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PLUTARCO

VITE PARALLELE


VITE DI PERICLE E FABIO MASSIMO

PERICLE



Pericle appartenne alla tribù di Acamante della gente di Colargo. Entrambi i genitori erano nobili: Santippo, vincitore a Micale, e Agariste nipote di Clistene che scacciò da Atene i discendenti di Pisistrato e stabilì ottime leggi.
Nacque proporzionato nel corpo ma con il capo lungo fuor di misura, per questo le sue statue avevano sempre un elmo per nascondere il difetto, mentre i poeti comici motteggiavano spesso su questa caratteristica.
Studiò con Damone che con il pretesto della musica gli insegnò le cose della politica finché non fu esiliato come fautore della tirannide. Fu anche uditore di Zenone di Elea ma il suo maestro più importante fu Anassagora di Clazomene detto Mente. Da Anassagora Pericle apprese molte cognizioni ed anche il suo portamento elegante e la sua grande compostezza. Inoltre le nozioni di astronomia avute dal maestro lo liberarono dalle superstizioni che spaventavano i suoi concittadini.
Per aspetto fisico e modo di parlare, Pericle ricordava Pisistrato ai cittadini più anziani. Inoltre era nobile e ricco e tutto ciò lo poneva a rischio di ostracismo, per questo in gioventù si tenne lontano dalla politica. Partecipava invece volentieri alle azioni militari mostrandosi sempre coraggioso.
Dopo la morte di Aristide e l'esilio di Temistocle, mentre Cimone combatteva fuori dalla Grecia, Pericle entrò in politica scegliendo il partito popolare, contrariamente a quanto la sua condizione e la sua natura avrebbero fatto pensare. Lo fece forse per non essere sospettato di mirare alla tirannia o forse per opporsi a Cimone che era dalla parte degli aristocratici.
Si allontanò dalla compagnia delle persone del suo rango ma si mostrava raramente in pubblico ed evitava di occuparsi di questioni minori riservando per se le cose più importanti e lasciando le altre ai collaboratori.
In occasione del processo di Cimone e del suo richiamo dall'esilio, Pericle si comportò con moderazione per intercessione di Elpinice, sorella di Cimone, la quale fece anche da mediatrice nei patti segreti tra i due rivali. Prendendo spunto da queste considerazioni, Plutarco respinge con forza l'opinione di Idomeneo che riteneva che Pericle avesse ucciso Efialte per gelosia.
Quando Cimone morì a Cipro combattendo contro i Persiani, l'aristocrazia ateniese per evitare che tutto il potere fosse nelle mani del solo Pericle, gli oppose Tucidide, militarmente inferiore a Cimone ma superiore nelle cose della politica e del foro.
La competizione e l'emulazione tra Pericle e Tucidide, dice Plutarco, divisero la città in due fazioni. Pericle si sforzava di essere sempre più gradito alla fazione popolare non facendo mai mancare spettacoli, pubblici banchetti e divertimenti, inoltre ogni anno stipendiava molti cittadini per andare in mare con sessanta triremi per otto mesi e fare esperienza dell'arte nautica. Dedusse colonie nel Chersoneso, in Tracia, in Italia e in altri luoghi per allontanare migliaia di persone inoperose che avrebbero potuto creare problemi e, nello stesso tempo, per venire incontro alle esigenze degli indigenti.
Plutarco dedica un brano all'eloquenza di Pericle, all'influenza di Anassagora e alla cura scrupolosa di Pericle nel preparare i suoi discorsi. Aristocratico di estrazione e democratico per scelta politica, aveva di fatto instaurato il governo di un solo basando il suo primato sul grande ascendente che esercitava sul popolo. Fu questo ascendente, ottenuto con il suo carisma ma anche con premi e donazioni erogati col denaro pubblico, che gli consentì di ridimensionare le funzioni dell'Areopago e di mandare in esilio il rivale Cimone.
Quando gli Spartani invasero il territorio di Tanagra in Beozia e gli Ateniesi mossero contro di loro, Cimone intervenne dall'esilio con i suoi seguaci per dimostrare false le accuse di simpatia per Sparta in base alle quali aveva subito l'ostracismo. Pericle e i suoi lo allontanarono dai campi di battaglia ma in seguito fu proprio Pericle a richiamare Cimone per far cosa gradita al popolo, tuttavia lo fece con il segreto accordo che Cimone ripartisse per combattere i Persiani.
Rientrato in Atene, Cimone concluse la pace con gli Spartani.
Quando Pericle intraprese la costruzione dei grandi templi ed edifici che sotto di lui abbellirono Atene, i suoi nemici lo accusarono di aver frodato le altre città greche perché i lavori erano finanziati con il fondo comune custodito ad Atene per la difesa contro i Persiani. Pericle rispondeva che Atene di fatto garantiva quella difesa e quindi aveva diritto di spendere quei depositi. Inoltre i lavori impegnavano artigiani e lavoratori di ogni genere creando in città occupazione e benessere.
Le costruzioni furono eseguite con sorprendente rapidità e grande accuratezza. Ad ogni edificio lavorarono artefici ed architetti di grande valore mentre direttore e sovrintendente generale era Fidia. Al tempio di Atena lavorarono gli architetti Ictino e Callicrate, Corebo, Metagene. Mnesicle costruì i vestiboli della rocca (Propilei). In occasione del completamento dell'Odeon Pericle istituì la gara di musica che si svolgeva durante le feste panatenee.
Durante i lavori un operaio molto bravo si ferì gravemente cadendo dall'alto. Pericle riuscì a curarlo seguendo indicazioni avute in sogno da Atena alla quale dedicò una statua di rame nella rocca. Alla dea fu dedicata anche la statua d'oro che recava sul piedistallo il nome di Fidia suo autore. Fidia aveva la direzione dei lavori grazie alla sua amicizia con Pericle, amicizia che rese entrambi bersaglio di invidia e di maligne dicerie. Si disse che Fidia ospitava nella sua casa le frequenti avventure galanti di Pericle il quale, a detta dei pettegoli, avrebbe avuto una relazione anche con la moglie di Menippo, suo amico e suo secondo nel comando militare, e addirittura con la propria nuora ma Plutarco attribuisce queste informazioni al livore degli avversari dello statista.
Quando Pericle propose all'assemblea di farsi carico personalmente delle spese fatte per i monumenti ma attribuendosi il merito della loro realizzazione (proposta forse inattuabile data l'enormità dell'importo), il popolo per non essere privato della gloria di quelle opere lo autorizzò a spendere senza alcun limite, con buona pace della fazione di Tucidide.
Quando i contrasti con Tucidide cominciarono a provocare eccessiva tensione, Pericle riuscì a farlo esiliare e la fazione aristocratica ne fu annientata. Tornò la pace in Atene mentre Pericle aveva l'assoluto dominio: controllava i tributi, le spedizioni militari, la flotta ed aveva grande autorità in tutta le Grecia grazie a amicizie e alleanze. Non era più docile e mansueto verso il popolo come in passato e pur mantenendo un comportamento irreprensibile sapeva come imporre la sua volontà agli Ateniesi che del resto gli obbedivano volentieri. Con grande abilità riuscì a trasformare la democrazia nel governo di un solo uomo. Come scrisse Tucidide, Pericle riuscì a tanto non solo con l'eloquenza ma anche con il prestigio che aveva ottenuto grazie al suo modo di vivere morigerato, al rifiutare i doni e alla sua grande onestà, infatti in tutta la vita non accrebbe minimamente quanto aveva avuto in eredità dal padre. L'economia della sua casa, gestita da un esperto domestico, garantiva la preservazione del suo patrimonio con un regime molto austero del quale la famiglia di Pericle si lamentava.
Pericle inviò messaggeri in ogni città greca per convocare un'assemblea generale che avrebbe dovuto avere per argomento la pace in tutta la Grecia e la sicurezza per la navigazione ma il convegno non ebbe luogo per l'opposizione degli Spartani che non gradivano la crescente potenza ateniese.
Pericle era molto prudente in ambito militare e non avrebbe mai intrapreso un'azione rischiosa. Quando il giovane Tolmide propose di invadere la Beozia e reclutò migliaia di volontari, Pericle tentò di dissuaderlo parlandogli in pubblico e quando l'impresa si concluse miseramente con la sconfitta di Coronea, tutti lo lodarono per la sua prudenza.
L'impresa militare più ammirata di Pericle fu la spedizione nel Chersoneso con la quale liberò i Greci della regione dagli attacchi dei barbari e garantì la sicurezza futura con una colonia militare e con grandi fortificazioni. In un'altra occasione navigò con cento triremi lungo le coste del Peloponneso devastando le città marittime e spingendosi a volte all'interno, sconfisse gli abitanti di Sicione e prima di rientrare a Atene depredò l'Acarnania.
Pericle visitò il Ponto con una grande flotta per mostrare a tutti la potenza ateniese e per accogliere le richieste delle città greche della regione. Lasciò a Sinope tredici navi con seicento uomini per fronteggiare il tiranno Timesilao che era già stato deposto e scacciato. Gli Ateniesi, incoraggiati dalla buona sorte del loro impero aspiravano a nuove conquiste fuori della Grecia ma Pericle, prudentemente, non accettava proposte in questo senso preferendo dedicare tutte le risorse a proteggere quanto già la città possedeva, soprattutto nei confronti degli Spartani.
Il territorio di Delfi era in mano ai Focesi, gli Spartani intervennero in armi e lo restituirono agli abitanti ma poco dopo Pericle intervenne a sua volta per ridarlo ai Focesi. Gli eventi che seguirono dimostrarono che Pericle aveva avuto ragione nel trattenere in Grecia le risorse militari ateniesi, infatti l'Eubea e Megara si ribellarono e mentre Pericle muoveva contro di loro un esercito spartano attaccava l'Attica al comando del re Plistoanatte.
Poiché Plistoanatte era molto giovane, Pericle corruppe il suo consigliere Cleandrida convincendolo a ritirare l'esercito dall'Attica. Gli Spartani condannarono Plistoanatte a una multa tanto forte che lo indusse a lasciare la città e condannarono a morte in contumacia Cleandrida. Questi era padre di Gilippo che debellò gli Ateniesi in Sicilia e che fu a sua volta esiliato per essere stato colto in "operazioni malvage" (si era impadronito di parte del bottino).
Sembra che Pericle inviasse ogni anno grosse somme ai magistrati spartani per evitare che attaccassero Atene. Si concluse infatti una tregua di trent'anni tra Sparta e Atene e Pericle passò a sottomettere definitivamente l'Eubea. Mandò quindi la flotta contro Samo che aveva attaccato Mileto ma si disse che lo fece per far cosa gradita a Aspasia, originaria di Mileto. Era costei una donna di grande intelligenza, dotata di eloquenza e cultura che spesso si intratteneva con intellettuali come Socrate e i suoi amici. Si diceva che fosse direttrice di un bordello, nonostante ciò era stimata e ammirata dalle donne.
Pericle, che aveva divorziato dalla madre dei suoi due figli, la amava intensamente e la teneva nella sua casa. Per lei dunque Pericle avrebbe attaccato Samo dove abrogò l'oligarchia. Prese cinquanta ostaggi e li mandò a Lemno ma quando ripartì i Sami recuperarono gli ostaggi con l'aiuto del persiano Pissutne e si ribellarono. Pericle tornò indietro e li sconfisse in una grande battaglia all'isola di Tragia. Commise tuttavia l'errore di ripartire lasciando a Samo un presidio insufficiente che fu rapidamente sopraffatto.
Questa volta Pericle assediò Samo cingendola con un muro perché preferì impiegare del tempo piuttosto che esporre i soldati ai pericoli della battaglia campale. Nell'assedio furono usate per la prima volta macchine ideate da uno stravagante personaggio di nome Artemone detto Periforeto perché essendo zoppo si faceva trasportare su una sedia.
Dopo nove mesi di assedio, i Sami si arresero. Pericle smantellò le loro mura, tolse loro le navi e li condannò a una grossa multa. Tornato in Atene, Pericle preannunciò l'orazione funebre per i caduti ma Elpinice, sorella del defunto Cimone, lo criticò pubblicamente per aver fatto morire tanti concittadini in una guerra contro altri Greci.
Dopo questi eventi Pericle fece approvare un intervento in favore di Corcira che era minacciata da Corinto, tuttavia inviò soltanto dieci navi affidandone il comando a Lacedemonio figlio di Cimone e venne da molti criticato per aver messo il figlio dell'antico rivale a rischio di grossi insuccessi.
Anche la città di Potidea si era ribellata agli Ateniesi ed era sotto assedio ma probabilmente la guerra non sarebbe scoppiata se Pericle avesse accettato una riconciliazione con Megara, ma su questo punto lo statista fu inamovibile e per questa ragione la responsabilità della guerra fu attribuita a lui e a Aspasia. Pericle aveva forse motivi personali di inimicizia contro i Megaresi che ufficialmente venivano accusati di aver coltivato terreni sacri e di aver ucciso un ambasciatore ateniese. Non è semplice, tuttavia, determinare le vere cause del rigido atteggiamento di Pericle di fronte ai Megaresi e all'eventualità della guerra.
Fra le varie ipotesi che si fecero la più negativa nei confronti di Pericle fu di aver provocato la guerra per distogliere l'opinione pubblica dalle vicende giudiziarie di Fidia e di Aspasia nelle quali era coinvolto.
Fidia fu accusato di aver sottratto parte dell'oro destinato alla statua di Atena da lui realizzata. Pericle dimostrò che questa accusa era infondata ma i suoi avversari passarono a parlare di eresia perché Fidia aveva ritratto se stesso e Pericle nelle decorazioni dello scudo della dea e, per questa accusa, lo scultore finì in prigione dove morì di malattia o forse di veleno.
Nel caso di Aspasia, l'accusa era di immoralità e coinvolgeva anche Pericle il quale inoltre era a sua volta tacciato di ateismo in relazione agli insegnamenti di Anassagora. Pericle riuscì a salvare Aspasia e mise al sicuro il maestro allontanandolo dalla città, quanto ai suoi rischi personali li avrebbe appunto evitati con lo scoppio della guerra. Plutarco conclude comunque che la verità rimane incerta.
Nella speranza di esautorare Pericle, gli Spartani richiesero agli Ateniesi di esiliare i discendenti di quanti avevano commesso il sacrilegio di Cilone fra i quali era anche Pericle per arte di madre, ottennero l'effetto contrario perché molti furono colpiti dall'odio e dal timore che Pericle suscitava nei nemici.
Gli Spartani invasero l'Attica con un grosso esercito reclutato nel Peloponneso e in Beozia. Giunti nei pressi di Atene si accamparono attendendo la reazione dei cittadini ma Pericle giudicò troppo pericoloso affrontare in campo aperto una simile armata e chiuse le porte della città, dispose le guardie e rimase in attesa nonostante le pressioni sempre più insistenti di quanti volevano combattere. I suoi avversari ne approfittarono per criticarlo e tacciarlo di viltà. Ignorando tutti gli attacchi, compresi quelli degli amici, Pericle inviò un'armata di cento navi nel Peloponneso e rimase a governare Atene finché i nemici non si allontanarono per andare a difendere le loro città. Allora si preoccupò di indennizzare quanti erano stati danneggiati dagli invasori.
Anche il Peloponneso subì gravi devastazioni e forse Pericle, predicendo che la guerra non sarebbe durata a lungo, avrebbe avuto ragione se gli dei non avessero disposto diversamente.
Una terribile pestilenza colpì Atene uccidendo molte persone. Gli avversari di Pericle lo accusarono di aver causato il morbo col trasferire in città troppe persone provenienti dal contado creando condizioni non igieniche. Per dare coraggio alla popolazione, Pericle armò di nuovo la flotta per una spedizione militare e al momento di salpare si verificò un'eclissi solare che terrorizzò molte persone, tuttavia Pericle spiegò il fenomeno e riportò la calma.
La spedizione assediò Epidauro ma ottenne scarsi risultati a causa della malattia che colpiva i soldati. Questa volta Pericle, nonostante la sua eloquenza, non riuscì a controllare la situazione, venne processato, condannato a un'esosa multa e, soprattutto, privato del comando militare. Le fonti di Plutarco non concordano sul nome dell'accusatore di Pericle in giudizio, si parlava di Cleone, o di Simmia o di Lacratida.
A causa della pestilenza Pericle perse diversi parenti, aveva inoltre problemi con il figlio maggiore Santippo che, non condividendo la frugalità del padre, contraeva debiti a suo nome e parlava male di lui addirittura accusandolo di avere rapporti sessuali con sua moglie. L'astio di Santippo durò fino alla fine, quando l'epidemia portò via anche lui.
Pericle sopportò tutti i lutti con grande forza d'animo e soltanto al funerale di Paralo, l'ultimo figlio rimastogli, lo si vide piangere. Si ritirò in privato con il suo dolore ma gli Ateniesi, non trovando alcuno pari a lui, lo richiamarono al governo della repubblica e al comando della milizia.
Tornato al potere, Pericle abolì la legge che riconosceva la cittadinanza solo ai figli legittimi di padre e madre ateniesi. Lui stesso aveva varato la legge anni prima ma questa incoerenza gli fu perdonata dal popolo che gli consentì di dare il suo nome al figlio illegittimo (Pericle il Giovane) che in seguito fu uno dei comandanti della battaglia delle Arginuse condannati e giustiziati.
Anche Pericle si ammalò ma la sua malattia ebbe un lento decorso che lo privò gradualmente delle forze. Negli ultimi momenti di vita dichiarò agli amici che il suo più grande vanto era quello di non aver mai fatto vestire il lutto a un ateniese.
Morto Pericle tutti gli Ateniesi, compresi i suoi detrattori, dovettero rendersi conto di quale grande uomo avevano perduto.

FABIO MASSIMO


La famiglia dei Fabi faceva risalire a Ercole le proprie origini e si diceva che il nome derivasse da fodi, buche scavate in terra come trappole per gli animali. Molti membri della famiglia furono uomini famosi come Rulliano che ebbe il soprannome di Massimo, il quarto suo discendente fu il Fabio Massimo protagonista di questa biografia.
Ebbe il soprannome di Verrucoso per la piccola verruca che aveva sopra il labbro e quelli di Ovicola (pecorella) per il suo carattere serio e tranquillo fin dall'infanzia. Per la sua mansuetudine fu a volte considerato stolto ma quando prese a occuparsi delle cose della repubblica dimostrò che la sua imperturbabilità era segno di grande forza e costanza.
Si esercitava per la guerra e curava la sua eloquenza efficace ed essenziale che veniva paragonata alla prosa di Tucidide.
Fu cinque volte console, la prima trionfò sui Liguri. Quando Annibale entrò in Italia e vinse la battaglia del fiume Trebbia, iniziò a saccheggiare la Toscana mentre strani prodigi che non preannunciavano nulla di buono spaventavano i Romani, ma non il console Caio Flaminio che era pieno di coraggio e di orgoglio per la sua recente vittoria sui Galli, nè tanto meno li temeva Fabio che esortava i Romani a pazientare sapendo che Annibale aveva pochi uomini e penuria di denaro.
Il console Flaminio non volle ascoltare Fabio Massimo e mosse incontro a Annibale, I due eserciti si affrontarono sul Lago Trasimeno, i Romani furono sconfitti e Flaminio ucciso con molti dei suoi. Annibale, riconoscendo il valore dell'avversario, avrebbe voluto dare sepoltura a Flaminio ma non fu possibile trovare il suo corpo e non si seppe mai dove fosse finito.
La sconfitta sul Trebbia era stata minimizzata dai comandanti ma questa volta il pretore Pomponio convocò l'assemblea ed espose senza mezzi termini la gravità della situazione. Fu deciso di nominare dittatore Fabio Massimo il quale elesse comandante della cavalleria Lucio Minucio e fino dalla prima comparsa in pubblico si fece precedere da ventiquattro littori per mostrare l'importanza del suo grado ed ottenere la massima obbedienza. Parlò al popolo attribuendo la sconfitta del Trasimeno agli errori di Flaminio ed esortò tutti a non temere i nemici e onorare gli dei. Furono consultati i Libri Sibillini e Fabio Massimo fece voto di offrire le primizie della successiva primavera e di celebrare spettacoli scenici e musicali.
Fabio tornò alla sua tattica di temporeggiare seguendo il nemico a breve distanza senza mai provocarlo e senza accettare provocazioni. Era certo che l'attesa e l'inazione avrebbero sempre più indebolito i Cartaginesi che erano già in minoranza e a corto di mezzi di sussistenza. Molti criticavano il dittatore nel suo esercito e tra i nemici, solo Annibale aveva compreso cosa Fabio voleva ottenere e cercava in tutti i modi, ma senza successo, di farlo combattere.
Minucio, il comandante della cavalleria, era il più accanito nel criticare e nel deridere Fabio Massimo e cercava di guadagnare la simpatia e la stima dei soldati a danno del dittatore.
Annibale commise un grave errore: ordinò alle guide di condurlo nella campagna di Cassino dove contava di trovare rifornimenti ma a causa della sua pronuncia straniera le guide fraintesero e lo accompagnarono, con l'intera armata, in una valle nei pressi di Casilino (Capua antica) circondata dalle paludi e dal mare. Fabio chiuse la valle con quattromila soldati intrappolando i Cartaginesi e uccidendo ottocento uomini della loro retroguardia.
Per trovare scampo in quella situazione disperata, Annibale attese la notte e fece sospingere verso i valichi della valle una mandria di buoi con fasci di sterpi incendiati legati alle corna. Presi dal panico i buoi fuggirono appiccando il fuoco alla vegetazione e i Romani, nel buio, credettero si trattasse della carica di nuove truppe nemiche. Sfruttando la confusione i Cartaginesi occuparono i passaggi e l'armata si liberò dalla trappola.
Quando Fabio si rese conto dell'inganno ritenne troppo pericoloso attaccare il nemico di notte e attese il mattino per inseguire i Cartaginesi e colpirne l'ultima schiera, tuttavia Annibale, tramite una banda di soldati iberici armati alla leggera e abituati a quel tipo di terreno accidentato, respinse i Romani che erano intralciati dalle armature pesanti e li costrinse a ritirarsi.
Gli avversari di Fabio colsero ovviamente l'occasione per denigrarlo, i tribuni della plebe parlarono in pubblico contro di lui e il senato rifiutò di rimandargli la somma necessaria per riscattare i prigionieri, somma che Fabio pagò di tasca sua per non venir meno all'accordo con Annibale. A peggiorare la situazione contribuì Annibale che fece devastare molti poderi risparmiando solo quello che Fabio Massimo possedeva nella stessa zona.
Chiamato a Roma dai sacerdoti per un obbligo rituale, Fabio consegnò l'armata a Minucio ordinandogli di non combattere. Minucio, tuttavia, alla prima occasionre favorevole attaccò i nemici riportando una modesta vittoria il cui resoconto a Roma fu esagerato e spinse il tribuno Metilio ad accusare pubblicamente il dittatore di tradimento e di cospirazione per ottenere il potere. Fabio ignorò le accuse e dichiarò che avrebbe punito Minucio e Metilio arringò al popolo chiedendo che Fabio venisse deposto. Alla fine fu decretato di conferire la dittatura anche a Minucio, era la prima volta che Roma aveva contemporaneamente due dittatori.
Fabio Massimo trascurò l'offesa fatta alla sua persona e si preoccupò della situazione della guerra. Tornato al campo trovò Minucio trionfante per la sua nuova carica. Minucio propose di stabilire turni alterni di comando ma Fabio preferì cedergli il comando di due delle quattro legioni e di metà delle forze alleate. Minucio con la sua parte di armata andò ad accamparsi in una posizione separata, Annibale se ne accorse e durante la notte dispose strategicamente i suoi soldati occupando un poggio che dominava la valle. Al mattino Minucio attaccò i Cartaginesi che occupavano il poggio senza avvedersi dell'insidia che Annibale aveva preparato alle sue spalle. Le forze di Minucio si trovarono in breve circondate, molti furono uccisi, molti tentarono la fuga ma furono raggiunti e soppressi dai Numidi.
Fabio Massimo, che aveva tenuto d'occhio il poggio e le mosse del collega, intervenne con il suoi soldati al momento opportuno, prese alle spalle i nemici impegnati nel combattimento e ne uccise una parte. Anche Annibale aveva previsto come sarebbero andate le cose e richiamò i suoi prima di subire altre perdite.
Dopo la battaglia Minucio rese grazie a Fabio chiamandolo padre e riconoscendo il proprio errore mentre i suoi soldati abbracciavano quelli di Fabio loro salvatori. Fabio, comunque, depose la carica e si tornò ad eleggere i consoli. I primi due nominati proseguirono sulle orme di Fabio evitando la battaglia, fu quindi eletto Terenzio Varrone noto per la sua temerarietà, che subito arruolò tutta la gioventù romana disponibile, deciso a eliminare Annibale con un unico scontro. Fabio e molti altri Romani considerarono che se tutte le risorse arruolate da Varrone fossero perite per Roma sarebbe stata la fine.
Per prevenire il pericolo, Fabio riuscì a convincere Paolo Emilio, collega di Terenzio Varrone, a non combattere e attendere che Annibale, il quale ormai aveva solo un terzo degli uomini con cui era giunto in Italia, fosse costretto a arrendersi o a ripartire. Paolo Emilio evitò di combattere ma Varrone si affrettò a schierare l'esercito contro i Cartaginesi. Annibale, notando che i suoi erano spaventati dal gran numero dei nemici, trovò il modo di risollevare loro il morale con una facezia, quindi con grande abilità di spose le sue forze in modo da avere il vento alle spalle e di poter circondare i Romani quando questi penetrarono in profondità nel suo schieramento. Varrone si salvò fuggendo a Venosa mentre Paolo Emilio, coperto di ferite, ebbe modo di mandare un messaggio a Fabio Massimo perché sapesse che si era comportato secondo i suoi consigli, quindi cercò e trovò la morte tra le schiere nemiche.
I Romani persero cinquantamila uomini e molte migliaia di loro furono fatti prigionieri. Annibale, non se ne conosce la ragione, non approfittò della situazione per attaccare direttamente Roma.
Ora che le sue ragioni erano state dimostrate, Fabio Massimo fu di nuovo considerato l'unico possibile salvatore di Roma e tutti furono disposti (tardivamente) ad ascoltare i suoi consigli. Da parte sua Fabio tentò di fare in modo che il lutto non degenerasse in disperazione, evitò di celebrare le feste di Cerere che non si addicevano alla situazione e Fabio Pittore, parente di Fabio Massimo, fu inviato a Delfi a consultare l'oracolo. Il console Varrone tornò in città e, nonostante tutto, vi fu accolto onorevolmente.
La vittoria di Annibale aveva cambiato notevolmente le fortune dei Cartaginesi perché molte città del Meridione, fra cui Capua, si arresero spontaneamente e gli invasori ebbero disponibilità di derrate e di beni necessari come mai ne avevano avuta dal loro arrivo in Italia.
Incoraggiati dal fatto che Annibale non aveva attaccato Roma, i Romani si armarono di nuovo affidando il comando a Fabio Massimo e a Claudio Marcello. Questi, al contrario del collega, era ansioso di combattere, ma i due erano comunque legati da un forte rapporto di reciproca stima.
Fabio rimase fedele alla sua strategia evitando lo scontro diretto, mentre Marcello teneva Annibale continuamente in tensione con rapide azioni volte a indebolirlo progressivamente. Marcello provocava continue perdite ai Cartaginesi, Fabio impediva loro di riposare e riorganizzarsi. In questo stato di cose la guerra si protrasse tanto che Fabio e Marcello furono cinque volte consoli.
Durante il quinto consolato, Marcello cadde vittima di un agguato del nemico.
Annibale tentò con varie astuzie di catturare anche Fabio, ad esempio con false lettere tentò di fargli credere che la città di Metaponto voleva consegnarsi a lui per attirarlo in una trappola, ma non riuscì mai a ingannarlo.
I Cartaginesi occuparono la città di Taranto e Fabio riuscì a riprenderla con degli espedienti e con il tradimento di un ufficiale nemico amante della sorella di un romano.
Fabio celebrò il trionfo e fra i molti onori che decretarono per lui i Romani conferirono il consolato a suo figlio, anche egli di nome Fabio. Purtroppo quel figlio morì e Fabio ne lesse l'orazione funebre sopportando il lutto con grande dignità.
Dopo aver ottenuto grandi successi contro i Cartaginesi in Spagna, Cornelio Scipione tornò a Roma, ottenne il consolato, e decise di portare la guerra in Libia per costringere Annibale a lasciare l'Italia.
Fabio, forse per gelosia e invidia, si oppose al progetto e convinse il senato, ma non il popolo, ad ostacolare Scipione, fece anche pressioni su l'altro console, Crasso, ma infine ottenne soltanto di limitare le milizie affidate a Scipione per l'impresa africana.
Scipione partì e qualche tempo dopo giunsero a Roma ottime notizie sulle sue gesta, confermate da una gran quantità di spoglie nemiche. Mentre tutti inneggiavano a Scipione, Fabio consigliava di mandare in Africa chi lo sostituisse non essendo prudente contare troppo sulla fortuna di un solo uomo. Questa volta l'anziano consolare perse il favore del popolo, fu considerato invidioso e maligno e si disse che con la vecchiaia avesse perso il coraggio.
Anche quando Annibale tornò in Africa, Fabio continuò a fare fosche previsioni dicendo che il generale nemico sarebbe stato certamente più forte nel suo paese che non in Italia e che avrebbe avuto la meglio sull'esercito di Scipione già provato dalle battaglie precedenti. Scipione, contrariamente alle previsioni di Fabio, sconfisse Annibale ma Fabio non seppe di questa vittoria perché morì prima che la notizia giungesse in Italia.
Ciascun romano versò una piccola moneta per le esequie di Fabio in modo che fosse onorato come padre comune del popolo.

PARAGONE TRA PERICLE e FABIO MASSIMO

Pericle ebbe il vantaggio di governare un popolo già fortunato e potente, ebbe modo di celebrare feste e solennità invece di dover difendere la città con la guerra. Fabio invece visse in tempi difficili in cui la sua città correva grandi pericoli e partendo da una situazione negativa riuscì a soccorrere lo stato e a migliorarne la condizione pur lottando in uno scenario tragico e sanguinoso, non solo contro i nemici ma anche contro gli errori dei concittadini.
Pericle ebbe la capacità di frenare le insolenze e l'audacia di un popolo reso superbo dal benessere, Fabio la forza di non lasciarsi mai sopraffare dalle disgrazie e dai pericoli.
Plutarco paragona le conquiste di Pericle, Samo e l'Eubea, con quelle di Fabio Massimo, Taranto e Capua; Pericle innalzò nove trofei per altrettante vittorie mentre Fabio celebrò un solo trionfo, tuttavia Pericle non poteva vantare un'impresa paragonabile a quella compiuta da Fabio quando salvò Minucio e l'intero suo esercito. D'altra parte Pericle non incorse mai in un errore come quello di Fabio quando si lasciò ingannare da Annibale con lo stratagemma dei buoi.
Pericle seppe prevedere l'esito della guerra, non così Fabio che fu contraddetto dal successo di Scipione.
A Pericle si fa carico di aver provocato la guerra con la sua inflessibilità verso gli Spartani ma anche Fabio Massimo non avrebbe mai ceduto ai Cartaginesi. Fabio fu generoso e clemente con Minucio mentre Pericle perseguitò Cimone e Tucidide.
Dotato di maggior potere, Pericle riuscì ad evitare, con una sola eccezione, azioni avventate e pericolose dei comandanti, cosa che spesso non riuscì a Fabio con gravi conseguenze per i Romani.
Entrambi dimostrarono di non dare importanza alla ricchezza: Pericle non accettando alcun dono, Fabio Massimo riscattando i prigionieri a sue spese.
Per quanto riguarda le costruzioni di Pericle in Atene non c'è a Roma nulla di paragonabile prima dei Cesari.