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PLUTARCO

VITE PARALLELE

VITA DI TEMISTOCLE E CAMILLO


Temistocle


Temistocle era figlio di Neocle, che non era uno dei notabili di Atene: il suo demo era quello di Pftearrhioi, la tribu quella dei Leontidi. Sua madre era di "sangue misto", si chiamava Abrotono o, secondo altri, Euterpe e proveniva dalla Tracia o dalla Caria.
Fin da ragazzo, Temistocle dimostrò gli aspetti salienti del suo carattere: indole perspicace ed intelligenza pratica.
Faceva grande affidamenteo sul proprio intuito e ciò lo portò ad essere trascurato e superficiale negli studi, tanto che da adulto fu spesso oggetto di derisione da parte delle persone colte. Lo scrittore Stesimbroto narrava che Temistocle era allievo di Anassagora e di Melisso, ma Plutarco confuta questa affermazione per motivi cronologici. Certo invece è che quando già aveva preso ad occuparsi di politica fu suo maestro Mnesifilo, filosofo che professava quella che allora si chiamava la sapienza ed era la destrezza in politica e nell'intelligenza pratica.
Temistocle, più tardi, riconobbe di aver commesso in gioventù molti errori ed atti impulsivi dovuti al suo carattere ma osservava che anche i puledri più impetuosi diventano ottimi corsieri quando ricevono l'addestamento e la scozzonatura convenienti.
Plutarco respinge anche la notizia - che leggeva in alcune sue fonti - che Temistocle da giovane venisse diseredato dal padre, provocando un tale scandalo che la madre si uccise per il disonore.
Entrato in politica giovanissimo, Temistocle si scontrò presto con il rivale Aristide che, secondo Plutarco, aveva carattere opposto ed era particolarmente moderato. Quando Milziade ottenne il grande successo militare di Maratona contro i Persiani, Temistocle intuì che quella battaglia, lungi dall'essere la conclusione della guerra, era il preambolo di un più grande conflitto. Su questa previsione si concentrò e basò la linea della sua politica futura.
Temistocle convinse gli Ateniesi a rinunciare alla spartizione degli utili delle miniere del Laurio per destinarli alla costruzione di una flotta di triremi con la quale combattere contro Egina.
Secondo Plutarco, Temistocle riuscì a promuovere questa deliberazione perché in quegli anni (483 - 482 a.C.) il pericolo rappresentato dagli Egineti era più immediato e visibile, per gli Ateniesi, dell'eventualità di un attacco da parte persiana.
La legge navale voluta da Temistocle segnò la nascita della potenza marittima ateniese.
Temistocle era estremamente ambizioso e per rendersi popolare usava offrire dispendiosissimi banchetti e festini, pratica questa che finanziava con un'intensa e a volte spregiudicata attività di affarista. A proposito della liberalità di Temistocle, Plutarco racconta che fu corego (cioè finanziò la rappresentazione teatrale) per le Fenicie di Frinico nel 476, dramma politico dedicato alla battaglia di Salamina.
Quando infine i Persiani cominciarono a pretendere la sottomissione delle città greche, Temistocle che reggeva quell'anno la carica di arconte (481 a.C.) portò avanti con estrema decisione il suo programma politico respingendo da un lato le richieste dei Persiani e adoperandosi dall'altro perché le città greche - accantonando le proprie contese - facessero fronte comune.
Temistocle partecipò ad una spedizione a Tempe, per presidiare l'ingresso in Tessaglia contro la penetrazione persiana via terra, quindi guidò la flotta ateniese all'Artemisio per sorvegliare gli stretti. In questa operazione Atene aveva conferito il maggior numero di navi (centoquaranta su duecentoottanta, stando a Diodoro) ma Temistocle, diplomaticamente, lasciò il comando al navarco spartano Euribiade per evitare che contrasti con Sparta indebolissero la coesione dei Greci di fronte ai Persiani. Plutarco parla qui di un episodio di corruzione: Temistocle avrebbe accettato denaro dagli abitanti di Eubea per garantire loro particolare protezione e lo avrebbe girato ad Euribiade. Lo stesso episodio è riportato da Erodoto, ma questo afferma che Temistocle tenne per se la maggior parte del denaro.
Gli scontri all'Artemisio non portarono a risultati particolarmente significativi, tuttavia furono una preziosa occasione per gli Ateniesi di esperienza nei combattimenti navali.
Quando giunse la notizia della battaglia delle Termopili (agosto 480 a.C.) e della caduta in mano persiana dei pozzi sulla terraferma, la flotta ripiegò verso l'interno della Grecia. Durante il viaggio Temistocle fece propaganda presso le colonie della Ionia perché prendessero posiziona contro i Persiani.
In generale i Greci non trovarono la forza e la coesione necessarie per affrontare il grande esercito di Serse e gli Ateniesi si trovarono presto isolati. Per fronteggiare questa situazione, Temistocle propose ai concittadini di evacuare la città e di prepararsi a combattere in mare. Per far approvare la proposta non esitò a ricorrere a metodi spregiudicati e a far leva sulla religione e sulle superstizioni: strumentalizzando opportunamente l'interpretazione degli oracoli e dei presagi, riuscì a convincere gli Ateniesi che gli dei volevano che la città venisse abbandonata.
Gran parte della cittadinanza si trasferì dunque a Trezene, dove venne accolta con grande generosità (secondo altri autori, fra cui Diodoro, la popolazione fu smistata anche in altre località come Egina e Salamina).
Temistocle promosse un decreto per riammettere gli esiliati, fra i quali Aristide che proprio per sua istigazione era stato ostracizzato circa due anni prima. Secondo Plutarco, Temistocle propose questa sorta di aministia generale per evitare che gli esuli si associassero ai Persiani.
Quando i Greci si trovarono di fronte alla vastissima flotta persiana mentre lo sterminato esercito di Serse procedeva indisturbato nell'entroterra, furono colti dal panico e molti decisero di tentare la fuga. Qui Temistocle operò la più spericolata delle sue manovre: inviò un certo Sicinno, precettore dei suoi figli, in ambasceria segreta presso Serse ad avvertirlo che i Greci stavano preparando una ritirata. Fingendo di essere passato al nemico, Temistocle consigliava a Serse di attaccare immediatamente le navi greche, senza dar loro il tempo di preparare una difesa e di ricevere soccorso da terra. (Questo espisodio è considerato da molti critici moderni una pura invenzione, anche se Plutarco non è il solo autore a farne menzione).
Quando i Greci, la cui flotta era radunata presso Salamina, si trovarono accerchiati dalle navi persiane, non ebbero altra via di scampo che il combattimento. In quell'occasione anche Aristide, rientrato dall'esilio in forza del decreto di cui sopra, prestò a Temistocle il supporto del suo aiuto e del suo prestigio personale.
Le navi ateniesi erano centoottanta, ciascuna imbarcava diciotto uomini (quattordici opliti e quattro arcieri), le navi persiane erano invece milleduecentosette. A vantaggio dei Greci giocavano la migliore governabilità delle loro triremi e la conoscenza del luogo che consentiva loro un miglior sfruttamento dei venti. Gli scontri durarono tutto il giorno ed alla fine il coraggio degli Ateniesi e l'abilità di Temistocle permisero di portare a termine la più splendida impresa che Greci o barbari abbiano mai compiuto in mare.
Dopo la vittoria ateniese, Serse continuava a trattenersi in Grecia, facendo nuovi tentativi di attacco via terra. Fra i Greci si discusse se tagliare il ponte di barche costruito da Serse sull'Ellesponto, intrappolando in questo modo le forze persiane in Europa, oppure - al contrario - agire in modo da provocare la più rapida ritirata di Serse in Asia.
Il racconto di questa discussione è riportato da molte fonti anche se variano i nomi e le posizioni degli interlocutori. In Plutarco è Aristide ad auspicare la ritirata persiana davanti a Temistocle che aveva proposto, ma solo per provocazione, il taglio del ponte. Viene inoltre inserito un altro episodio di dubbia storicità in cui Temistocle invia di nuovo un messaggero a Serse per "consigliargli" di lasciare l'Europa, avvertendolo che i Greci tramavano di intrappolarlo all'Ellesponto. Di fatto l'esercito persiano tornò a casa e Temistocle ricevette grandi onori dai suoi concittadini ed anche dagli Spartani.
Atene fu ripopolata e Temistocle pose immediatamente mano alla sua ricostruzione ed alla sua fortificazione. Come racconta anche Tucidide, in questo periodo Temistocle intratteneva difficili relazioni diplomatiche con gli Spartani che non vedevano di buon occhio la costruzione delle mura di Atene.
Venne attrezzato il porto del Pireo (la cui costruzione era in realtà iniziata alcuni anni prima) con il progetto di congiungere l'intera città al mare. La politica di Temistocle rivolta al mare e le sue conseguenze sull'economia giocarono a favore delle classi popolari mentre l'aristocrazia rimaneva tradizionalmente legata all'agricoltura.
Ben presto, mentre il tempo diluiva il ricordo glorioso di Salamina, vari detrattori presero ad infangare la reputazione di Temistocle. Per diversi motivi egli era avversato dagli Spartani, dei quali cercava di contenere l'influenza e l'autorità, e in Atene contava parecchi antagonisti. Plutarco ricorda gli attacchi verbali mossi contro Temistocle dal poeta Timocreonte, del quale riporta alcuni frammenti. Timocreonte era stato esiliato da Atene perché sospettato di simpatie persiane, pare, e Temistocle era stato fra i promotori della sua condanna.
Questa situazione culminò con l'ostracismo subito da Temistocle per soffocare il prestigio e la supremazia di cui godeva.
Plutarco sostiene che l'ostracismo non era una vera punizione ma era una misura necessaria contro tutti coloro la cui potenza era giudicata oppressiva e sproporzionata rispetto all'uguaglianza democratica.
Temistocle, esiliato, si trasferì ad Argo ma i suoi nemici continuarono ad agire contro di lui e quando il re spartano Pausania fu processato e condannato a morte per aver stretto rapporti segreti con i Persiani, Temistocle venne coinvolto a causa di certe sue lettere che furono ritrovate presso Pausania. Secondo Plutarco è vero che Temistocle ricevette proposte compromettenti da Pausania, ma le avrebbe respinte rifiutando di partecipare ad un tradimento ai danni della Grecia.
Temistocle cercò di difendersi scrivendo lettere, ma quando seppe che ad Atene era stato deciso il suo arresto lasciò Argo e rifugiò a Corcira. I Corciresi avevano verso Temistocle un debito di gratitudine in quanto anni prima, chiamato a far da giudice in una disputa fra Corcira e Corinto per il possesso di Leucade, egli li aveva agevolati comminando un risarcimento ai Corinzi. Dopo una breve sosta, comunque, Temistocle lasciò Corcira e fuggì in Epiro, presso Admeto re dei Molossi. Fra Temistocle ed Admeto non correva buon sangue in quanto, ai tempi della sua potenza, Temistocle aveva respinto una richiesta di aiuto che Admeto aveva rivolto agli Ateniesi. Tuttavia, ricorrendo ad un rituale antico e consolidato presso i Molossi, Temistocle prese in braccio il figlioletto del re e si inginocchiò in atteggiamento da supplice. Davanti a questo comportamento Admeto, per motivi religiosi, fu costretto ad accordare protezione al supplice. Questo episodio è ricordato anche da Tucidide che, come Plutarco, precisa che fu probabilmente la moglie di Admeto a consigliare Temistocle istruendolo sui particolari del rituale.
Mentre soggiornava presso Admeto, Temistocle fu raggiunto dalla moglie e dai figli che avevano potuto lasciare Atene grazie all'aiuto dell'amico Epicrate di Acarnania al quale, più tardi, Cimone farà pagare con la vita questa azione. Il pellegrinaggio di Temistocle continuò a lungo con varie tappe più o meno precisamente testimoniate dalle fonti di Plutarco il quale non manca di esprimere le proprie perplessità in merito.
Giunse infine in Asia Minore dove fu per qualche tempo ospite del ricco Nicogene (in altre fonti il personaggio ha il nome di Lisitide), in questo periodo un sogno premonitore convinse Temistocle a cercare definitivo rifugio in Persia, presso i suoi antichi nemici.
Giunto in Persia, Temistocle chiese udienza al re. Se si trattasse di Serse o di suo figlio Artaserse era questione già dubbia e discussa nell'antichità, tanto che Plutarco non prende posizione e precisa le fonti dalle quali poteva leggere l'una o l'altra versione.
Con grande audacia ed abilità, Temistocle riuscì ad ottenere il rispetto prima e la fiducia poi del re persiano. Chiese ed ottenne un anno di tempo per imparare la lingua e le usanze dei Persiani, quindi divenne influente presso la corte tanto che gli furono assegnate le rendite di tre città: Magnesia, Lampsaco e Miunte. Questi successi attirarono su Temistocle l'invidia e l'odio di molti notabili persiani e Plutarco racconta come Temistocle sfuggì per caso (o per un altro sogno premonitore) ad un agguato mortale.
Stabilitosi a Magnesia, Temistocle vi visse a lungo in serenità e prosperità mentre il re, impegnato in problemi interni, poco si occupava dei rapporti con la Grecia. Quando però la rivolta egiziana contro la dominazione persiana fu sostenuta dagli Ateniesi e Cimone cominciò a riaffermare la supremazia greca sul mare, i Persiani decisero di riaprire le ostilità e a Temistocle venne ordinato di mettere mano agli affari della Grecia e di attuare le promesse da lui fatte.
Temistocle non volle scendere in guerra contro i propri concittadini e decise di suicidarsi. Secondo una tradizione che Plutarco cita con perplessità, lo fece bevendo sangue di toro (ritenuto letale dagli antichi), comunque morì di veleno all'età di sessantacinque anni. Il re ammirò la fatale decisione di Temistocle che ebbe un bel monumento funebre sulla piazza di Magnesia ma alcune fonti sostennero che le sue ceneri fossero successivamente trafugate dagli Ateniesi e riportate in patria, oppure disperse. Suggestiva l'ipotesi che Plutarco riprende da Diodoro il Periegeta, per cui i resti di Temistocle sarebbero in un basamento a forma di altare nel grande porto del Pireo.


Camillo


Furio Camillo ricoprì molte cariche pubbliche, fu cinque volte dittatore e gli venne tributato il titolo di "secondo fondatore di Roma" ma non ebbe mai la carica di console. Le ragioni sono da ricercarsi nella particolare situazione politica dell'epoca: la plebe stava combattendo in quegli anni per ottenere l'accesso alla massima magistratura dello Stato, il consolato era ancora prerogativa dei patrizi. Tuttavia i patrizi, a causa delle contingenti attività militari contro Veienti, Equi e Volsci, decisero di conferire poteri consolari ai tribuni militari, poiché questa carica poteva essere rivestita anche dai plebei, la deliberazione servì a mitigare le tensioni sociali.
La Gens Furia, il casato di Camillo, non era molto illustre ed egli conquistò con le proprie risorse il prestigio personale a cominciare da quando, giovanissimo, partecipò alla battaglia del Monte Algido, sotto il dittatore Aulo Postumio Tuberto compiendo atti di eroismo che gli arrecarono molti onori fra cui l'elezione alla carica di censore. (La cronologia proposta da Plutarco è discussa. Dai Fasti, infatti, risulta che Camillo fu censore nel 403 a.C., ventotto anni più tardi della battaglia. Del resto all'epoca della battaglia (431 o 432 a.C.) Camillo doveva avere circa sedici anni e la carica di censore era di solito ricoperta da uomini maturi, spesso ex consoli.).
Come censore Camillo prese due provvedimenti particolari: la tassa sul celibato per indurre i celibi a sposare le vedove rese molto numerose dalle frequenti guerre e l'abrogazione delle esenzioni fiscali di cui godevano gli orfani, provvedimento quest'ultimo reso necessario dagli alti costi della guerra contro i Veienti.
Ricca e potente città etrusca, da sempre avversaria dei Romani, Veio era da anni assediata. L'esercito romano, in questa occasione, aveva dovuto cambiare abitudini passando dalle consuete e rapide campagne estive ad un lungo assedio che proseguiva durante l'inverno. Al settimo anno di assedio il Senato destituì i comandanti risultati inabili a concludere la guerra rapidamente e ne nominò anticipatamente di nuovi, fra cui Camillo, allora tribuno militare.
Tuttavia a Camillo toccò in sorte di agire non contro Veio, ma contro Falerii e Capenati i quali, approfittando della situazione avevano più volte violato il territorio romano.
In quell'anno (399 a.C., ma 389 a.C. in altre fonti) le acque del lago Albano strariparono: verificandosi in un periodo di siccità il fenomeno fu considerato un prodigio originato dalla volontà degli dei.
Un aruspice veiente catturato dai Romani svelò un antico presagio secondo il quale Veio non sarebbe caduta finché le acque del lago Albano non fossero state canalizzate. Il Senato inviò una delegazione a Delfi per consultare l'oracolo il quale confermò il vaticinio dell'indovino prigioniero aggiungendo che la tracimazione del lago era una punizione per i Romani che, impegnati nell'assedio di Veio, avevano trascurato alcuni riti religiosi. (Poiché il lago Albano e la città di Veio sono piuttosto lontani non è chiaro il nesso fra lo straripamento dell'uno e la caduta dell'altra. La critica moderna ritiene che si tratti della contaminazione fra due diverse tradizioni. Inoltre il racconto dell'indovino catturato e dell'espiazione necessaria per la vittoria presentano analogie con alcuni episodi omerici come la cattura di Eleno che svela le segrete profezie di Troia)
. Al decimo anno di guerra il Senato decise di sospendere tutte le magistratire e di nominare Camillo dittatore. Camillo scelse come comandante della cavalleria Cornelio Scipione quindi fece voto di celebrare i "ludi magni" e di erigere un tempio alla Mater Matuta in caso di vittoria. Prima di attaccare Veio, Camillo sconfisse definitivamente Falerii e Capenati. Preso atto delle difficoltà dell'assedio Camillo ordinò di scavare cunicoli sotterranei per penetrare di nascosto all'interno della città. La tradizione narra, ma Plutarco esprime la propria perplessità, che i soldati romani uscirono dal cunicolo proprio all'interno di un tempio dove il re dei Veienti stava celebrando un sacrificio. Veio fu comunque espugnata e dal suo saccheggio i Romani ricavarono un ricco bottino.
Camillo decise di trasferire a Roma la statua di Giunone che si trovava nel più importante tempio di Veio. Si narravano diversi prodigi, in merito all'episodio, tramite i quali la dea avrebbe espresso il suo assenso. Plutarco, pur osservando che la rapida ascesa di Roma deve aver incontrato il favore degli dei, invita alla prudenza nel valutare i prodigi e, in generale, le cose divine.
Il successo conseguito e la lode generale stimolarono l'orgoglio di Camillo che volle per se un trionfo fastoso, su una quadriga di cavalli bianchi, questa ostentazione danneggiò pericolosamente la sua popolarità. Contribuirono inoltre a renderlo inviso alla popolazione le sue esitazioni in merito alla spartizione del bottino e alla proposta di trasferire a Veio una parte della popolazione.
Il contegno di Camillo fu ambiguo ed irritante anche in un'altra occasione: dopo aver spartito il bottino egli "ricordò" di aver fatto voto di inviare un donativo al santuario di Apollo Delfico in caso di vittoria. Il Senato fu costretto ad imporre ai soldati la restituzione di una parte di quanto avevano ricevuto (provvedimento che ovviamente risultò molto impopolare).
Le donne romane offrirono spontaneamente i loro ornamenti d'oro per inviare un donativo a Delfi. La nave della delegazione romana che doveva portare l'offerta al Santuario patì numerose vicissitudini e finì per essere catturata dagli abitanti delle Isole Eolie che ritenevano si trattasse di una nave pirata. Risolse la situazione lo stratego di Lipari, che fece scortare a destinazione la nave romana.
Trascorso del tempo (394 a.C.) i Falisci riaprirono le ostilità e Camillo fu eletto tribuno militare per la terza volta, in considerazione del suo prestigio e della sua esperienza. Camillo attaccò la città di Falerii (Civita Castellana) e la cinse di assedio. Qui Plutarco racconta un episodio che, sia pur privo di fondamento storico, fu a lungo usato come "exemplum" di lealtà dagli oratori romani. Un abitante di Falerii, precettore dei giovani, consegnò a Camillo i suoi allievi perchè li usasse come ostaggi. Camillo, inorridito da un simile tradimento, rifiutò l'offerta, rimandando in città i ragazzi e facendo loro trascinare l'infedele precettore denudato e flagellato. Colpiti dalla lealtà del nemico, i Falisci si arresero, subirono solo un lieve tributo e divennero alleati dei Romani. In realtà la guerra con Falerii si concluse in modo incruento con la resa dei Falisci.
Il mancato saccheggio di Falerii non piacque al popolo, così come l'opposizione di Camillo al progetto di trasferire parte della popolazione a Veio e, nonostante la gloria delle sue imprese ed il lutto che aveva colpito la sua casa per la perdita di un figlio, Camillo divenne molto impopolare (i fatti narrati in questa parte del racconto sono però di origine tradizionale e la loro storicità è molto discussa anche perché non trovano concordanti le varie fonti antiche). Infine, quando stava per essere sottoposto ad un processo perché ingiustamente accusato di essersi appropriato di una parte del bottino di Veio, Camillo decise di lasciare Roma e partire in esilio volontario (391). Vuole la tradizione che Camillo, partendo, scagliasse una maledizione contro la patria ingrata, maledizione che molti associarono alla tragica invasione dei Galli che seguì di lì a poco.
Non fu invece preso in considerazione il racconto di un plebeo di nome Marco Cedicio che riferì di essersi sentito chiamare da una voce misteriosa mentre camminava in strada di notte e disse che la voce gli aveva ordinato di avvertire i tribuni che i Galli stavano per arrivare.
I Galli (che Plutarco definisce "celti di razza" mentre altri autori consideravano celti e galli come sinonimi) cominciarono ad espandersi ed emigrare perché la loro terra era diventata insufficiente. Una parte di loro si diresse nel Nord Europa, un'altra si stabilì ad est dei Pirenei (Francia Meridionale). Plutarco riporta il racconto tradizionale secondo il quale i Galli si spinsero in Italia dopo aver scoperto il vino. A farglielo assaggiare fu un etrusco di nome Arunte, in cerca di vendetta per essere stato costretto a lasciare la sua città dalle trame del pupillo e della moglie adultera.
Superate le Alpi, i Galli invasero la Padania venendo in conflitto con gli Etruschi e conquistando molte delle loro città.
Quando i Galli arrivarono a Chiusi, gli abitanti di questa città chiesero aiuto ai Romani. Il Senato inviò una delegazione formata da tre membri della famiglia dei Fabii a parlamentare con gli assedianti, ma il re dei Galli Brenno non accettò trattative. Gli ambasciatori romani si unirono quindi ad una sortita dei Chiusini contro gli assedianti ed uno di loro, Quinto Fabio Ambusto, fu riconosciuto mentre duellava con un gallo. Brenno sfruttò l'episodio per aprire le ostilità con Roma ed inviò ambasciatori a chiedere soddisfazione per la violazione del "diritto delle genti" che Fabio Ambusto aveva commesso impugnando le armi nel corso di una missione diplomatica. A Roma si discusse sul da farsi, alcuni proposero di consegnare Fabio Ambusto ai Galli o di offrire loro un risarcimento in denaro, ma l'assemblea popolare stabilì di respingere la richiesta, anzi Ambusto e i suoi fratelli furono nominati tribuni militari. A queste notizie i Galli mossero contro Roma e poiché i Romani avevano preparato la difesa con molta negligenza furono tragicamente sconfitti sulle sponde del fiume Allia (390 a.C.). Per fortuna dei Romani, i Galli si lasciarono prendere dall'euforia della vittoria, si accontentarono di saccheggiare il campo nemico e lasciarono agio alla popolazione rimasta in città di rifugiarsi sul Campidoglio, al riparo delle fortificazioni.
Vestali e sacerdoti portarono in salvo molti oggetti sacri custoditi nei templi. Qui Plutarco ricorda alcuni episodi tradizionali di carattere eroico riportati anche da molte altre fonti: la pietà del popolano Lucio Albinio che cedette il proprio carro alle vestali e le aiutò a mettersi in salvo con gli arredi sacri, la descizione degli anziani rimasti nel foro dopo aver fatto voto della propria vita per la salvezza della città e dei concittadini.
Tre giorni dopo la battaglia dell'Allia l'esercito dei Celti entrò in Roma, trovandola indifesa e quasi disabitata ad eccezione della rocca capitolina. I Galli trucidarono gli anziani che erano rimasti nel foro (anche Plutarco ricorda l'episodio del barbaro che tirò la barba ad un senatore che reagì colpendolo con un bastone, il che scatenò l'eccidio), quindi si dettero a devastare ed incendiare abitazioni, templi e monumenti, esasperati dalla tenace resistenza dei Romani asserragliati sul Campidoglio.
Di tanto in tanto i Galli inviavano contingenti a razziare le campagne e le città limitrofe. Un nutrito gruppo di loro si spinse fino alle porte di Ardea dove Camillo, esule, viveva da privato cittadino. Ma Camillo, appresa la notizia del sacco di Roma, aveva organizzato un esercito di volontari ardeatini con il quale attaccò di notte il campo dei razziatori galli e ne fece strage.
I reduci dell'Allia e quanti erano riusciti a fuggire da Roma rifugiandosi a Veio, chiesero a Camillo di assumere il comando ma egli disse che avrebbe rifiutato se non fosse stato nominato ufficialmente dai senatori assediati sul Campidoglio. Un giovane plebeo di nome Ponzio Cominio (il suo nome varia in altre fonti) si sobbarcò la pericolosa impresa di penetrare nottetempo nel Campidoglio eludendo la sorveglianza dei Galli e portare la proposta agli assediati. I senatori deliberarono immediatamente di conferire la dittatura a Camillo e rimandarono indietro il messaggero.
Ottenuta la carica, Camillo radunò un esercito di oltre ventimila uomini fra Romani ed alleati e si preparò ad attaccare. Nel frattempo i Galli avevano notate le impronte e le tracce che Cominio aveva lasciato scalando la rocca capitolina ed avevano deciso di tentare un assalto passando per la stessa strada. Il tentativo fu sventato dagli schiamazzi delle famose oche sacre del tempio di Giunone, che svegliarono i Romani assediati. Fra i difensori si distinse l'ex-console Marco Manlio.
Il protrarsi dell'assedio creò grandi difficoltà anche ai Galli che non potevano più razziare la campagna a causa della sorveglianza di Camillo e, accampati fra le macerie ed i cadaveri, venivano decimati da una grave pestilenza.
Si venne infine ad un patto per cui i Galli avrebbero tolto l'assedio dietro il pagamento di un compenso in oro, ma al momento della pesa dell'oro i Galli bararono con grande arroganza (in questa occasione Brenno avrebbe pronunciato la famosa frase "Guai ai vinti"). Proprio mentre si effettuava il pagamento del riscatto sopraggiunse Camillo ed invalidò l'accordo dichiarandolo privo di valore in quanto era stato concluso in sua assenza, dunque senza il consenso della massima autorità dello Stato. (La critica moderna ritiene che lo spettacolare intervento di Camillo fu inventato dalla tradizione antica per addolcire il ricordo bruciante dell'onta subita dai Romani con il pagamento del riscatto).
L'esercito di Camillo mise in fuga i Galli che si accamparono fuori dalla città, Il mattino seguente Camillo li raggiunse e li sconfisse duramente. Molti Galli fuggirono ma furono sterminati dagli abitanti dei villaggi della zona, Roma veniva così liberata dopo sette mesi di assedio.
Camillo celebrò naturalmente il trionfo ma l'astio dei suoi avversari non tardò a farsi nuovamente sentire. La ricostruzione della città devastata dall'assedio comportava gravissimi sacrifici e l'idea di trasferire la popolazione a Veio tornò quindi di grande attualità, Camillo fu fra quanti la ostacolarono, come ricorda anche Livio, e con l'appoggio del Senato riuscì a convincere la popolazione a rimanere sul posto e a lavorare con grande impegno alla ricostruzione.
Non molto tempo dopo i Romani si trovarono nuovamente in guerra con Equi, Volsci e Latini, nonché con gli Etruschi che avevano assediato la città di Sutri, così Camillo fu eletto dittatore per la terza volta. Arruolando gli anziani ancora validi, Camillo condusse nel 389 una guerra rapida, battendo Volsci e Latini al Monte Mecio e liberando Sutri dall'assedio etrusco. Camillo celebrò un altro trionfo, aumentando ancora il suo prestigio ma anche l'invidia degli avversari. Fra questi era quel Marco Manlio che dopo aver difeso eroicamente la rocca contro i Galli era stato chiamato "Capitolino". Geloso del successo di Camillo ed assetato di potere, costui tentò di guadagnare l'appoggio popolare difendendo gli indigenti e sobillandoli alla rivolta: finì per essere processato e, nonostante il ricordo dei suoi meriti, giustiziato sul Campidoglio.
Tribuno militare per la terza volta nel 381, Camillo, benché ormai anziano, dovette combattere ancora contro Prenestini e Volsci e grazie alla sua esperienza riuscì a riportare altre vittorie nonostante la difficile situazione che il suo collega Lucio Furio Medullino aveva provocato con giovanile avventatezza. Risolse inoltre in maniera incruenta la defezione di Tuscolo i cui abitanti si arresero spontaneamente, timorosi del potere e del prestigio del generale romano.
Nel 376 Camillo fu nominato dittatore per la quarta volta con lo scopo di reprimere i disordini nati dalle proposte di legge avanzata da Caio Licinio Stolone, tese a limitare la potenza dei patrizi. Restio a combattere contro i propri concittadini, Camillo - con il pretesto delle precarie condizioni di salute - rassegnò le dimissioni. Seguì un periodo di anarchia in quanto i moti popolari impedivano le elezioni dei consoli.
Nel 367 a.C. giunse la notizia che i Galli si erano nuovamente mobilitati e, dalle regioni costiere dell'Adriatico, marciavano verso Roma. Camillo combattè contro i Galli nella battaglia svoltasi sull'Aniene (nel territorio di Alba per altre fonti) e utilizzando nuove tecniche di combattimento mise definitivamente in fuga gli invasori barbari.
Conclusa questa, che fu la sua ultima campagna militare, Camillo fu ancora coinvolto nei contrasti politici che nascevano dalla richiesta popolare di accesso dei plebei alla carica di console e rischiò di essere imprigionato dai tribuni della plebe. Quando finalmente la legge venne approvata, Camillo presiedette alle elezioni consolari in cui la prima volta fu fatto console un plebeo.
Camillo morì l'anno seguente (365), vittima di una grande pestilenza che colpì gran parte della cittadinanza, aveva ottantadue anni.