultura di pietra a lui dedicata.
Poiché i pastori sono nomadi Ermes viene considerato anche protettore di chi viaggia e delle strade. Questa caratteristica a sua volta finisce con l'attribuirgli il compito di guidare l'uomo anche nel suo ultimo viaggio, quello verso gli Inferi. Questa funzione è da considerarsi benefica in quanto le anime senza guida non saprebbero raggiungere la loro sede definitiva e sarebbero condannate a rimanere sospese fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Ermes inoltre accompagna sempre coloro che per vari motivi, ritornano dal mondo dei morti in quello dei vivi, come Persefone, Eracle dopo la cattura di Cerbero, l'ombra di Dario nei Persiani di Eschilo.
Per molti aspetti Ermes è servitore degli altri dei, talvolta deriso e denigrato proprio per questa caratteristica. Egli è il dio messaggero spesso inviato da Zeus per rendere noto il suo volere o per compiere altre missioni, presso gli uomini e presso gli dei inferi. Tuttavia questi servizi sembrano derivare da una particolare attitudine di Ermes: quella di volentieri interagire con l'umanità. Divinità fondamentalmente benigna, Ermes protegge, come si è detto, i pastori e gli armenti ed in generale tutte le attività umane. Questa disposizione positiva lo porta ad essere anche nume tutelare delle fortune umane, "dispensatore di beni", e difensore contro i pericoli. Astuto ed eclettico egli è l'inventore della lira e della siringa, poi rispettivamente cedute ad Apollo e Pan.
La sua immagine di messaggero, talvolta coppiere, in genere servitore degli dei, ne fece il dio preferito nel culto delle componenti più umili della popolazione. Nondimeno egli è anche associato a potenti dinastie di regnanti, fra cui quella mitica dei Pelopidi. E' lui a donare ad Atreo e Tieste l'agnello d'oro che sarà causa, in quanto emblema di potere, della tragica contesa fra i due fratelli.
Ermes è considerato anche il dio dei ladri. Ladro egli stesso penetra nei luoghi chiusi "come una nebbia". Questa abilità lo aiuta in imprese come l'uccisione di Argo e la liberazione di Io. Questo mito, di origine antichissima, rappresenta la rivalità fra il ladro ed il custode del bestiame.
E' anche il dio dei commercianti. Il parallelo fra i ladri ed i commercianti ha suscitato facili ironie anche nei rapsodi ma va riferito agli aspetti avventurosi che, in quei tempi, interessavano la vita dei mercanti come quella dei ladri. Suo attributo è il caduceo che rappresenta uno strumento magico, il vincastro del pastore e l'insegna dell'araldo. Il nome di Ermes deriva probabilmente dalla matrice indoeuropea *SER -, generalmente legata all'umidità, concetto spesso in relazione con quello di fertilità (la fertilità del bestiame come dono del dio). Ermes viene identificato dall'antico poeta Ipponatte con Candaule, un dio della Lidia che, come Ermes, aveva l'attributo di "uccisore di cani".
Queste ed altre considerazioni linguistiche sembrano accreditare la tesi dell'origine indoeuropea del culto di Ermes.
Nell'inno si attribuisce ad Ermes l'invenzione della lira, che il poeta chiama Kithara in quanto il termine lira è più tardo. Strumenti di questo genere, a tre o quattro corde, sono raffigurati già su vasi e manufatti risalenti all'età micenea. La lira di Mercurio è a sette corde, innovazione attribuita a Terpandro, vissuto nel settimo secolo, epoca nella quale si colloca la composizione dell'inno o, almeno, della sua prima parte.
Per contro considerazioni linguistiche e filologiche hanno portato alcuni studiosi a datare l'inno fra il sesto e il quinto secolo.
In ogni caso rimane accertato che il rapsodo che compose l'inno ad Ermes non apparteneva alla stessa scuola dell'autore (o degli autori) dell'Iliade e dell'Odissea.

L'inno


Ermes nacque dai connubi segreti di Zeus con la ninfa Maia. Nato all'aurora a mezzogiorno suonava la lira e dopo il tramonto derubò Apollo delle sue vacche. Il primo essere vivente incontrato da Ermes appena uscito all'aperto è una tartaruga, egli se ne rallegra e la prende con se. Per i Greci la tartaruga era un portafortuna, inoltre la lira inventata dal dio aveva un guscio di tartaruga come cassarmonica.
Infatti Ermes prevede "e se tu mi morissi, allora sapresti cantare a meraviglia". Ermes si affretta a sacrificare l'animale per costruire il suo strumento col quale prende subito ad esercitarsi cantando le glorie dei suoi genitori.
Calata la notte Ermes raggiunge i monti della Pieria, rapisce cinquanta delle vacche di Apollo e le porta via facendole camminare a ritroso, per confondere le orme.
Giunto alle sue stalle presso il fiume Alfeo e rinchiusa la preda Ermes accende un gran fuoco e sacrifica due vacche. Divise le vittime in dodici parti le arrostisce ma rinuncia a consumarle. La spiegazione di questo fatto singolare è stata così proposta: le dodici parti erano dedicate ai "dodici dei", una sorta di élite divina di cui lo stesso Ermes faceva parte.
Poiché le carni vengono cotte e non bruciate gli altri undici dei non le ricevono (la parte per il dio nei sacrifici veniva carbonizzata), quindi Ermes si astiene per correttezza dal consumare la propria.
Completato il sacrificio Ermes torna silenziosamente nella dimora materna e, riprendendo l'aspetto di un neonato finge di dormire, ma non inganna Maia che lo rimprovera per le sue imprese notturne. Ermes dichiara di voler vivere nell'Olimpo al pari degli altri dei e di voler diventare il re dei ladri, non teme affatto l'ira e la vendetta di Apollo.
Frattanto Apollo ha scoperto il furto ed interroga un vecchio contadino che aveva visto passare Ermes con le vacche, il vecchio gli dice di aver visto un fanciullo compiere il furto ed un volo d'uccello è il segno che indica ad Apollo la direzione presa dal ladro.
In altri autori Apollo fa a meno di questi aiuti e scopre Ermes grazie alla propria chiaroveggenza.
Comunque Apollo giunge alla casa di Maia e, adirato, interroga il bambino minacciandolo di scagliarlo nel Tartaro se non riavrà le sue vacche.
E' gustosa la finta ingenuità con cui Ermes risponde dichiarandosi innocente, protestandosi troppo piccolo per poter competere con Apollo, arriva addirittura a negare di sapere cosa sia una vacca. L'ira di Apollo è subito mitigata dalla sua divertita ammirazione della sfacciataggine del piccolo ladro al quale profetizza che toccherà il titolo di "re dei furfanti".
I due intavolano una lunga discussione ed infine Apollo non riuscendo ad ottenere soddisfazione trascina Ermes di fronte a Zeus dove "era pronta la bilancia della giustizia". Davanti a Zeus Ermes giura di non aver portato a casa sua le vacche di Apollo, non lo ha fatto in effetti ma le ha nascoste presso il fiume Alfeo.
La sua astuzia diverte anche Zeus che bonariamente ordina ai due fratelli di recuperare le vacche e mettere fine alla contesa.
Ermes accompagna Apollo presso il nascondiglio delle vacche ma qui lo stupisce di nuovo prendendo la lira e cominciando a cantare.
Apollo è affascinato dall'invenzione di Ermes e gli offre la sua amicizia ed alleanza chiedendogli di insegnargli a suonare il nuovo strumento. Ermes gli offre subito la lira chiedendogli in cambio le vacche di cui avrà cura, dice, personalmente fino ad ottenere mandrie numerose (origine, dunque, della prerogativa di Ermes come protettore del bestiame e dei pastori). Apollo accetta di buon grado lo scambio e, ottenuta la lira prende a sua volta a cantare.
Da allora i due dei furono legati da grande amicizia, si scambiarono giuramento di lealtà ed Ermes ebbe in dono da Apollo il caduceo d'oro come insegna. L'unico privilegio che Apollo non può spartire con Ermes è la sua facoltà oracolare che gli proviene da Zeus e che ha giurato di mantenere segreta. Tuttavia anche in questo intende offrire qualcosa ad Ermes e gli fa dono di uno sciame di api prodigiose, dotate di chiaroveggenza. In effetti pare che non lontano dal santuario delfico si trovasse un tempio di Ermes i cui sacerdoti pronunciavano oracoli e presagi interpretando, appunto, il volo ed il comportamento delle api.
Da parte sua Zeus concesse ad Ermes di essere signore dei leoni, dei cinghiali, dei cani e di tutto il bestiame.


INNO V
A AFRODITE

Notoriamente Afrodite è dea del "gamos", l'amplesso. E' anche divinità del matrimonio, dell'unione legittima, tanto che in alcuni autori l'adulterio, è considerato conseguenza della sua ira. In senso lato rappresenta la "forza" che congiunge l'elemento maschile con l'elemento femminile, è dunque principio vitale, talvolta manifestato con allegoria magica tramite l'amuleto che è la sua famosa "cintura". In sostanza, il culto di Afrodite è uno dei tanti dedicati alla fecondità della natura, però nel suo caso il concetto del "desiderio" prevale su quello della fertilità, di conseguenza ad Afrodite si rivolge anche l'amante non corrisposto, come quello omosessuale.
Il culto di Afrodite comprendeva molti aspetti arcaici, in generale legati alla fecondità ed al raccolto. A volte è descritta o rappresentata come androgina, a volte barbuta, attributi forse risalenti ad una più antica divinità straniera della quale, verso il quarto secolo, derivò la figura di Ermafrodito.
Il carattere di "dea madre", anch'esso di origine arcaica, era adombrato dai molti amanti di Afrodite, fra i quali Anchise (dal quale nacque Enea) ed Adone.
E' madre di Eros che, secondo Simonide nacque da lei soltanto, secondo altre fonti è di volta in volta figlio di Urano, Zeus, Ermes, Efesto o Ares.
Non mancano gli aspetti ctonii del personaggio che a volte veniva identificato con Persefone o, quanto meno, ne condivideva gli attributi.
Gli studiosi concordano nell'individuare nel culto di Afrodite origini fenicie e più generalmente semitiche. Nella mitologia greca Afrodite condivideva attributi della dea semitica Astarte, come la colomba.
Ad Afrodite era connesso in Grecia il complesso rito della prostituzione sacra, rito di origine genericamente orientale e non necessariamente semitica. Il rito presentava due aspetti: quello templare (esercitato da sacerdotesse o schiave del tempio) e quello a cui, in determinate epoche o regioni, erano tenute tutte le donne una volta nella vita prima del matrimonio. Il primo aveva probabilmente significato espiatorio, il secondo - che veniva attuato solo con stranieri - era connesso al concetto che la deflorazione fosse sacrilega e pericolosa. Erodoto descrive questa seconda usanza presso i Babilonesi, attestando in questo caso un precedente semitico.
Anche il mito di Adone, figlio dell'incesto fra Cinira e Mirra, amato da Afrodite e ucciso da un cinghiale, identificabile con il dio fenicio Tammuz testimonierebbe una componente semitica del culto della dea.
Nella complessa genesi del mito di Afrodite le fonti adombrano anche altre possibili origini, per esempio Creta (come in Saffo), o in Anatolia (di qui i suoi rapporti con Anchise e con Enea).
Le ipotesi sull'etimologia del nome Afrodite sono diverse: si è pensato ad APHR- ODITE (colei che cammina sulla spuma), ma le forme verbali sembrano anomale. Altri credono che il nome possa derivare dal fenicio Astoret (Astarte). In ogni caso si ritiene che il nome sia di origine non ellenica. L'ipotesi più diffusa è dunque che il culto di Afrodite, di origine orientale, sia stato incontrato in Asia Minore dagli Achei e da questi diffuso a tutti i Greci che via via identificarono la dea con varie divinità locali della fertilità.
Le fonti parlano di numerose tombe di Anchise, variamente dislocate: sul Monte Ida nella Troade o in Sicilia. Anchise, all'origine del mito, doveva rappresentare un paredro della dea madre poi identificata con Afrodite. In questo tipo di leggende l'eroe, dopo la ierogamia, veniva spesso ucciso o evirato ma nel caso di Anchise la sua trasposizione nel mito dinastico che lo vuole capostipite di una stirpe di principi troiani mitiga il suo destino ad una meno grave invalidità.
Riguardo all'inno ad Afrodite si ritiene che i particolari della ierogamia in esso narrata siano stati impiantati a scopo encomiastico nei confronti di una casata da parte del rapsodo che compose l'inno. Numerose erano infatti le famiglie nobiliari "Eneadi", che si ritenevano o dichiaravano discendenti di Ascanio e di Enea, dunque di Anchise.
E' opinione diffusa che il quinto inno risalga al VII secolo, sia cioè non molto posteriore ai poemi omerici.

L'inno


Invocazione alla Musa per cantare le "opere di Afrodite d'oro" che sono nel cuore di tutti gli dei, degli uomini e degli animali. Solo tre dee non risentono delle sue arti: Atena, Artemide, Estia, le dee vergini. Anche il sommo Zeus può essere ingannato da Afrodite che spesso lo spinge ad unirsi con donne mortali.
A sua volta, per rivalsa, Zeus le infuse il desiderio di unirsi al mortale Anchise.
Anchise era pastore sull'Ida e qui Afrodite, in aspetto umano, si recò per incontrarlo. Afrodite si finse una fanciulla rapita misteriosamente da Ermes durante una danza rituale. Facilmente Afrodite sedusse Anchise, raccontando che Ermes le aveva ordinato di diventare sua sposa. Dopo l'unione la dea si manifestò all'attonito mortale e predisse la nascita di un figlio che si sarebbe dovuto chiamare Enea (da Ainos - tremendo per il tremendo connubio fra dea e mortale) e che avrebbe regnato sui discendenti dei troiani.
Nel suo discorso Afrodite elenca esempi di ierogamia: Ganimede rapito da Zeus, Titone sposo di Aurora.
Afrodite avvertì infine Anchise che dopo quattro anni gli avrebbe portato suo figlio, nutrito dalle Oreadi, e gli ordinò di non raccontare mai ai mortali chi fosse la madre.


INNO VI
A AFRODITE

Questo brevissimo inno era probabilmente l'esordio di un componimento più lungo. Vi si narra il mito di Afrodite che nasce nel mare dalla spuma dispersa dai genitali recisi di Urano. L'origine del mito è antichissima ed è stata riferita al concetto dell'acqua come origine primordiale della vita. L'episodio dei genitali di Urano, anche esso arcaico, sarebbe entrato in relazione con Afrodite più tardi. Il mito è presente anche nella Teogonia di Esiodo ma in molti altri autori, nonché nell'Iliade e nell'Odissea, Afrodite è figlia di Zeus.
Afrodite viene descritta nell'inno mentre sorge dal mare e viene accolta dalle Ore che la vestono ed ornano di monili, quindi la conducono di fronte agli immortali che le danno il benvenuto. Molti dei la chiedono in moglie, tutti contemplano ed ammirano il suo aspetto.


INNO VII
A DIONISO

Viene narrato un rapimento subito da Dioniso ad opera dei pirati.
Incerta la posizione cronologica dell'inno, le opinioni degli studiosi vanno dall'epoca dei poemi omerici all'età ellenistica.
Probabilmente il mito del rapimento si originò in isole esposte alla pirateria fedeli di Dioniso. Quindi rappresenterebbe il conflitto fra i perenni nemici della popolazione ed il dio più caro alla popolazione stessa.

L'inno


Dioniso giovinetto viene rapito dai pirati che lo credono un nobile rampollo dal quale ricavare un lauto riscatto. Vani sono i tentativi di legare il dio perché i legami si sciolgono da soli. Subito avvengono prodigi: sulla nave piove vino e crescono edera e tralci di vite.
Infine la preda si trasforma in un leone, ghermisce il capo dei pirati e mette in fuga tutti gli altri. Ha pietà del timoniere che, solo, aveva subito intuito la sua natura divina ed aveva esortato i compagni a liberare il prigioniero.


INNO VIII
A ARES

L'ottavo inno è in realtà una preghiera liturgica ad Ares, inserita forse per errore fra gli inni omerici ed attribuita ad un poeta orfico del primo secolo a.C. (forse Proclo). Nell'inno Ares è identificato con il pianeta omonimo, e rappresenta quindi una divinità astrale, l'intero componimento segue la concezione orfica che vede il mito come una volgarizzazione della teologia.
Nell'inno le caratteristiche tradizionali di Ares vengono in qualche modo capovolte ed il signore della guerra diviene "sostegno della giustizia". Il poeta lo invoca perché gli infonda il coraggio ed allontani l'ira dal suo animo, concedendogli di rispettare "le norme inviolabili" della pace.


INNO IX
A ARTEMIDE

Breve componimento formato da un esordio e da uno o due congedi, risalente probabilmente al VII secolo a.C. Vi si allude ad un culto di Artemide a Smirne, città che in quell'epoca era sottomessa a Colofone. Questi versi sono l'unica fonte che attesti il culto di Artemide a Smirne in età arcaica.


INNO X
A AFRODITE

Il componimento, brevissimo, consta di un esordio e di un congedo.


INNO XI
A ATENA

Atena derivava probabilmente da una dea minoica, il cui culto fu adottato già nel XV secolo dai Micenei stabilitisi a Creta. Protettrice della casa del re nei tempi più antichi, Atena divenne nume tutelare della Polis. Data l'intensa belligeranza dei principi micenei è facile comprendere come la dea protettrice delle loro città divenne presto una patrona delle loro imprese militari.
Dunque dal proteggere i combattenti Atena arrivò ad assistere gli artigiani costruttori di armi e di navi (da guerra), configurandosi così i suoi attributi più consueti.
Nel brevissimo inno, solo cinque versi, è cantata come dea della guerra e come tale paragonata ad Ares.


INNO XII
A ERA

Il dodicesimo inno consta solo di un esordio, quasi sicuramente per la perdita della parte successiva. Probabilmente originaria dell'Argolide, Era è "la Signora", sorella e moglie di Zeus. Poiché in età arcaica l'Argolide comprendeva anche Micene, la fortuna del culto di Era dipese forse dall'affermarsi della civiltà micenea. Nel mito è sua caratteristica la partenogenesi: senza intervento maschile genera Efesto, in alcune versioni anche Tifone. Protettrice in generale delle donne, i culti a lei dedicati rappresentavano tutte le fasi della vita femminile (bambina, vergine, sposa, vedova).


INNO XIII
A DEMETRA

I versi di questo inno sono una versione alternativa dell'esordio e del congedo dell'inno II.


INNO XIV
ALLA MADRE DEGLI DEI

La "Grande Madre" non ebbe mai un nome ma molti attributi derivanti da toponimi: Idea, Dindimene, Sipilene, Cibele. Probabilmente fu identificata (o confusa) con Demetra o con Rea, tuttavia tale identificazione non può mai essere considerata completa e definitiva. Nell'inno vengono evidenziate le abitudini montane della dea i cui templi, infatti, sorgevano quasi sempre in luoghi elevati.


INNO XV
A ERACLE DAL CUOR DI LEONE

Il culto degli eroi nacque come derivazione del culto dei morti, dunque degli antenati della famiglia. Già in età micenea questo culto evolve dalla forma privata a quella pubblica e gli eroi vengono identificati con gli antenati del popolo e della città.
Eracle, in particolare, è generalmente un uomo che, attraversate interminabili traversie, viene assunto dagli dei per apoteosi. Ma l'apoteosi è l'elemento più tardo del mito, forse del sesto secolo, in precedenza Eracle andava, come tutti gli uomini, negli inferi.
Nell'inno si saluta Eracle, figlio di Zeus e di Alcmena, che compì "cose inedite" agli ordini del re Euristeo e molto sofferse, ma ora egli vive lieto nell'Olimpo ed è sposo di Ebe, personificazione della gioventù.


INNO XVI
A ASCLEPIO

Eroe medico fino al V secolo venne poi considerato dio della medicina.
Come eroe viene incenerito dal fulmine di Zeus quando impara a resuscitare i morti, violando un privilegio degli dei. Non si esclude l'ipotesi che il culto di Asclepio possa essere antichissimo, addirittura preellenico e risalire ad un'epoca in cui la distinzione fra dei ed eroi non veniva ancora operata. Questa ipotesi aiuterebbe a spiegare l'incertezza dei caratteri del personaggio.


INNO XVII
AI DIOSCURI

Il mito dei Dioscuri è molto antico e complesso. Risale probabilmente alla religione indoeuropea ed era dunque noto ai Greci prima del loro arrivo nell'Ellade. Questa teoria sarebbe suffragata dalla relazione dei Dioscuri, detti anche Tindaridi con il dio etrusco Tin o Tinia. Per i Greci Tindaridi suonò come patronimico e ne nacque il personaggio di Tindaro, sposo di Leda.
In Omero compaiono come eroi, fratelli di Elena, altrove come dei ctonii.
Quando, in epoca ignota, si affermò l'identificazione dei Tindaridi con i Dioscuri, questi divennero figli di Zeus. Da questa commistione di miti nacque la singolare leggenda dei due fratelli di cui uno, Castore, mortale e l'altro, Polluce, immortale.
Polluce, per affetto, divideva il suo privilegio con Castore ed i due vivevano un giorno sull'Olimpo e l'altro nella tomba. Per spiegare il loro diverso destino Castore fu considerato figlio di Tindaro, Polluce figlio di Zeus.
Nel breve inno i due sono salutati come "i Tindaridi che nacquero da Zeus Olimpio".


INNO XVIII
A ERMES

Il breve componimento comprende un esordio e due congedi, varianti di quelli dell'inno IV.


INNO XIX
A PAN


Divinità agreste per eccellenza Pan è il dio della pastorizia, tutti gli aspetti del suo mito riflettono la vita quotidiana dei pastori, tuttavia egli vive appartato ed invisibile, solo il suono della sua siringa può talvolta essere udito. Venerato anticamente in Arcadia fu introdotto in Atene all'inizio del quinto secolo. In alcune fonti Pan "muore", che lo farebbe identificare con un eroe mortale o con un dio della vegetazione, soggetto ad un ciclo perenne di morte e rinascite.
L'inno è fra i più tardi della raccolta (V secolo o anche età ellenistica).
Nell'inno, come in Erodoto, Pan è figlio di Ermes, altrove di Crono, Zeus o Apollo. La madre non è citata nell'inno, in alcuni fronti è la dea arcade Callisto, in altre la ninfa Penelope (diversa dalla moglie dell'Odissea).
Nell'inno Pan è dotato di piedi e corna caprine, abita i boschi, spesso cacciando. Proviene dall'Arcadia, dove è stato concepito da Ermes e da una ninfa ed è nato già dotato del suo terribile aspetto ferino.


INNO XX
A EFESTO


Probabilmente di antichissima origine minoica, Efesto è il dio artefice, in rapporto con il fuoco e la metallurgia, produttore delle armi degli dei, storpio e di orribile aspetto. In alcune fonti nasce da Gea, in Esiodo nasce da Era per partenogenesi.
Il suo mito è spesso in relazione a quello di Atena in quanto entrambi padroni delle professioni umane. Anche in questo breve inno Efesto è presentato come un dio che insegna ai mortali "opere egregie", liberandoli dalla loro primitiva condizione di bruti; concezione evidentemente opposta al concetto esiodeo della decadenza umana dopo l'età dell'oro.


INNO XXI
A Apollo



Un frammento in cui il canto del cigno, particolarmente caro ad Apollo, viene accostato a quello dell'aedo.


INNO XXII
A POSEIDONE


"Signore o sposo della Terra", Poseidone è dio del mare e di tutte le acque. Suo frequente attributo è il cavallo, che rappresenta le fonti che sgorgano dal sottosuolo. Poiché si riteneva che i terremoti fossero causati dalle acque sotterranee e egli è anche considerato "scuotitore della Terra" .
In molti popoli era presente il concetto di un dio maschile delle acque che feconda la Terra e ne diviene sposo, ma presso i Greci lo Zeus celeste signore della pioggia prevalse sul Poseidone ctonio delle acque sotterranee. Nell'inno Poseidone è salutato anche come "Salvatore di navi", cioè protettore di naviganti.


INNO XXIII
A ZEUS


Signore dei fenomeni atmosferici, Zeus risiede sulle montagne perché guardando verso le loro cime si può prevedere il tempo. Il nome Zeus, derivando dalla radice indoeuropea div- indica il cielo in senso astratto. Dio supremo dell'Olimpo greco egli conosce il destino ma non può modificarlo, in qualche modo la sua autorità è volta a garantire l'attuarsi del destino stesso anche quando questo è contrario al suo volere, come nell'episodio della morte del figlio Sarpedonte, nell'Iliade


INNO XXIV
A ESTIA


Più che una divinità autonoma Estia rappresenta il focolare divinizzato. Il suo culto era diffusissimo anche, per estensione, come nume di consigli cittadini e dei magistrati. Viene identificata con la latina Vesta la quale, tuttavia, rappresenta più il fuoco che il focolare. Dell'inno rimane solo un esordio di cinque versi, dal quale si evince che doveva trattarsi di un inno per l'inaugurazione di un nuovo edificio.


INNO XXV
ALLE MUSE ED AD APOLLO


Onniscienti figlie di Zeus e di Mnemosine le Muse rappresentano l'ispirazione e la dottrina del poeta. Discussa è la datazione dell'Inno, del quale abbiamo l'esordio, con la Teogonia di Esiodo. Oggi si ritiene che entrambe le opere attingessero da fonte tradizionale non identificabile.


INNO XXVI
A DIONISO


L'esordio descrive un baccanale delle ninfe guidato da Dioniso. Seguendo la tradizione arcaica il dio viene ritratto fanciullo e le ninfe sono sue nutrici. Nel congedo il poeta, alludendo ad una celebrazione annuale, chiede al dio di poter tornare a cantarlo per anni ancora.


INNO XXVII
A ARTEMIDE



In questo inno Artemide è cantata soprattutto come cacciatrice, ella vive fra le belve che insegue senza posa, come i cacciatori primitivi. Sotto certi aspetti che risalgono alla preistoria Artemide si identifica con il cacciatore come con la preda. Di qui all'essere dea della fertilità il passo è breve.


INNO XXVIII
A ATENA


La nascita di Atena presenta particolari problematiche, nella tradizione più diffusa nasce dalla testa di Zeus, per altre fonti più antiche è figlia di Zeus e di Metis (la saggezza), compagna che Zeus ha divorato per timore che mettesse al mondo un figlio più potente di lui. Sembra che la versione più diffusa derivi da una concezione arcaica di Zeus androgino che i Greci di età omerica e classica hanno voluto soppiantare.



INNO XXIX
A ESTIA


Come accade anche altrove, in quest'inno Estia è invocata insieme a Ermes perché protegga una dimora. Come per l'inno XXIV si ritiene che si tratti di un componimento per l'inaugurazione di un nuovo edificio. Anche qui si ricorda come, nei banchetti, il vino fosse offerto ad Estia "per prima e per ultima".


INNO XXX
A GEA


La Terra (Gea) è venerata come madre universale ed il suo culto è essenzialmente riferito al raccolto. Si tratta di un culto non diffusissimo in Grecia, Platone lo considera barbarico. Sembra, comunque, che si tratti di un culto antichissimo gradualmente sostituito con quello di altre dee-madri, come Rea, Era, Atena, ecc. Nell'inno viene sottolineata la ricchezza che Gea, benevolmente, concede ai suoi fedeli sotto forma di abbondante raccolto.


INNO XXXI
A ELIO


Elio, il Sole, eternamente occupato ad attraversare il cielo con il suo carro, svolge un ruolo, tutto sommato, minore. Molti ritengono il suo culto anellenico, sulla scorta dell'opinione di Platone e di Aristofane. A Rodi si sacrificava ad Elio una quadriga che veniva sommersa in mare con i cavalli.


INNO XXXII
A SELENE


Anche il culto della Luna, per i Greci, fu scarsamente diffuso ed importante. Già in epoca arcaica il culto di Selene si sovrapposero quello di Artemide e di Ecate. Molte le analogie di quest'inno con il precedente, entrambi i componimenti sono considerati di scuola tarda e minore. Si dice che da un connubio di Selene con Zeus nacque una dea di nome Pandia, si tratta di divinità avventizia, citata per giustificare le feste di Pandia.


INNO XXXIII
AI DIOSCURI


Come per l'inno XVII i Dioscuri sono da identificare con un'antichissima coppia di divinità indoeuropee. Come i gemelli Asvini del Rigveda, in questo inno i Dioscuri appaiono dotati di ali ma, a differenza di quelli, sono guerrieri ed intervengono direttamente nei combattimenti. Per Polluce è caratteristico il pugilato, sport caro all'aristocrazia guerriera greca.