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APPIANO DI ALESSANDRIA

STORIA ROMANA - DELLE GUERRE CIVILI DEI ROMANI

LIBRO I



Nei tempi antichi le discordie fra senato e popolo non erano mai sfociate nella guerra civile, ma al massimo in episodi come la secessione della plebe sul Monte Sacro.
Più avanti si verificò la vicenda di Coriolano che esiliato ingiustamente si alleò con i Volsci contro Roma.
Fu dall'uccisione di Tiberio Gracco che gli episodi di violenza fra concittadini divennero eventi comuni. Gli avversari politici divennero veri e propri nemici e le loro guerre divennero guerre contro la patria e provocarono stragi spietate.
Circa cinquanta anni dopo la morte di Gracco, Silla si proclamò dittatore a vita. In apparenza era stato eletto ma di fatto si era impadronito del potere con la violenza. Quando inaspettatamente depose la dittatura e si ritirò a vita privata tutti erano stupefatti e nessuno gli arrecò offesa, forse per timore, forse per ammirazione.
Morto Silla, Cesare governò a lungo le Gallie che aveva conquistato ma quando il senato gli ordinò di congedare le sue legioni Cesare pose come condizione che anche Pompeo venisse disarmato. Non ottenendolo scese in Italia per attaccare Pompeo il quale fuggì, fu raggiunto in Tessaglia e sconfitto nella grande battaglia di Farsalo.
Cesare inseguì Pompeo in Egitto ma qui trovò che era già stato ucciso e, dopo aver regolato le questioni di quel paese, tornò a Roma dove ebbe la dittatura a vita come Silla.
Sotto il suo governo cessarono tutte le contese finché una congiura guidata da Bruto e Cassio non eliminò il dittatore.
Ripresero le discordie e tre uomini divisero fra loro il potere: Antonio, Lepido e Ottaviano figlio adottivo di Cesare. Presto Ottaviano eliminò Lepido, quindi Antonio nella battaglia di Azio e assunse il potere assoluto con l'appellativo di Augusto.
Dopo questo breve riepilogo, Appiano specifica che dividerà le guerre civili in tre periodi: da Tiberio Gracco alla morte di Silla il primo, la guerra fra Cesare e Pompeo il secondo, ascesa di Augusto il terzo. Ed inizia la narrazione in dettaglio delle iniziative di Tiberio Sempronio Gracco il quale, come tribuno della plebe, proponeva che si riportasse in vigore con alcuni emendamenti l'antica legge di Gaio Licinio Stolone che limitava la quantità di terreno che era consentito possedere ed imponeva che una parte della manodopera fosse di condizione libera. Questi provvedimenti andavano soprattutto in favore degli Italici che alla lunga si erano visti privare della loro terra dagli investitori romani e del loro lavoro a causa della grande disponibilità di schiavi conseguente alle molte guerre esterne.
Gracco era quasi riuscito a far approvare la legge proposta quando il tribuno Marco Ottavio, che aveva grandi possedimenti da perdere, oppose il suo veto. La disputa fra i due tribuni suscitò disordini. Gracco accettò di discutere di fronte al senato ma poiché molti senatori, essendo possidenti, gli erano ostili deferì Ottavio ai comizi sostenendo che un tribuno della plebe che si oppone alla plebe non può mantenere la carica.
Il voto che seguì tolse il tribunato a Marco Ottavio il quale uscì di scena e venne sostituito da Memmio. La legge fu approvata ed il compito di metterla in pratica fu affidato a Tiberio, a suo fratello Caio e a suo suocero Appio Claudio.
Quando fu prossima la scadenza del suo tribunato, Tiberio Gracco che era consapevole dei rischi che avrebbe corso tornando ad essere un privato cittadino fece di tutto per farsi rieleggere e di nuovo scoppiarono tumulti fra i suoi sostenitori e i suoi avversari.
Scipione Nasica si pose alla testa degli avversari di Gracco che affrontarono i seguaci del tribuno sul Campidoglio. Negli scontri che seguirono persero la vita molte persone fra cui lo stesso Tiberio Gracco. La sua morte, avvenuta mentre era ancora tribuno, fu l'inizio di una lunga serie di omicidi politici.
Morì anche Appio Claudio e il compito di assegnare le terre fu affidato a Fulvio Flacco, Papirio Carbone e ancora Caio Gracco. Ma l'applicazione della legge era difficile e provocava molte dispute, si ricorse perciò a Scipione Emiliano pregandolo di dirimere la difficile situazione. Scipione non voleva abrogare la legge di Gracco, quindi propose che il console Tuditano fosse incaricato di giudicare nei processi provocati dalla ripartizione dei terreni. Tuditano non gradì l'incarico e se ne liberò con il pretesto di una spedizione militare.
Mentre cercava un'altra soluzione, Scipione fu trovato morto senza ferite, forse suicida, forse avvelenato da parenti, forse soffocato da ignoti. Dopo la morte di Scipione, Caio Gracco si presentò come candidato al tribunato e riscosse tantissimi consensi, al punto che poco dopo la nomina la sua carica venne confermata anche per l'anno successivo.
Un importante successo del tribuno Caio Gracco fu il trasferimento dei tribunali dall'ordine senatorio a quello equestre per arginare l'enorme corruzione delle attività forensi. Il senato, tuttavia, con opportune concessioni alla plebe riuscì a far diminuire il favore popolare di cui Gracco godeva, quindi affidò allo stesso Gracco e al collega Fulvio Flacco il compito di dedurre una nuova colonia in Africa sul sito di Cartagine.
I due tribuni avviarono la fondazione ma quando rientrarono a Roma il senato fermò il progetto con il pretesto di cattivi presagi provocando gravi disordini. Gracco e Flacco occuparono il Tempio di Diana sull'Aventino ma quando il console Opimio mandò i soldati contro di loro Gracco si fece uccidere da un servo. Poco dopo anche Flacco perse la vita ucciso dai soldati del console, le case dei due tribuni furono saccheggiate e i loro seguaci furono arrestati e strangolati.
In quel periodo Lucio Apuleio Saturnino e Gaio Servilio Glaucia tentarono di farsi eleggere rispettivamente tribuno della plebe e console ma al tribunato fu eletto Appio Nonio che subito dopo venne ucciso dai sicari di Apuleio e Glaucia.
I sostenitori di Apuleio si riunirono all'alba per nominarlo tribuno al posto di Nonio prima che il popolo si riunisse. Apuleio propose che il bottino conquistato ai Cimbri fosse distribuito ai veterani di Mario aggiungendo una clausola che obbligava i senatori a giurare di applicare la legge stessa. La situazione si fece pericolosa, i senatori non volevano giurare ma Mario per evitare una rivolta li spinse a farlo contando di poter presto invalidare la legge in quanto imposta con la forza. I più accettarono ma il senatore Quinto Cecilio Metello persistette nel rifiuto e venne esiliato da Glaucia e Apuleio nonostante l'opposizione degli altri senatori.
Quanto a Glaucia, trovandosi a competere per il consolato del 99 a.C. con Gaio Memmio, lo fece uccidere davanti alla folla. Scoppiarono nuovi tumulti e Glaucia e Apuleio ripararono sul Campidoglio ma Mario li catturò su ordine del senato e li rinchiuse nella curia dove poco dopo vennero trucidati dal popolo.
Il tribuno Publio Furio si oppose a quanti volevano richiamare dall'esilio Metello, insensibile anche alle preghiere del figlio dell'esule che per l'amore filiale dimostrato in quell'occasione ebbe il soprannome di Pio. L'anno successivo Furio fu ucciso dal popolo e Metello riammesso in città. Si concluse così la sedizione di Metello, la terza dopo quella dei Gracchi.
Appiano passa a parlare della guerra sociale indicandone l'origine ai tempi del consolato di Fulvio Flacco (125 a.C.) il quale da console prima e da tribuno poi promosse la concessione della cittadinanza agli Italici. Dopo la morte di Flacco e di Caio Gracco prese a difendere la causa degli Italici Livio Druso, tribuno della plebe nel 91 a.C., il quale propose di raddoppiare gli effettivi del senato aggiungendovi trecento cavalieri e di restituire ai senatori le funzioni di giudici che erano state recentemente trasferite all'ordine equestre. La proposta scontentò sia gli aristocratici, sia i cavalieri attirando su Druso l'odio di tutte le forze conservatrici.
Druso venne assassinato, tutte le sue riforme furono abrogate e i suoi sostenitori furono processati. Alcuni integerrimi cittadini, indignati per le accuse che venivano rivolte loro, andarono volontariamente in esilio.
Quando la notizia della morte di Druso si diffuse in Italia le popolazioni che vedevano così svanire ogni speranza di ottenere la cittadinanza romana decisero di ribellarsi. La prima rivolta scoppiò a Ascoli, dove il proconsole romano (Quinto Servilio) e il suo legato (Gaio Fonteio) vennero uccisi, e presto dilagò fra i popoli vicini fino a interessare tutta l'Italia centro-meridionale.
Il senato rifiutò ogni trattativa se prima gli Italici non avessero deposto le armi ma i ribelli si erano consociati ed avevano allestito un esercito comune contro i quali marciarono i consoli Publio Rutilio Lupo e Lucio Giulio Cesare (Nota: Appiano scrive Sesto e non Lucio ma si tratta di un errore, Sesto Giulio Cesare fu console l'anno precedente).
Tra gli ufficiali romani che presero parte alla guerra sociale Appiano ricorda Pompeo (padre di Pompeo Magno), Quinto Cepione, Caio Perpenna, Caio Mario, Valerio Messalla, Publio Lentulo, Tito Didio, Licinio Crasso, Cornelio Silla.
Fra i comandanti Italici della milizia comune vengono citati Tito Lafrenio, Caio Pontilio, Mario Egnazio, Quinto Pompedio, Caio Papio, Marco Lamponio, Caio Giudacilio, Erio Asinio, Vezzio Scatone. Quest'ultimo assediò e conquistò Isernia che era rimasta fedele ai Romani, Mario Egnazio conquistò Venafro, Publio Presenteio sconfisse Perpenna uccidendo quattromila soldati romani; Perpenna fu sollevato dal comando e le sue milizie passarono a Caio Mario.
Marco assediò Licinio Crasso a Grumento dopo avergli ucciso ottocento uomini.
Caio Papio prese Nola per tradimento e convinse duemila romani che vi si trovavano a passare dalla sua parte. Quindi Papio conquistò altre località togliendole ai Romani e reclutando diecimila soldati nelle città che gli si arrendevano.
Papio liberò Osinta figlio del re di Numidia Giugurta che era prigioniero a Venosa e se ne servì per spingere alla diserzione i Numidi che militavano nell'esercito consolare. Dopo questi successi, tuttavia, Papio fu sconfitto presso Acerra dalla cavalleria romana.
Il console Rutilio morì in uno scontro con Vezzio Scatone, i cadaveri del console e di altri illustri caduti furono recuperati da Caio Mario ed ebbero onori funebri a Roma. Mario e Cepione ebbero il comando dell'armata di Rutilio per decreto del senato.
Quinto Pompedio, fingendo di voler passare ai Romani, attirò in un'imboscata Quinto Servilio Cepione che vi perse la vita.
Intanto il console Sesto [Lucio] Cesare fu sconfitto da Mario Egnazio e subì molte perdite. Con le milizie superstiti si accampò presso Acerra di fronte a Papio ma i due capi nemici, entrambi molto provati, non si diedero battaglia.
Combattendo insieme Silla e Mario sconfissero i Marsi uccidendone oltre seimila ma ciò non bastò a far desistere dalla guerra quelle bellicosissime genti. Pompeo fu assediato a Fermo da Lafrenio ma riuscì a liberarsi e passò a sua volta a assediare Ascoli. Qui giunse il comandante ascolano Giudacilio per tentare di difendere la città ma non fu sostenuto dai concittadini a causa dell'opposizione dei suoi avversari politici quindi, uccisi questi ultimi, scelse di morire insieme ad alcuni compagni prima di essere sconfitto.
Nell'assedio di Ascoli fu ferito gravemente anche il console Lucio Cesare che cedette il comando a Gaio Bebio.
Per contenere il diffondersi della rivolta il senato decise di concedere la cittadinanza a quanti, come gli Etruschi, non si erano ribellati. Furono create con i nuovi cittadini dieci tribù che furono aggiunte alle trentacinque esistenti. In questo modo gli Italici non avevano possibilità di prevalere nelle votazioni ma questo fatto per il momento fu accettato e solo più tardi creò nuovi problemi.
I nuovi consoli furono Pompeo e Lucio Porcio Catone. Il primo intercettò un esercito nemico che valicava l'Appennino e ne fece strage, mentre il secondo cadde combattendo contro i Marsi.
Silla subì una sconfitta presso Pompei ad opera del comandante nemico Lucio Cluenzio, ma fu vincitore in una successiva battaglia alle porte di Nola dove Cluenzio venne ucciso insieme a trentamila dei suoi uomini. A determinare la disfatta di Cluenzio fu la defezione del contingente di Galli che militava nella sua armata.
Conquistate con la forza o prese per resa spontanea diverse città dell'Irpinia, Silla passò nel Sannio dove vinse altre battaglie ed espugnò Boviano prima di tornare a Roma all'inizio dell'inverno per chiedere il consolato.
Mentre si svolgevano gli eventi della guerra sociale a Roma scoppiavano nuovi tumulti riguardanti le leggi contro l'usura che venivano sempre violate. Il pretore Sempronio Asellione che aveva rimesso la questione ai tribunali venne ucciso nel Foro mentre celebrava un sacrificio.
Alla guerra sociale seguì quella contro Mitridate il cui comando toccò in sorte a Silla ma Mario tramò per aggiudicarselo con l'aiuto del tribuno Publio Sulpicio Rufo.
Publio Sulpicio Rufo propose di ridistribuire le tribù italiche e di votare per l'assegnazione del comando, ne nacquero nuovi scontri in cui perse la vita Quinto Pompeo Rufo figlio del console Pompeo.
Silla si affrettò a raggiungere il suo esercito che si trovava a Capua e marciò verso Roma con sei legioni. Gli andò incontro Pompeo, suo collega nel consolato, offrendosi di aiutarlo mentre Mario e Sulpicio mandarono messaggeri per prendere tempo. Silla accettò di attendere che il senato si riunisse senza entrare in Roma ma, con l'aiuto di Pompeo, circondò la città con le sue legioni.
Silla entrò in città e si scontrò con Mario e Sulpicio. Fu la prima battaglia vera e propria combattuta all'interno delle mura di Roma e Silla riuscì a far aggirare i nemici da una parte dei suoi soldati vincendo il combattimento.
Puniti immediatamente quanti fra i suoi uomini avevano cercato di darsi al saccheggio, Silla organizzò la guardia notturna e il mattino seguente convocò il popolo per annunciare una serie di provvedimenti con cui avrebbe ripristinato il potere dell'aristocrazia.
Furono esiliati dodici personaggi accusati di aver sobillato gli schiavi contro i consoli: Sulpicio, Mario, Mario il Giovane, Publio Cetego, Giunio Bruto, Gneo e Quinto Granio, Publio Albinovano, Marco Letorio e altri. Era concesso a chiunque ucciderli e infatti Sulpicio perse la vita. Con una fuga avventurosa Mario riuscì ad arrivare in Africa dove qualche tempo dopo fu raggiunto dal figlio e da altri esuli.
A Roma Silla, rimandati i soldati a Capua, riprese le normali funzioni di console, rassicurato dalla protezione dell'esercito che gli era stato affidato per combattere Mitridate.
Per procurare analoga protezione all'altro console Quinto Pompeo fu decretato che assumesse il comando di un esercito precedentemente affidato a Gneo Pompeo Strabone ma questi provocò un'insurrezione dei soldati che uccisero il nuovo comandante.
Informato di questi avvenimenti, Silla si affrettò a recuperare il proprio esercito e a partire per l'Oriente mentre i nuovi consoli Cinna e Gneo Ottavio assumevano la carica. Cinna riprese la proposta di Mario di perequare il diritto di voto dei nuovi cittadini ma Ottavio si oppose e ne nacquero nuovi disordini.
Ottavio e i suoi uccisero molti avversari e Cinna, preoccupato, lasciò Roma per fare propaganda nelle città che avevano recentemente ottenuto la cittadinanza (Tivoli, Preneste e altre) cercando aiuti contro Ottavio. Questa azione fornì al senato le ragioni per accusarlo di comportamento sedizioso, destituirlo dal consolato e privarlo della cittadinanza. Ma Cinna proseguì la sua campagna presso le "città sociali" mentre Ottavio e il nuovo console Lucio Merula preparavano la difesa di Roma in caso di attacco e richiamavano il proconsole Gneo Pompeo che comandava le milizie stanziate lungo l'Adriatico.
A queste notizie Mario rientrò in Italia con i suoi seguaci e si riunì a Cinna per circondare Roma. Gli assedianti divisero le proprie forze in tre corpi comandati da Mario, Cinna e Sertorio, bloccarono i rifornimenti che potevano giungere dal Tevere o dal Nord e conquistarono Anzio, Ariccia, Lanuvio e altre città nei dintorni.
Promettendo la libertà Cinna e Mario attirarono nelle loro file migliaia di schiavi mentre tutti i cittadini liberi di idee popolari uscivano dalle mura per unirsi agli assedianti. In breve il senato fu costretto a trattare e infine lasciò entrare i fuoriusciti in città. Fra i primi atti di Mario e Cinna fu l'uccisione del console Ottavio che fu pubblicamente decapitato dal loro incaricato Censorino. A questa prima esecuzione ne seguirono molte altre. Cavalieri e senatori dell'opposizione venivano trucidati, le loro teste venivano mozzate e esposte. Fra queste vittime Appiano cita Caio Giulio e Lucio Giulio, Atilio Serrano, Publio Lentulo, Marco Antonio e altri. Contro Lucio Merula e Lutazio Catulo si intentarono processi ma costoro si uccisero senza attendere la prevedibile sentenza.
L'anno successivo ebbero il consolato Cinna e Mario ma questi morì a sua volte e fu sostituito da Valerio Flacco. Anche Flacco fu ucciso e fu sostituito da Carbone.
Intanto Silla dopo tre anni di guerra aveva recuperato tutti i territori invasi da Mitridate e aveva respinto il nemico nel suo paese. Ora stava tornando in Italia con molte navi, molto denaro ed un esercito forte e fidelizzato. Preoccupati, Cinna e Carbone prepararono le difese nonostante il senato avesse loro ordinato di non fare leve contro Silla.
Mentre i consoli si portavano in Liburnia per fronteggiare Sillai loro soldati si ribellarono e uccisero Cinna.
Alla morte di Cinna, Silla interruppe le trattative in corso con il senato e mosse verso Roma. Dopo il suo sbarco a Brindisi si unirono a lui Cecilio Metello Pio con le milizia che aveva comandato nella guerra sociale e Gneo Pompeo (il futuro Pompeo Magno) che aveva raccolto una legione nel Piceno e presto ne procurò altre due.
Silla ebbe in grande considerazione il giovane Pompeo al quale affidò la guerra contro Carbone, il compito di restaurare il trono di Jempsale destituito re dei Numidi e ancora le missioni contro Sertorio e contro Mitridate.
Anche Cetego, già sostenitore di Mario, si presentò a Silla per unirsi a lui. Contro Silla e i suoi alleati mossero i nuovi consoli Gaio Norbano e Lucio Scipione ed ebbe inizio una guerra civile che provocò decine di migliaia di morti e terminò soltanto quando Silla fu padrone assoluto dei destini di Roma.
La prima battaglia importante di questa guerra si concluse con la vittoria di Silla su Norbano presso Capua. Dopo questo evento il console Scipione tentò di trattare la pace ma fu abbandonato dal suo esercito che passò in massa a Silla.
L'anno successivo (82 a.C.) ebbero il consolato Gneo Papirio Carbone e Mario il Giovane. Carbone subì una sconfitta ad opera di Metello e quando seppe che Mario era stato battuto presso Preneste si ritirò a Rimini.
Mentre Metello sconfiggeva ancora Carbone, Silla affidava a Lucrezio Ofella l'assedio di Preneste dove Mario si era rifugiato con i suoi uomini superstiti e si portò a Roma dove trovò che tutti i suoi avversari erano già fuggiti. Egli prese quindi possesso della città, tuttavia la guerra continuò in vari luoghi dell'Italia contro gli eserciti consolari.
Dopo altri combattimenti Norbano, ormai privo di esercito a causa delle perdite e delle defezioni, fuggì a Rodi e qui, quando seppe che Silla richiedeva la sua consegna, si uccise. Anche Carbone scelse la fuga e riparò in Africa.
Il capo sannita Ponzio Telesino ed altri alleati del partito mariano che erano accorsi per liberare Preneste dall'assedio tentarono l'audace impresa di attaccare direttamente Roma ma furono raggiunti da Silla che ne fece strage.
A questo punto gli abitanti di Preneste si arresero agli assedianti e Mario il Giovane si uccise e Lucrezio ne mandò la testa a Silla che la espose a Roma nel foro. Quando Silla giunse a Preneste fece uccidere gran parte degli abitanti che Lucrezio aveva risparmiato.
Fu conquistata anche la città di Norba ma molti abitanti scelsero di suicidarsi dopo aver incendiato gli edifici così che ben poco rimase per il saccheggio.
Pompeo fu inviato in Africa e in Sicilia contro Carbone e Silla iniziò le sue proscrizioni condannando, per iniziare, quaranta senatori e milleseicento cavalieri. Stabilendo taglie sui proscritti e accogliendo delazioni, Silla sparse il terrore. La sua strage colpi anche molte città che avevano aiutato i suoi avversari, furono sottoposte a pesanti tributi e molti videro le loro mura e cittadelle spianate dai Romani.
Pompeo catturò Carbone e i suoi seguaci, li uccise tutti e mandò a Silla la testa dell'ex console. Silla mandò Metello in Africa per combattere Sertorio e si occupò personalmente di governare Roma dove le proscrizioni e il terrore avevano tacitato tutti i suoi avversari, anzi il senato gli tributò una statua dorata e molte vergognose adulazioni.
Per legittimare il suo potere Silla fece in modo di essere nominato dittatore a vita con il pretesto della necessità di un uomo forte in grado di pacificare Roma e la Penisola. Per la prima volta un dittatore veniva eletto a tempo indeterminato, si trattava di una monarchia di fatto.
Per lasciare l'illusione che le leggi della Repubblica fossero ancora in vigore, Silla permise che si eleggessero i consoli. Furono scelti Marco Tullio e Cornelio Dolabella.
Silla faceva e disfaceva le leggi a suo gradimento. Stabilì fra l'altro che chi era stato tribuno della plebe non potesse successivamente ricoprire altre cariche. Chiaramente chi aspirava a svolgere una completa carriera politica era così demotivato dal candidarsi al tribunato. Liberò circa diecimila schiavi, quasi tutti già servitori dei proscritti, scelti tra i più giovani e robusti, procurandosi in questo modo un corpo di diecimila suoi fedeli.
Fece scegliere trecento cavalieri alle tribù per ripopolare il senato che a causa delle guerre e delle sedizioni era ridotto al minimo. Distribuì terreni ai suoi veterani per ottenere gratitudine e fedeltà come dagli schiavi liberati.
Governava il popolo impressionandolo con atti di terrore come l'uccisione in pubblico di Quinto Lucrezio Ofella che per i suoi meriti militari chiedeva il consolato pur non essendo stato questore o pretore.
L'anno seguente Silla volle essere console, insieme a Metello Pio (80 a.C.), scaduto il mandato molti volevano rieleggerlo per piaggeria, ma Silla rifiutò e contro ogni aspettativa depose la dittatura tornando alla vita privata senza temere le vendette di tutte le persone a cui aveva fatto morire i congiunti, sequestrati i beni, rovinata l'esistenza.
Si ritirò presso Cuma per dedicarsi alla caccia e alla pesca, probabilmente stanco delle guerre e del comando. Presto i Romani furono di nuovo incitati alla sedizione: divennero consoli Quinto Catulo, di parte sillana, e Emilio Lepido della fazione contraria, fra loro nemici, non tardarono a provocare molte discordie.
Silla morì a Cuma per improvvisa malattia all'età di sessanta anni. Nonostante l'opposizione del console Emilio Lepido furono tributate all'ex-dittatore le esequie più solenni con la presenza di tutti i magistrati e senatori e di tutti i veterani delle sue campagne. Infine la salma fu arsa nel Campo di Marte.
Subito dopo il funerale i consoli ripresero a scontrarsi e nonostante il giuramento fatto al senato di non risolvere la questione con la guerra, arrivarono in seguito a darsi battaglia. Lepido, sconfitto, si ritirò in Sardegna dove poco dopo morì. Le sue milizie furono recate in Spagna da Perpenna per la guerra di Sertorio.
Ottenuto il governo della Spagna, Sertorio radunò un esercito di Celtiberi aggiungendolo a quello di Italiani di cui già disponeva. Espulse dalla Spagna i pretori precedenti e combattè contro Metello ufficiale di Silla. Formò un senato di trecento membri e minacciò di passare in Italia. Il senato gli mandò contro il giovane Pompeo il quale, giunto in Spagna, fu privato da Sertorio di una legione prima che l'inverno dividesse gli eserciti. A primavere Perpenna si scontrò con Metello e fu sconfitto mentre Sertorio vinceva su Pompeo che rimase ferito. Nel corso dell'estate gli eserciti si affrontarono ancora con altro esito: Perpenna battuto da Metello e Pompeo sconfitto da Sertorio. L'anno seguente i Romani ereditarono la Bitinia da Nicomede e Cirene da Tolomeo Apione.
Contemporaneamente alla guerra con Sertorio, i Romani combattevano contro Mitridate, contro i pirati, contro gli abitanti di Creta e, in Italia, contro i gladiatori ribelli.
Molti soldati di Sertorio passarono a Metello, ciò rese Sertorio molto inquieto e sospettoso e i suoi seguaci presero a diffidare di lui. Pompeo assediò Pallenzia ma fu respinto da Sertorio il quale uccise in quell'occasione tremila nemici.
L'anno successivo Sertorio si mostrò apatico, si dedicava al piacere e veniva continuamente sconfitto. Infine fu ucciso a tradimento da Perpenna. Dopo la morte di Sertorio i suoi soldati si sollevarono contro Perpenna che con grande fatica riuscì a calmare gli animi in parte con doni e promesse e in parte con minacce e punizioni.
Per alcuni giorni si verificarono solo brevi scontri tra i soldati di Perpenna e quelli di Pompeo, ma il decimo giorno scoppiò una grande battaglia in cui Pompeo prevalse. Perpenna fu catturato e ucciso per ordine di Pompeo.
In quei giorni scoppiò a Capua la ribellione dei gladiatori suscitata da uno di loro di nome Spartaco che fuggì con settanta compagni e presto raccolse intorno a se una moltitudine di uomini. Varinio Glabro e Publio Valerio furono mandati contro i ribelli con eserciti raccolti con molta fretta e scarsa preparazione. Queste forze si dimostrarono presto inadeguate contro i ribelli che erano ormai settantamila.
Da Roma furono inviate due legioni comandate dai consoli che sconfissero un esercito ribelle presso il monte Gargano. Spartaco fuggì percorrendo gli Appennini e poi le Alpi, tentando di riparare in Gallia e vinse gli eserciti consolari che tentavano di fermarlo. Cambiata destinazione puntò verso Roma con centoventimila seguaci. Vinta una battaglia nel Piceno, i ribelli conquistarono Turi dove sostarono dedicandosi a potenziare i loro armamenti.
Dopo tre anni di guerra pochi a Roma si mostravano disposti ad assumere il comando contro un nemico che, inizialmente sottovalutato, si era dimostrato formidabile. Infine prese il comando dell'esercito Licinio Crasso che, patite alcune sconfitte, punì le sue truppe con le decimazioni, quindi riportò su Spartaco una vittoria schiacciante. Da allora Spartaco evitò lo scontro campale e per un periodo tentò di logorare il nemico con azioni di guerriglia. Per concludere la guerra, a Roma si decise di inviare in aiuto a Crasso anche Pompeo recentemente rientrato dalla Spagna.
Spartaco prese tempo e tentò di fuggire verso Brindisi ma fu informato dell'arrivo di Lucullo reduce della guerra contro Mitridate, dotato di altre milizie. A questo punto Spartaco affrontò Crasso in battaglia ma fu sopraffatto. Il suo corpo non fu ritrovato, le sue truppe furono massacrate e i seimila superstiti furono impiccati lungo la via Appia.
Crasso e Pompeo trovarono pretesti per non congedare le legioni ma durante un'assemblea furono pregati dal popolo di evitare il ripetersi delle tragedie provocate da Mario e Silla e, infine, si rassegnarono a congedare le milizie.


LIBRO II


Dopo aver ripulito il mare dai pirati ed eliminato Mitridate re del Ponto, Pompeo riordinò i popoli d'Oriente. In quel periodo il giovane Cesare conquistava il consenso popolare spendendo molto e riempiendosi di debiti. Anche Caio Catilina godeva di grande credito per la sua liberalità, ma quando si presentò alle elezioni per il consolato non vinse perché sospettato di tendere alla tirannide. Fu invece eletto Cicerone, famoso oratore, che Catilina chiamava con disprezzo uomo nuovo e inquilino.
Da allora Catilina congiurò con molti senatori e cavalieri mentre raccoglieva denaro e reclutava segretamente i veterani di Silla. Cicerone ne fu informato da Fulvia, amante del congiurato ed ex senatore Quinto Curio. Mentre Cicerone indagava per verificare le accuse, i congiurati concentravano le loro forze a Fiesole e due di loro, Lentulo e Cetego, venivano incaricati di assassinare l'oratore. Lentulo tentò di coinvolgere nella congiura alcuni ambasciatore degli Allobrogi che si trovavano a Roma. Scoperti, furono segnalati a Cicerone che li sorprese mentre partivano per raggiungere Catilina.
Lentulo fu rimosso dalle sue cariche e Cicerone fece catturare molti congiurati.
Si discusse in senato del trattamento da riservare ai congiurati e prevalse l'opinione di Catone e di Cicerone che li volevano condannare senza attendere la sconfitta e il processo di Catilina. Fatti portare i congiurato scoperti in carcere, vennero giustiziati mentre il senato era ancora riunito.
Catilina marciava verso la Gallia con ventimila uomini quando fu attaccato da Gaio Antonio Ibrida, collega di Cicerone nel consolato. Nello scontro molti dei congiurati perirono insieme a Catilina, l'insurrezione fu sventata e Cicerone fu considerato salvatore della patria.
Nominato pretore per la Spagna, Cesare trovò il modo di placare i suoi numerosi creditori e raggiunse la provincia dove si dedicò a sottomettere i popoli ancora indipendenti.
Pompeo, vincitore su Mitridate, chiese al senato di ratificare i trattati da lui sottoscritti in Oriente ma gli si oppose Lucullo che, avendo combattuto prima di lui contro Mitridate, si attribuiva la gloria della vittoria con il sostegno di Crasso. Pompeo si rivolse a Cesare e questi lo riconciliò con Crasso. Ne derivò il sodalizio detto triumvirato, il senato, indispettito, sostenne l'elezione di Marco Bibulo come collega di Cesare e suo avversario.
Eletto console, Cesare promosse l'assegnazione di terreni alla plebe evitando di convocare il senato e confrontandosi dai rostri direttamente con il popolo.
Incaricato dai senatori, Bibulo si oppose a Cesare mentre parlava in pubblico, ne nacquero disordini e Bibulo fu ridotto al silenzio. Cesare fece approvare le sue leggi e fece decretare dal popolo la condanna a morte per chi non avesse giurato di rispettarle.
Un certo plebeo di nome Vezzio attentò alla vita di Cesare e fu eliminato la notte seguente. Quanto a Bibulo non uscì più di casa fino al termine del suo consolato.
Cesare guadagnò il favore del ceto dei cavalieri con forti agevolazioni fiscali e quello del popolo con spettacoli e cacce. Ebbe per cinque anni il governo delle Gallie e il comando di quattro legioni.
Per consolidare i rapporti, Cesare fece sposare la propria figlia a Pompeo, fece designare per il consolato il suo amico Aulo Gabinio e sposò Calpurnia figlia dell'altro console Lucio Pisone. Fece nominare tribuni Veturio e Clodio detto "il bello" che aveva forte ascendente sul popolo e quando si seppe dell'adulterio compiuto dalla moglie di Cesare con Clodio, Cesare ripudiò la moglie ma non agì contro l'amante.
Clodio accusò Cicerone di aver abusato del suo potere condannando a morte Lentulo e Cetego. Cicerone si ridusse a mendicare l'aiuto altrui mentre Clodio lo derideva pubblicamente, e infine partì volontariamente per l'esilio.
Pompeo convinse il tribuno Milone a battersi per il ritorno di Cicerone il quale fu riammesso a Roma dopo sedici mesi di esilio e fu accolto festosamente da gente di ogni condizione.
Dopo aver compiuto le sue famose imprese tra Celti e Britanni, Cesare si portò alle rive del Po e da qui mandò ingenti somme di denaro a Roma. In molti vennero a rendergli onore, a ringraziarlo, a chiedere altro denaro e ormai Cesare aveva pienamente il potere nelle sue mani. Crasso e Pompeo, fu deciso, avrebbero avuto un nuovo consolato mentre il comando di Cesare fu prorogato per altri cinque anni. Come consoli, Pompeo e Crasso divisero il comando delle province. Pompeo ebbe la Spagna e l'Africa che governò per mezzo di amici senza muoversi da Roma, Crasso prese la Siria e le legioni limitrofe sperando di fare contro i Parti una guerra facile, utile e gloriosa.
Molti segni nefasti precedettero la partenza di Crasso e i tribuni lo sconsigliarono di attaccare i Parti che non avevano alcuna colpa; Crasso non ne tenne conto e morì tra i Parti insieme al figlio e a gran parte dell'esercito.
A Roma Pompeo organizzò con successo gli approvvigionamenti di viveri scongiurando una carestia. La figlia di Cesare moglie di Pompeo morì e molti si preoccuparono per la rivalità dei due uomini ora non più frenata dal vincolo di parentela. Si diffuse molta corruzione, si vendevano le cariche pubbliche e il consolato rimase vacante per molti mesi. Molti erano dell'opinione che per mettere ordine nelle cose della Repubblica fosse opportuno affidare il potere a un solo uomo di specchiate qualità e Pompeo cercava in ogni modo di comparire come il più adatto alla dittatura.
Milone si candidò al consolato ma rimase deluso dal mancato aiuto di Pompeo. Mentre si recava a Lanuvio incontrò casualmente Clodio. I due si ignorarono ma un servo di Milone inseguì Clodio e lo trafisse nella schiena. Milone e gli altri che erano con lui raggiunsero Clodio e lo finirono. Il cadavere fu portato a Roma dove fu esposto davanti ai rostri ma alcuni tribuni e amici di Clodio lo portarono nella curia dove lo arsero su un rogo improvvisato con gli scanni dei senatori, incendiando la curia stessa e le abitazioni circostanti.
Milone si procurò per denaro il sostegno del tribuno Marco Celio, quindi parlò al popolo affermando che l'uccisione di Clodio non era premeditata, quindi arringò a lungo contro il defunto, ma quando giunsero nel foro altri tribuni e cittadini non corrotti, Celio e Milone si dileguarono. Si verificarono comunque degli scontri e molti persero la vita.
Catone dissuase i senatori dal conferire la dittatura a Pompeo che fu nominato console senza collega. In questo modo egli aveva la più piena podestà e, per evitare molestie da parte di Catone, lo mandò a recuperare l'isola di Cipro occupata da Tolomeo. Tolomeo si uccise e Catone riordinò Cipro senza contrasto.
Pompeo emanò una legge che consentiva a chiunque di chiedere conto ai magistrati degli ultimi venti anni del loro operato. I giudici appositamente nominati e protetti dalle guardie di Pompeo giudicarono Milone per la morte di Clodio, Gabinio per abusi compiuti in Egitto ed altri, colpevoli di brogli elettorali.
L'iniziativa fu molto lodata dai senatori che assegnarono a Pompeo altre due legioni e prorogarono il suo comando sulle province.
Cesare chiese una proroga del comando sulle Gallie per evitare di congedare l'armata prima di rientrare a Roma. Si oppose Marcello, successore di Pompeo nel consolato, il quale prese varie iniziative contro Cesare tentando di togliergli il comando. Per l'anno seguente furono scelti Emilio Paolo e Claudio Marcello, entrambi avversari di Cesare.
Claudio propose di mandare un sostituto a Cesare, il tributo Curione approvò a condizione che anche Pompeo lasciasse le province e l'esercito. Pompeo scrisse in senato di essere disposto a lasciare il comando, ma era un espediente per mettere in cattiva luce Cesare che non avrebbe fatto altrettanto. Curione tuttavia, ribadì che entrambi i comandanti dovevano dimettersi, accusò Pompeo di volere la tirannide e propose di destituire entrambi con la forza.
Mentre ancora si discuteva in senato se richiamare o meno Cesare e Pompeo, si sparse la voce che Cesare stava passando le Alpi in armi. I consoli ordinarono a Pompeo di affrontare Cesare per fermare la sua avanzata. Curione, essendo il suo tribunato prossimo alla scadenza, partì per andare a unirsi a Cesare.
Superate le Alpi, Cesare era giunto con cinquemila fanti e trecento cavalieri nei pressi di Ravenna, prossima al confine dell'Italia e del suo dominio. Curione gli suggerì di marciare a Roma con l'intero esercito.
A Roma i nuovi tribuni, Antonio e Cassio, vennero allontanati dal senato e provocarono grande tensione, mentre le milizie di Pompeo circondavano la curia i tribuni fuggirono per raggiungere Cesare.
Il senato autorizzò Pompeo a reclutare un esercito con molti veterani e stanziò ingenti cifre per la guerra.
Per non perdere il vantaggio della sorpresa, Cesare decise di affrontare la guerra con soli cinquemila uomini. Cavalcò di sera fino al Rubicone seguito dalla sua cavalleria quindi, senza esitare, superò il fiume che segnava il confine dell'Italia. Senza fermarsi continuò fino a Rimini e la occupò, continuò ad avanzare occupando vari luoghi.
I consoli ordinarono a Pompeo di affrettare il reclutamento, molti senatori erano terrorizzati e il popolo chiedeva a gran voce che si disarmasse Pompeo per evitare una guerra. Cicerone propose di mandare a Cesare dei conciliatori.
Cesare trovò a Corfinio Lucio Domizio che avrebbe dovuto succedergli nel comando, lo assediò e quando lo ebbe in pugno lo lasciò andare ma le milizie di Domizio si unirono a Cesare. Intanto Pompeo aveva raggiunto l'esercito a Capua e lo stava conducendo a Brindisi per imbarcarlo alla volta dell'Epiro nel luogo da lui scelto come quartiere generale.
Cesare divise le sue milizie in cinque corpi, uno dei quali con Quinto Valerio andò a occupare la Sardegna, regione ricca di grano. Asinio Pollione fu inviato in Sicilia, Catone che ne era governatore evitò di combattere e partì per raggiungere Pompeo.
Giunto a Roma, Cesare si mostrò benevolo per tranquillizzare il popolo che ricordava la guerra tra Mario e Silla. Prelevò una somma di denaro che il pubblico erario teneva vincolata perché destinata a combattere i Galli in caso di pericolo. Cesare prese quel denaro affermando che i Galli, ormai, non erano più pericolosi. Affidò a Emilio Lepido il governo di Roma e a Marco Antonio quello dell'Italia, la Sicilia a Curione, a Quinto Valerio la Sardegna, l'Illiria a Gaio Antonio, la Gallia Cisalpina a Licinio Crasso. Ordinò la costruzione di due flotte nominandone capi Ortensio e Dolabella.
Organizzata così la difesa dell'Italia, Cesare passò in Spagna dove dovette affrontare Petreio e Afranio, generali di Pompeo, dai quali subì due sconfitte prima di riuscire a prevalere.
Afranio si rassegnò a lasciare la Spagna a Cesare ma Petreio si oppose. Infine si svolsero delle trattative e Cesare permise che i due generali con le rispettive milizie, lasciassero la Spagna per raggiungere Pompeo. Partiti gli avversari, Cesare assegnò a Quinto Cassio il comando in Spagna.
In Africa comandava Attio Varo del partito di Pompeo, alleato di Giuba re di Numidia. Vi si recò Curione dalla Sicilia con due legioni e vinse un modesto scontro con alcuni Numidi a cavallo. Per questa vittoria avrebbe preteso di essere chiamato imperatore. I pompeiani riuscirono ad avvelenare l'acqua dell'accampamento romano e i soldati patirono una grave intossicazione, riuscirono comunque a sconfiggere in battaglia le forze nemiche. In una successiva battaglia, tuttavia, i Romani affrontarono le forze di Giuba e furono sterminati. La testa troncata di Curione fu consegnata a Giuba. Il giorno seguente i Numidi uccisero i Romani superstiti e i prigionieri eliminando completamente due legioni e con esse anche i soldati a cavallo, le milizie leggere e gli addetti ai servizi.
In quei giorni Antonio fu sconfitto nell'Illirico da Ottavio generale di Pompeo.
Una ribellione dei soldati a Piacenza indusse Cesare a minacciare la decimazione anche se infine si limitò a giustiziare i dodici più sediziosi. Giunto a Roma, Cesare rifiutò la dittatura che gli veniva offerta dalla plebe e designò se stesso e Publio Isaurico consoli per l'anno seguente, riassegnò il governo delle province e richiamò i fuoriusciti ad eccezione di Milone.
In dicembre Cesare raggiunse le milizie concentrate a Brindisi, intanto Pompeo aveva costruito navi, arruolato altri soldati e raccolto fondi.
Cesare disponeva di dieci legioni e diecimila cavalieri. Pompeo aveva undici legioni e settemila cavalli oltre a molti aiuti alleati raccolti in oriente. Aveva inoltre seicento navi da guerra e molte navi da carico.
Pompeo credeva che Cesare avrebbe atteso la bella stagione per attaccare e distribuì le sue milizie in Tessaglia e Macedonia per svernare, ma Cesare, che intendeva coglierlo di sorpresa, si preparava a Brindisi per salpare, tuttavia le condizioni del mare lo costrinsero ad attendere fino al primo giorno dell'anno.
Raggiunti i Monti Cerauni con una prima parte delle legioni, Cesare raggiunse la città di Orico mentre le navi ripartivano per un secondo carico di soldati. Il prefetto di Orico gli consegnò le chiavi della città mentre gli uomini di Pompeo che si trovavano sul posto fuggivano a Durazzo. Cesare passò da Orico a Apollonia e da qui si avviò a Durazzo a tappe forzate. Anche Pompeo mosse dalla Macedonia verso Durazzo cercando di raggiungerla prima del nemico ed ebbe successo, si accampò e spedì la flotta a riprendere Orico. Cesare pose il suo campo non molto lontano e le cavallerie dei due avversari si scontrarono più volte senza che si giungesse mai a battaglia campale.
Per sollecitare l'arrivo delle altre legioni Cesare mandò Postumio ad ordinare l'immediata partenza a Gabinio, Antonio e Caleno. Gabinio affrontò il viaggio via terra passando per l'Illirico ma perse molti uomini scontrandosi con le popolazioni locali. Antonio si imbarcò con altre milizie e navigò oltre Apollonia riuscendo a sfuggire a venti navi pompeiane che lo attaccarono.
I pompeiani vinsero alcuni scontri e i cesariani, demoralizzati, fuggirono davanti al nemico subendo una grave sconfitta. Pentiti, i soldati di Cesare attesero la punizione ma Cesare fu clemente e preferì spostare il proprio campo avvicinandosi a Apollonia, poi a Farsalo.
Pompeo si mosse a sua volta per accamparsi presso Farsalo a quattro miglia da Cesare. Decise di approfittare della penuria di viveri che affliggeva i cesariani prolungando la guerra per ridurre il nemico alla fame. Di diverso avviso, tuttavia, erano i suoi alleati e molti suoi ufficiali che, preferendo una rapida conclusione della guerra incitavano i soldati a chiedere di combattere. Pompeo infine cedette e ordinò di prepararsi alla battaglia.
I due generali schierarono le rispettive milizie italiane lasciando Pompeo le forze orientali alleate ai margini del campo di battaglia pronte a circondare o inseguire il nemico.
Le milizie italiane di Pompeo erano comandate da suo suocero Scipione al centro, da Lucio Domizio Enobarbo a sinistra e da Lentulo a destra. Comandavano i cesariani Silla (nipote del dittatore), Antonio e Gneo Domizio Calvino.
Prima di iniziare a combattere, i soldati dei due fronti esitarono a lungo rendendosi conto che stavano per battersi con i loro connazionali. Si dice che anche i due generali fossero profondamente commossi. Fu Pompeo, notando che tra i suoi alleati stavano nascendo disordini, a dare per primo il segnale.
Quando la cavalleria di Pompeo si fece avanti, Cesare l'accolse con tremila uomini armati di lancia che aveva appositamente preparato: avevano l'ordine di colpire i nemici puntando al viso e agli occhi e in breve misero in fuga gli avversari. La fanteria di Pompeo, rimasta sguarnita, fu circondata dalla cavalleria di Cesare che in breve sopraffece l'ala sinistra dello schieramento pompeiano.
Mentre l'armata di Pompeo si ritirava, i soldati di Cesare correvano tra i nemici senza nuocere agli italiani e uccidendo un gran numero di soldati stranieri alleati di Pompeo. Con un ultimo sforzo i Cesariani occuparono gli alloggiamenti dei pompeiani. Pompeo fuggì con pochi compagni verso Larissa.
Varie e contraddittorie le informazioni tramandate sul numero dei caduti. Appiano riprende la stima di seimila pompeiani caduti riferita da Asinio Pollione che partecipò alla battaglia come ufficiale di Cesare.
Pompeo passò da Larissa al mare e si imbarcò per Mitilene, si diresse a est per incontrare il re dei Parti ma, dissuaso dagli amici che erano con lui, navigò verso l'Egitto.
Il vento sospinse Pompeo nel luogo in cui il giovane re Tolomeo aveva schierato il suo esercito per prevenire le incursioni di sua sorella Cleopatra che era stata cacciata dall'Egitto. Pompeo inviò messaggeri per chiedere di essere accolto in virtù della sua amicizia con il padre del re. Tolomeo consultò i suoi consiglieri Achilla e Potino e il suo precettore Teodoto, quest'ultimo gli consigliò di eliminare Pompeo per guadagnare l'amicizia di Cesare.
Un gruppo di ministri del re, accompagnati da un romano e tribuno di Pompeo, si recò con una piccola imbarcazione a prelevare Pompeo il quale, trascurando i propri sospetti, salì sulla barca e durante il trasporto venne pugnalato a morte. Potino fece recidere la testa di Pompeo per presentarla a Cesare ma questi punì la sua perfidia. Il corpo venne tumulato in un piccolo monumento che, sepolto dalla sabbia, fu ritrovato e restaurato sotto l'imperatore Adriano.
Metello Pio Scipione, suocero di Pompeo, con gli altri reduci della battaglia di Farsalo si unì in Corcira a Catone che comandava un altro esercito e una flotta di trecento triremi. La flotta fu ripartita: una parte fece vela verso il Ponto con Cassio per convincere Farnace a combattere contro Cesare, Scipione e Catone si diressero in Spagna dove raccolsero un esercito di Iberi e Celtiberi. In Africa Catone rifiutò il comando militare che fu affidato a Scipione ed anche qui si riunì un grande esercito.
Due giorni dopo la battaglia, Cesare si mise in movimento e traversò l'Ellesponto con piccole imbarcazioni perché privo di triremi. Durante la traversata incontrò le navi di Cassio il quale, non considerando il vantaggio che gli davano le sue settanta triremi, non osò attaccare Cesare e si arrese senza combattere. Informato che Pompeo si stava recando in Egitto, Cesare decise di seguirlo dopo una breve sosta a Rodi per prendere altre navi.
Giunto in Alessandria, Cesare fu accolto dai dignitari di Tolomeo e mostrò di avere intenzioni pacifiche, ma quando giustiziò gli uccisori di Pompeo dovette affrontare le milizie del re.
Cesare combattè più volte contro gli Egiziani e in un'occasione fu costretto a fuggire a nuoto. Dopo nove mesi di scontri sconfisse definitivamente Tolomeo in una battaglia sul Nilo e dichiarò Cleopatra regina d'Egitto al posto del fratello.
Per seppellire la testa di Pompeo costruì in Alessandria un piccolo tempio dedicato a Nemesi.
Cesare passò in Siria dove Farnace aveva occupato diversi territori dopo aver sconfitto Domizio legato di Cesare. Avvertito dell'arrivo di Cesare Farnace gli mandò incontro ambasciatori con doni e proposte di pace ma Cesare, pur avendo con se limitate risorse, lo sconfisse rapidamente e scrisse a Roma la famosa frase Veni, Vidi, VIci.
Dopo questa vittoria Cesare tornò rapidamente a Roma dove si stavano verificando disordini, anche i suoi soldati erano inquieti per non aver ancora ricevuto i premi promessi prima di Farsalo. La promessa di ulteriori premi servì soltanto ad aumentare la tensione e mentre gli amici gli suggerivano di mettersi in salvo, Cesare, con estremo coraggio, si presentò sulla tribuna di Campo Marzio ai soldati che tumultuavano. Colpiti dall'intervento inattesi, i soldati si limitarono a chiedere di essere congedati sperando che Cesare per non perdere il suo esercito distribuisse i doni promessi ma il generale, con grande stupore di tutti, rispose che li congedava. Quando si rivolse agli spettatori chiamandoli "cittadini" e non "soldati", quelli lo pregarono di perdonarli e di punirli a sua discrezione.
Cesare, soddisfatto per l'effetto ottenuto, dichiarò che al termine delle guerre in corso intendeva distribuire terreni a tutti.
Superata la Sicilia, Cesare puntò verso Adrumeto dove sapeva trovarsi Scipione al comando di un'armata. Schierò le sue forze davanti al campo di Scipione e in assenza di quest'ultimo lo attaccarono i legati Labieno e Petreio e prevalsero su di lui, ma smisero di combattere prima di aver definitivamente sconfitto i cesariani.
Scipione fu raggiunto da altre truppe e da trenta elefanti forniti da Giuba, tuttavia nella successiva battaglia il suo esercito fu disfatto e fuggì per mare insieme ad Afranio.
Giunta la notizia di questa battaglia in Utica, molti fuggirono ma Catone rimase nella sua casa dove cenò tranquillamente e, dopo aver letto un brano di Platone, si colpì con la spada all'addome. I servitori della casa lo soccorsero e i medici ricucirono la sua ferita ma più tardi Catone la riaprì con e mani, la dilatò e lacerò le sue viscere fino a morirne. Aveva cinquanta anni ed era considerato giusto, onesto e coerente. Sposò Marzia e dopo aver avuto dei figli da lei la cedette all'amico Ortensio per riprenderla più tardi quando ebbe partorito altri figli. Catone ebbe a Utica splendide esequie. Cicerone scrisse il suo encomio al quale Cesare ribattè con l'Anticato.
Giuba e Petreio, perduta ogni speranza, si uccisero reciprocamente e Cesare nominò Crispo Sallustio governatore dell'e regno di Giuba. Fece giustiziare i seguaci di Pompeo rimasti in Utica risparmiando il figlio di Catone e la nuora di Pompeo. Lucio Scipione si scontrò con navi nemiche e, sconfitto, si uccise.
Tornato a Roma, Cesare celebrò quattro trionfi consecutivi: sui Galli, su Farnace, sugli Africani alleati di Scipione e sugli Egiziani. Non volle invece trionfare per le battaglie vinte contro altri romani.
Nominato console per la quarta volta, Cesare si recò in Spagna per la guerra contro Pompeo il Giovane con il quale si erano riuniti tutti i superstiti delle battaglie in Africa e a Farsalo. I più anziani compagni di Pompeo gli consigliarono di non affrontare direttamente Cesare e di lasciare che subisse gli effetti del tempo e della fame.
Cesare passò da Roma alla Spagna con ventisette giorni di marce forzate e le sue truppe erano demoralizzate per la stanchezza e per il timore de grande numero dei nemici. Incontrò Pompeo presso Cordova (altri autori scrivono Munda) e quando vide i suoi soldati rimanere incerti e spaventati di fronte al nemico si slanciò da solo contro le schiere di Pompeo, schivando o parando con lo scudo centinaia di frecce. A questa vista tutti i suoi soldati accorsero e combatterono con impeto per tutto il giorno.
Il giorno seguente i cesarieni presero la città di Cordova. Varo, Labieno e altri comandanti pompeiani erano caduti nella battaglia ma Gneo Pompeo era riuscito a fuggiore. Dopo alcune disavventure fu preso e giustiziato. Le sue milizie superstiti si raccolsero intorno al fratello minore Sesto Pompeo.
Cesare tornò a Roma pieno di gloria e gli furono tributati onori divini. Fu salutato padre della patria, dittatore a vita, console per dieci anni. Furono decretati spettacoli, sacrifici annuali e voti quinquennali per la sua salvezza, gli furono dedicati templi, statue e monumenti.
Cesare accettò gli onori ad eccezione del consolato decennale, nominò se stesso e Antonio consoli per l'anno successivo, richiamò gli esuli, perdonò ai nemici. Si oppose decisamente a quanti proponevano di nominarlo re.
Marullo tribuno della plebe portò in tribunale un ammiratore di Cesare che lo aveva chiamato re. Cesare non lo tollerò e fece rimuovere i tribuni dalla carica, fu un errore del quale si pentì e richiamò la guardia del corpo che aveva congedato.
Anche Antonio tentò più volte di incoronarlo in pubblico con un diadema che egli ogni volta gettò via.
Stanco delle critiche e dei sospetti, Cesare decise di intraprendere una nuova impresa militare contro i Parti per vendicare la sconfitta di Crasso. Inviò sedici legioni e diecimila cavalieri ma pochi giorni prima della partenza fu ucciso dai suoi avversari.
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