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Dionigi di Alicarnasso

Storia di Roma antica

Libro Primo


Prefazione.
Dionigi dichiara di voler rendere conto delle proprie fonti e di voler anteporre all'opera delle considerazioni di carattere metodologico.
Chi intende scrivere la storia deve "scegliere argomenti che siano di alto livello contenutistico" e deve "procurarsi con grande impegno, scrupolo e dedizione, gli strumenti indispensabili ".
La supremazia di Roma viene confrontata con i grandi imperi del passato: gli Assiri, i Medi, i Persiani, Alessandro Magno. Roma supera tutti per estensione dell'impero o per durata del dominio.
Le potenze greche furono effimere: gli Ateniesi dominarono le coste greche per sessantotto anni. Gli Spartani si impadronirono del Peloponneso e lo dominarono per trenta anni, quindi furono sconfitti dai Tebani.
Il dominio di Roma attualmente (7 a.C.) coincide con il sorgere ed il tramontare del sole e non ha eguali al mondo.
Dionisio dice di trovarsi sotto il consolato di Tiberio Claudio Nerone e di Gneo Calpurnio Pisone, nell'anno della 194ma Olimpiade, 745 anni dalla fondazione di Roma.
La scelta di trattare la parte più antica della Storia di Roma dipende dal voler dimostrare che Roma fu illustre fin dalle origini, ad onta dei suoi denigratori.
L'autore si ripropone di dimostrare che i fondatori della città erano di origine greca, e che Roma ha sempre dato prova di grande virtù e pietà religiosa.
Tutti i protagonisti della storia romana sono sconosciuti ai Greci perchè manca una storia scritta in greco, a parte taluni compendi molto brevi e generici.
Secondo Dionisio il primo ad occuparsi di storia romana antica fu lo storico Ieronimo di Cardia, nella sua opera sugli Epigoni. Dopo di lui vennero Timeo di Tauromenio, Polibio e Sileno.
Fra i Romani i più antichi autori di storia romana furono Quinto Fabio Pittore e Lucio Cincio Alimento, che si occuparono principalmente delle guerre puniche, per loro contemporanee.
Dionisio dunque ha deciso di comporre in greco una grande opera sulla parte più antica della storia romana a beneficio dei lettori ed in onore dei grandi Romani del passato, nonché in segno di gratitudine per i benefici ricevuti a Roma da quando vi ha posto la propria dimora.
Dionisio passa a chiarire il proprio metodo e le proprie fonti. Dice di essere sbarcato in Italia nel 30 a.C., dopo la battaglia di Azio e di essere vissuto a Roma, imparando il latino. Negli anni seguenti ha raccolto il materiale per la sua opera leggendo Catone, Fabio Massimo Servilliano, Valerio Anziate, Licinio Macro ed esaminando le tradizioni conservate dalle famiglie romane come gli Elii, i Gellii, i Calpurnii ed altri.
L'opera di Dionisio comincia dai racconti più antichi che hanno richiesto un grande lavoro di ricerca, ed arriva fino agli inizi della prima guerra punica, nel terzo anno della 128ma Olimpiade (265 a.C.).
Dionisio descriverà tutte le guerre, gli ordinamenti politici, le leggi più famose. La struttura dell'opera non sarà di tipo annalistico o monografico " ma sarà un insieme di eloquenza, di speculazioni filosofiche, e di narrazione più propriamente storica ".

Si dice, inizia Dionisio, che i più antichi abitatori del luogo dove sorse Roma, siano i Siculi, una "popolazione barbara ed autoctona". A scacciare i Siculi furono gli Aborigeni con l'aiuto dei Pelasgi e di alcune popolazioni greche.
Gli Aborigeni occuparono tutta la regione compresa fra il Tevere e il Liri. Al tempo della guerra di Troia furono governati dal re Latino, dal quale presero il nome di Latini per poi chiamarsi Romani quando Romolo fondò la città. Da allora in poi operarono per divenire il più potente popolo della terra. Cominciarono con il concedere ospitalità a chiunque la chiedesse.
Gli Aborigeni erano autoctoni dell'Italia secondo l'opinione di alcuni ed il nome indicherebbe la loro condizione di capostipiti. Per altri sarebbero stati dei nomadi ed il nome deriverebbe da Ab - Erro (errare di luogo in luogo). Altri infine ritenevano che fossero coloni Liguri.
Catone e Sempronio Tuditano ipotizzavano che questi primi abitanti fossero emigrati dalla Grecia molte generazioni prima della guerra di Troia. Gli Arcadi furono i primi Greci a sbarcare in Italia sotto la guida di Enotro, della dinastia regnante nel Peloponneso.
Genealogia di Enotro: da Foroneo nacque Niobe, da lei e da Zeus nacque Pelasgo. Da Ezeo nacque Licaone e da Licaone Deianira. Da Deianira e Pelasgo nacque un altro Licaone e da questi Enotro, diciassette generazioni prima della guerra di Troia.

Enotro lasciò la Grecia perchè insoddisfatto della parte di regno ricevuta (il padre Licaone aveva diviso l'Arcadia fra i ventidue figli) e con il fratello Peucezio giunse in Italia. Peucezio con parte del loro seguito occupò il territorio iapigio mentre Enotro raggiunse le coste del Mar Tirreno, che allora si chiamava Ausonio.
Enotro si stabilì in quei territori prevalentemente disabitati dando il proprio nome alla regione (Enotria).
Gli Enotri successivamente assunsero altri nomi dal re in carica, Ezei, Licaoni, Itali.
Citando il logografo greco Ferecide di Atene, Dionisio trova altra eco del mito di Enotro. Secondo l'autore se è vera la discendenza greca degli Aborigeni non può che risalire agli Enotri per motivi cronologici. Avrebbero occupato soprattutto le zone montuose come era uso degli Arcadi per poi scendere nella regione che sarà dei Latini come si è detto.
Poche città degli Aborigeni si sono conservate. Citando Varrone quelle più prossime a Roma erano nel Reatino ad una giornata di cammino. Di queste città le più famose al tempo di Dionisio, oltre Rieti, erano Palatio, Trebula, Suesbula (Vesbola), Suna, Mefula, Orvinium, Carsula, Marruvio, Vazia, Tora, Lista.
Interressante la nota di Dionisio che parla di un oracolo a Tora dove dicono vaticinasse per gli Aborigeni un Pico (Picchio) inviato dalla divinità.
La città di Lista fu conquistata agli Aborigeni dai Sabini.
A settanta stadi da Rieti (1 stadio = 185 metri) sorgeva la città di Cotilia, presso la quale si trovava una fonte sacra.
Si dice che gli Aborigeni avessero stabilito in questi luoghi il loro primo stanziamento dopo averne cacciato gli Umbri, in seguito per ampliare il loro territorio si scontrarono con i Siculi. Per prima si mosse una schiera consacrata di giovani (ver sacrum). Segue una descrizione dell'uso della primavera sacra in cui l'autore riconosce nell'eccedenza di popolazione la causa principale di quelle espulsioni.
L'ostilità fra Aborigeni e Siculi divenne molto ampia provocando una guerra di lunga durata.
In seguito un contingente di Pelasgi proveniente dalla Tessaglia, si trasferì in Italia ed accolti dagli Aborigeni si allearono con questi contro i Siculi. I Pelasgi erano una stirpe greca nomade: originari del Peloponneso si erano trasferiti in Tessaglia dove dopo sei generazioni erano stati cacciati da altre popolazioni.
Nella fuga si dispersero in varie regioni ed isole greche mentre una parte di loro, su indicazione di un oracolo aveva raggiunto l'Italia.

In Italia una parte dei profughi raggiunse la foce del Po, nella zona di Spina, dove prosperò per molto tempo finchè non fu sconfitta dai barbari.

19) Un 'altra parte dei Pelasgi dirigendosi verso l'interno si scontrarono con gli Umbri quindi raggiunsero il territorio degli Aborigeni. Inizialmente si scontrarono con gli Aborigeni ma quando compresero di essere giunti nel luogo loro indicato dall'oracolo chiesero di essere accolti amichevolmente.

20) Gli Aborigeni, saputo dell'oracolo e della loro comune origine greca, accolsero i Pelasgi. Si strinsero accordi ed ai nuovi venuti fu concesso un territorio in parte paludoso. Successivamente la carenza di terra spinse Aborigeni e Pelasgi ad unirsi ai danni degli Umbri e dei Siculi. Conquistarono insieme molte città fra le quali Agilla (poi Cere), Pisa, Saturnia, Alsium e altre degli Etruschi.

21) Le città di Falerii e Fescenmio, in origine dei Siculi conservano ancora (al tempo di Dionisio) tracce dei Pelasgi e sono abitate dai Romani. In queste città si conservano rituali ed usi di chiara origine greca, a Falerii sorge un tempio di Era come ad Argo. I Pelasgi si impossessarono anche di ampi territori in Campania, dove fondarono città, alcune delle quali, in forma di villaggi, si erano conservate fino ai tempi di Dionisio.

22) Pelasgi ed Aborigeni costrinsero infine i Siculi ad abbandonare i loro territori ed a migrare verso Sud. I profughi giunsero all'estremo meridionale della penisola e sempre respinti dalle popolazioni locali dovettero infine attraversare lo stretto per stabilirsi nell'isola che da loro prese il nome di Sicilia. L'isola si era chiamata Trinacria poi Sicania, dalla popolazione dei Sicani, di stirpe Iberica che recentemente vi si era stabilita.

I Sicani erano poco numerosi ed i Siculi trovarono dimora prima nella parte occidentale poi in molte altre zone.

Così la stirpe sicula lasciò l'Italia verso la metà del XIII secolo a.C.

23 - 24) I Pelasgi riuscirono a compiere grandi progressi ma quando furono all'apice della prosperità vennero colpiti dall'ira degli dei che si manifestò con la siccità, la carestia, varie epidemie e la nascita di molti individui deformi. Un oracolo spiegò che l'offesa degli dei dipendeva dall'inadempienza di un voto di decime fatto in precedenza in occasione di un'annata di scarsi raccolti. Si stabilì che l'oracolo richiedeva anche la decimazione dei nati umani e ne nacque tanta discordia fra i Pelasgi che essi si dispersero, persero la concordia e la loro civiltà ne fu distrutta.

25) I Pelasgi avevano sviluppato grande abilità come militari e come navigatori. Dagli autori greci sono spesso identificati o confusi con i Tirreni.

26) La decadenza dei Pelasgi iniziò durante la seconda generazione precedente la guerra di Troia e si protrasse anche oltre di essa finchè quasi tutte le loro città cessarono di esistere. Sopravvisse Crotone, nel territorio umbro, poi colonia dei Romani con il nome di Cortona.
Gran parte dei territori abbandonati dai Pelasgi fu occupata dai Tirreni.

Per alcuni autori i Tirreni erano autoctoni, per altri si trattava di una popolazione immigrata.

27) I sostenitori della tesi dell'immigrazione dicono che provenivano dalla Lidia, guidati da un capo di nome Tirreno, discendente di Zeus.

28) In altre versioni del mito Tirreno era figlio di Eracle o di Telefo. Lo storico Xanto di Sardi (V secolo a.C.) ,che Dionisio considera fonte primaria della storia della Lidia, non parla però nè di Tirreno, nè dell'emigrazione. Dionisio lo cita a sostegno della tesi dell'autoctonia.

29) Dionisio esprime la propria opinione dichiarandosi sicuro che Tirreni e Pelasgi fossero due stirpi ben distinte ed indipendenti, basandosi anche su considerazioni di carattere linguistico.

30) Per lo stesso motivo dubita che i Tirreni fossero coloni dei Lidi, e propende per la teoria dei Tirreni autoctoni.

I Tirreni sono detti dai Romani Etruschi o Tusci. Inoltre Dionisio dice che i Tirreni si davano una propria denominazione derivata da un loro capo di nome Rasenna. Dionisio è l'unica fonte di questo dato.

31) Non molto tempo dopo, sessanta anni prima della guerra di Troia (1243 a.C. circa) si verificò un'altra spedizione greca nell'Italia centrale, proveniente dalla città arcadica di Pallantio e guidata da Evandro.

Evandro era figlio di Hermes e di una ninfa arcadica, detta Temide dai Greci e Carmenta dai Romani.

Evandro e i suoi emigravano dopo essere stati sconfitti da una rivolta popolare.

Regnava sugli Aborigeni il re Fauno, in seguito divinizzato. Fauno accolse benevolmente gli Arcadi e concesse loro di scegliere la terra sulla quale risiedere, scelsero un colle, poi al centro di Roma, e vi fondarono un piccolo villaggio, che chiamarono Palatino in ricordo della città natale, dal nome Pallantio derivò Palatium (Palatino).

32) Secondo altri storici fra cui Polibio (ma la citazione non è rintracciabile nell'opera superstite di Polibio) il nome Palatino derivò invece da Pallante, nipote di Evandro, che morì giovinetto in quel luogo. Dionisio dubita di questa versione perchè mentre Evandro e Carmenta erano ancora venerati ed onorati a Roma, non trova tracce di un culto di Pallante.

Gli Arcadi stabilitisi sul Palatino eressero templi alle loro divinità e consacrarono a Pan la grotta che i Romani chiamavano Lupercale. In onore di Pan gli Arcadi istituirono anche il rito perpetuo dei Romani anch'esso con il nome Lupercali.

33) Altri riti e luoghi sacri furono dedicati dagli Arcadi a Nike, Demetra e Posidone.
Agli Arcadi veniva attribuita l'introduzione in Italia dell'alfabeto greco e della musica strumentale. Convivendo con gli Aborigeni mitigarono i costumi " selvatici " di questi.

34) Pochi anni dopo giunsero i Greci seguaci di Eracle, reduce dalla conquista dell'Iberia. Parte di loro si congedò stabilendosi sul colle che si sarebbe chiamato Campidoglio. Probabilmente a questo insediamento risaliva secondo alcuni il culto di Giano e Saturno sul Palatino, ma Dionisio sostiene che il culto di Saturno era già attestato in Italia all'arrivo degli Eraclidi.

35) Con l'andar del tempo la penisola prese il nome di Italia dal re Italo. Secondo Antioco di Siracusa Italo era di stirpe enotra e seppe conquistare o annettere vasti territori. Ellanico propone invece una etimologia molto stravagante facendo risalire il nome Italia alla parola Vitulus (Vitello) con riferimento ad un vitello fuggito a Eracle che attraversò la penisola.

36) Divagazioni di Dionisio sulla varietà delle ricchezze naturali dell'Italia.

37) Ancora sulle fortune dell'Italia, la qualità e la varietà delle colture e degli allevamenti, la bellezza del paesaggio, la ricchezza dei fiumi, la delizia del clima.

38) Per queste caratteristiche l'Italia era considerata dagli antichi sacra a Crono - Saturno, dio dispensatore di doni e ricchezze. Eracle avrebbe istituito il rito degli Argei, fantocci che venivano gettati sacralmente nel Tevere, per sostituire gli antichi sacrifici umani in onore di Saturno.

39) Le vicende di Eracle che hanno relazione con gli argomenti trattati. Fra le varie imprese gli era stato ordinato da Euristeo di condurre le mandrie di Gerione da Eriteia ad Argo. Al ritorno giunse nel territorio di Pallantio, dove sostò per pascere la mandria. Mentre riposava un ladrone di nome Caco rubò un certo numero di vacche nascondendole nella grotta dove abitava. Svegliandosi Eracle prese a cercare gli animali scomparsi e riuscì a trovarli grazie ai loro muggiti, venne alle mani con Caco e ovviamente ebbe la meglio. Dal sacrificio che Eracle offrì a Giove per ringraziamento derivò un rituale perpetuo dei Romani.

40) Gli Aborigeni e gli Arcadi furono riconoscenti ad Eracle per l'eliminazione del brigante e gli tributarono grandi onori, Evandro lo invitò a rimanere con loro. Un vaticinio di Carmenta predisse la divinizzazione dell'eroe.

Eracle istituì un rito sacrificale presso quelle genti che per prime lo riconoscevano come dio e l'altare su cui sacrificarono fu detto " Ara Massima " e si trovava nei pressi del Foro Boario.

41) Una versione più " storica " del mito di Eracle diceva che l'eroe dedicò la propria esistenza ad abbattere tiranni, ed istituire governi giusti ed umanitari e a compiere grandi opere. In Italia sarebbe arrivato non conducendo una mandria ma a capo di un grande esercito con l'intento di istaurare uno dei suoi governi modello. Si scontrò con i Liguri in una grande battaglia.

42) Vinti i Liguri trovò amicizia da parte di molte città ed ancora avversari fra i quali Caco, in questa versione un principe barbaro dedito al brigantaggio. Caco riuscì a depredare l'accampamento di Eracle ma in seguito fu assediato e vinto.

Conclusa la sua campagna in Italia Eracle vi lasciò parte dei suoi assegnando loro terre e domini, in alleanza con Evandro e Fauno.

43) Taluni narrano che lasciò in Italia due figli: Pallante, avuto da Lavinia figlia di Evandro, e Latino. Madre di Latino era una fanciulla avuta in ostaggio da un precedente nemico. Durante la traversata per l'Italia Eracle se ne innamorò e la rese incinta di Latino, poi consentì che la fanciulla sposasse Fauno. Per questo motivo alcuni considerano Latino figlio di Fauno.

Pallante morì ancora adolescente mentre Latino divenne re degli Aborigeni. Successivamente il regno passò ad Enea.

44) Eracle fondò nel luogo dove si trovava ormeggiata la sua flotta una piccola città alla quale dette il proprio nome.

Si trattava di Ercolano. Conclusa la campagna in Italia Eracle passò in Sicilia, i suoi seguaci rimasti sul luogo presto si integrarono con gli Aborigeni.

45) Due generazioni dopo, quando Latino regnava da trentacinque anni, giunsero a Laurento Enea ed i Troiani suoi compagni.

Laurento (forse il porto di Lavinio) era località litoranea degli Aborigeni, prossima alla foce del Tevere.

Accolti dagli Aborigeni i profughi ottennero un territorio dove si insediarono fondando Lavinio, poco dopo mutarono il nome assumendo, insieme agli Aborigeni, quello di Latini.

Quando si spostarono da Lavinio fondarono una città più grande che chiamarono Albalonga e quindi molti altri centri che furono detti dei Prisci Latini.

Sedici generazioni più tardi dedussero una colonia sul Pallantio (Palatino) dove avevano abitato i Peloponnesiaci e gli Arcadi e circondarono il colle di mura vi crearono un primo assetto urbano. La nuova fondazione fu chiamata Roma dal nome di Romolo, condottiero della colonia, il diciassettesimo discendente di Enea.

46) Rassegna delle versioni sulla venuta di Enea in Italia.

Alla caduta di Troia Enea tentò di organizzare una resistenza nella fortezza della città raccogliendovi superstiti, ricchezze ed oggetti sacri. Vedendo la città ormai perduta organizzò e coprì la fuga dei vecchi, delle donne e dei bambini quindi protetta la resistenza per permettere ai fuggitivi di mettersi in salvo abbandonò al nemico la città ormai deserta e si allontanò con i familiari, altri notabili e vari oggetti sacri o preziosi.

47) Gli Achei si impegnarono al saccheggio e non inseguirono Enea che riparò sull'Ida.

Ai Troiani si unirono i cittadini di alcuni centri minori anche essi minacciati dai Greci. I rifugiati speravano di tornare in città quando il nemico fosse partito ma gli Achei minacciarono di attaccare anche il loro accampamento. Si venne ad una trattativa e gli Achei proposero che Enea e i suoi partissero dalla Troade recando con se le ricchezze che avevano salvato e consegnando le fortezze. Enea accettò e mandò il figlio Ascanio in una terra chiamata Dascilite con un manipolo di alleati.

Ascanio vi si insediò e più tardi tornò a Troia (il passo non è chiaro).

Enea allestita la flotta riunì gli altri figli, il padre, gli oggetti di culto e fece rotta verso la Penisola Calcidica, abitata da un popolo amico.

48) L'autore cita altre versioni della fuga di Enea.

Sofocle nel Laocoonte dice che Enea fugge per ordine di Anchise che aveva previsto la caduta della città.

Per Menecrate di Xanto Enea tradì e fu ricompensato dagli Achei con l'immunità.

49) Le fonti sono discordi anche su ciò che Enea fece dopo la fuga. Secondo alcuni si sarebbe fermato in Arcadia, per altri avrebbe fondato Capua.

Per i Romani Enea giunse senz'altro in Italia. Dionisio riepiloga le tappe del viaggio.
Enea, in Tracia fondò Eneia lasciandovi parte dei suoi seguaci.

50) Fu quindi a Delo, poi a Citera, quindi a Zacinto, dove sostò a lungo ospitato amichevolmente. Poi raggiunse Leucade, Azio, Ambracia. In quasi tutte le località dove Enea e i suoi sostarono fondarono un tempio di Afrodite.
50) Fu quindi a Delo, poi a Citera, quindi a Zacinto, dove sostò a lungo ospitato amichevolmente. Poi raggiunse Leucade, Azio, Ambracia. In quasi tutte le località dove Enea e i suoi sostarono fondarono un tempio di Afrodite.

51) Passarono da Butroto e consultarono l'oracolo di Dodona, quindi intrapresero la traversata dello Ionio.

Parte delle navi di Enea sbarcò sulla costa pugliese, quindi costeggiarono fino a passare lo Stretto.

52) Giunti al largo della Sicilia sbarcarono a Trapani.

In Sicilia incontrarono altri profughi troiani, guidati da Elimo ed Aceste. Una parte del seguito di Enea si fermò in Sicilia.

53) Enea e quanti continuavano a seguirlo traversarono il Tirreno ed approdarono in Italia prima nel porto di Palinuro, poi nell'isola che battezzarono Leucosia. Giunsero poi in un porto al quale dettero il nome di Miseno, uno dei loro personaggi più eminenti, quindi a Procida e a Gaeta, infine a Laurento ove si fermarono e fondarono un insediamento che chiamarono Troia.

Dionisio sostiene questa versione contro chi ipotizzava un ritorno di Enea in Frigia.

54) La fama di Enea spiega il fatto che molte popolazioni che lo conobbero durante le sue peregrinazioni vollero dedicargli monumenti sepolcrali.

55) Sulla costa laziale si verificarono i segni indicati dall'oracolo: sgorgò una fonte e mangiarono le mense (cioè le foglie o le focacce sulle quali avevano disposto il cibo). Entusiasti si apprestarono a sacrificare agli dei.

56) La scrofa incinta destinata al sacrificio riuscì a fuggire ed Enea comprese che doveva seguirla come indicato dall'oracolo (seguire una guida a quattro zampe). Enea seguì dunque la scrofa finchè questa, stremata, non si lasciò cadere su un altura arida ed inospitale.

L'eroe dubitò che quello fosse il sito scelto dagli dei ma una visione o un sogno gli garantì che era proprio lì che doveva stabilire la propria dimora. Il giorno successivo, ancora confermando dettagli della profezia, la scrofa partorì trenta maialini e trenta giorni dopo i Troiani fondarono un'altra città (Albalonga).

57) Enea sacrificò la scrofa nel luogo ove poi sorse il suo tempio di Lavinio, quindi si insediò nel luogo indicato.

Il re indigeno era Latino, in guerra con il popolo dei Rutuli.

Latino fu informato dell'arrivo dei Troiani e credendoli invasori si preparò a dar loro battaglia. Piantò un accampamento davanti a quello dei Troiani ed aprì le ostilità ma durante la notte sia Enea che Latino ebbero un sogno con il quale gli dei li spingevano a trattare ed accordarsi.

58) Latino si informò sulle origini e sulle intenzioni dei nuovi venuti. Enea dopo aver raccontato la sconfitta di Troia chiede di potersi stabilire nel territorio di Latino avvertendo che in caso di rifiuto era pronto a combattere. Latino propone di scambiare dei pegni.

59) Gli Aborigeni concessero ai Troiani tutta la terra di cui avevano bisogno intorno alla collina indicata dal presagio mentre i Troiani si impegnarono ad aiutarli nella guerra contro i Rutuli ed in ogni altra futura evenienza. Il patto fu suggellato con scambio di ostaggi e si intrapresero subito le azioni contro i Rutuli che furono rapidamente sconfitti, quindi i Troiani, aiutati dai nuovi alleati completarono la costruzione della nuova città che chiamarono Lavinio. In genere per il nome Lavinio si fa riferimento a Lavinia, figlia di Latino, altre fonti indicavano una Lavinia figlia di Anio, re dei Delii, facente parte del gruppo di Enea in qualità di indovina, che sarebbe stata la prima a morire di malattia nella nuova città.

60) Latino concesse la propria figlia in matrimonio ad Enea ed in breve i due popoli si fusero assumendo la denominazione comune di Latini.

Riepilogo delle popolazioni preromane: gli Aborigeni che cacciarono i Siculi, i Peloponnesiaci di Enotro provenienti dall'Arcadia, i Pelasgi, gli Arcadi di Evandro, gli Epei e i Feneati, anche essi provenienti dal Peloponneso (il gruppo di Eracle), infine i Troiani di Enea.

61) Divagazione sull'origine greca dei Troiani. Atlante fu il primo re di Arcadia, aveva sette figlie (le Pleiadi), una delle quali fu sposa di Zeus ed ebbe due figli: Iasio e Dardano.

Dardano sposò Crise, figlia di Pallante e ne ebbe Ideo e Dimante, i quali ereditarono il regno di Atlante. Dopo qualche tempo un gigantesco diluvio rese inospitale gran parte dell'Arcadia e metà della popolazione emigrò in cerca di terra.

I profughi raggiunsero un isola in Tracia alla quale detto il nome di Samotracia, dalla loro guida Samone (Saone), figlio di Hermes.

L'isola era inospitale e gran parte di loro, guidati da Dardano, ripartirono alla volta dell'Asia, raggiungendo la Frigia.

Ideo, figlio di Dardano, si stabilì sui monti che da lui presero il nome di Idei, mentre Dardano ottenne dal re Teucro il territorio dove fondare una città.

62) Genealogia di Enea:

Dardano e Batea (figlia di Teucro) generarono Erittonio.

Erittonio e Calliroe (figlia di Scamandro) generarono Troo, eponimo della Troade.

Da Troo e Acellaride (figlia di Eumede), nacque Assaraco.

Da Assaraco e Clitodora (figlia di Laomedonte), nacque Capi.

Da Capi e dalla naiade Ieromneme, nacque Anchise.

Da Anchise ed Afrodite nacque Enea.

63) Datazione della fondazione di Lavinio.

Per Dionisio circa due anni dopo la caduta di Troia, nel 1181 a.C. secondo la cronologia di Eratostene.

64) Enea regnò tre anni sui soli Troiani, durante il quarto anno morì Latino ed Enea ebbe il regno unito dei due popoli. Frattanto i Rutuli si erano di nuovo ribellati, sotto la guida di Tirreno, cugino di Amata, moglie di Latino (questo Tirreno è identificabile con Turno). Tirreno aveva ripreso le ostilità perchè Enea gli era stato preferito per le nozze di Lavinia.

Nella guerra erano morti Latino, lo stesso Tirreno e molti altri. Tre anni dopo Mesentio, re dei Tirreni, si alleò con i Rutuli e marciò contro Lavinio di cui temeva la crescente potenza. In questa guerra morì Enea e poichè il suo corpo non fu ritrovato si credette che fosse stato assunto fra gli dei ed i Latini gli eressero un monumento (ancora visitabile ai tempi di Dionisio) che recava un'iscrizione dedicatoria in cui veniva citato anche il fiume Numico (che in alcune tradizioni aveva accolto e purificato la salma di Enea).

Si tratta dell'Heeron di Enea a Pratica di Mare, rinvenuto in recenti scavi archeologici.

65) Alla dipartita di Enea (sette anni dopo la caduta di Troia) gli successe Eurileonte che durante la fuga aveva preso il nome di Ascanio. Mesentio protrasse lungamente il suo assedio finchè i Latini chiesero di conoscere le condizioni di resa ma le pretese dell'assediante erano inaccettabili (fra l'altro voleva che ogni anno gli fosse ceduta l'intera produzione di vino) e gli assediati riorganizzarono le proprie forze. In un'improvvisa sortita notturna ebbero la meglio sui Tirreni che a loro volta proposero la resa. Mesentio ottenne di potersi allontanare con il suo esercito e divenne alleato dei Latini.

Nella tradizione latina il nome appare nella grafia Mezentio o Mezenzio, secondo Livio era re di Cere.

Secondo Catone anche Mezentio muore durante la guerra. Nell'Eneide viene ucciso da Enea. La vicenda del vino è citata in altra forma nei Fasti di Ovidio.

66) Trenta anni dopo la fondazione di Lavinio Ascanio fondò Albalonga, in una posizione ben difendibile fra un lago ed un monte. Il sito di Albalonga era ameno e vi si produceva (ai tempi di Dionisio) l'ottimo " vino albano ".

67) Si racconta un prodigio risalente alla fondazione di Albalonga: quando vi furono trasportate le immagini degli dei e gli oggetti sacri che Enea aveva collocato a Lavinio, durante la notte misteriosamente immagini ed oggetti tornarono al luogo originale senza che nel nuovo santuario si trovassero segni di effrazione. I Latini decisero di lasciare a Lavinio trecento persone per prendersi cura delle reliquie. I Romani chiamano Penati questi loro dei.

68) Si mostra in Roma, dice Dionisio, lungo una via che conduce alle Carine, un piccolo tempio nella località detta Velia. Vi si conservano le effigi degli Dei dei Troiani che un'epigrafe definisce Penati. Sono due giovanetti seduti che impugnano lance. Secondo le fonti di Dionisio i simulacri risalivano a Crisa, figlia di Pallante (vedi 62 - Genealogia di Enea) ed avrebbero seguito la sua discendenza.

69) I simulacri furono collocati ad Ilio da Dardano e posti in salvo da Enea. Accettando queste tradizioni Dionisio afferma che " gli oggetti sacri portati in Italia da Enea sono i simulacri dei Grandi Dei.... e il favoloso Palladio che si dice custodito dalle sacre vergini nel tempio di Hestia, dove si conserva anche il fuoco perpetuo ".

70) Ascanio morì nel trentottesimo anno del suo regno e gli succedette il fratello Silvio, nato a Lavinia dopo la morte di Enea.

Quando Enea morì Lavinia, temendo di essere invisa ad Ascanio, si nascose aiutata da un guardiano di porci amico di Latino di nome Tirreno (Tyrrens o Tyrrus) nella foresta; da qui il nome di Silvio nato, appunto in quella situazione.

Successivamente Lavinia e Silvio tornarono fra la gente ed alla morte di Ascanio suo figlio Iulo contese il regno con Silvio.

Il popolo votando optò per Silvio ed a Iulo toccò la carica sacerdotale, onore poi ereditato costantemente dai suoi discendenti (la Gens Iulia).

71) Silvio regnò per trentuno anni, gli succedette il figlio Enea (Enea Silvio) che regnò per ventinove anni.

Dopo di lui governò Latino per cinquantuno anni, quindi Albas per trentanove, poi Capeto per ventisei, Capi per ventotto, Capeto per ventisei, Tiberino per otto. Tiberino, morendo in battaglia, cadde nel fiume Albula che da lui prese il nome Tevere.

Agrippa, successore di Tiberino regnò per quarantuno anni, gli successe Allodio per diciannove anni. Costui era di natura dispotica e fu odiato da tutti, trovò il modo di imitare fulmini e tuoni per regnare con il terrore, infine fu travolto da un'alluvione. Il successore di Allodio, Aventino dette il nome ad uno dei colli di Roma e regnò per trentasette anni seguito da Proca, re per ventitre anni, e da Amulio che dopo aver usurpato il potere che spettava al fratello Numitore, regnò per quarantadue anni.

Dopo che Amulio fu ucciso dai nipoti (Romolo e Romos li chiamava Dionisio), Numitore riprese il potere.

Un anno dopo i gemelli dedussero una colonia e fondarono Roma, nel 432simo anno dopo la caduta di Troia, primo anno della settima Olimpiade e primo anno dell'arcontato di Caropo ad Atene.

72) Altre versioni riguardanti la fondazione: Cefalone di Gergis diceva che Roma era stata fondata da un figlio di Enea di nome Romos, d'accordo con altri autori dal punto di vista cronologico.
Per Ellanico e Damaste di Sigeo sarebbe stata fondata dallo stesso Enea e chiamata con il nome di una donna del suo popolo che aveva incendiato le navi per porre fine alle loro peregrinazioni.
Secondo Aristotele i fondatori furono gli Achei reduci da Troia capitati nel luogo a causa di una tempesta, le loro prigioniere troiane avrebbero incendiato le navi per evitare di essere deportate in schiavitù, costringendoli in questo modo a stabilirsi nel posto. Per Callia di Siracusa invece la città fu fondata dai tre figli di Latino e di una donna di nome Roma.
Secondo Xenagora Romos, Anteo ed Ardeas furono figli di Odisseo e Circe e fondatori eponimi di altrettante città.

Dionisio di Calcide dice che fu fondata da un Romos figlio di Ascanio. Infine per altri Romos sarebbe stato figlio di Italo e di Leucaria, figlia di Latino.

73) Negli autori latini Dionisio legge che i fondatori della città sarebbero stati figli o nipoti di Enea, consegnati da Enea a Latino come ostaggi ricevettero dagli Aborigeni una parte del regno. Ancora secondo fonti latine Roma sarebbe stata fondata dai figli di Enea quindi abbandonata e ricolonizzata da Romolo e Remo, ci sarebbero state dunque due fondazioni, la prima ai tempi di Enea e la seconda quindici generazioni dopo.

74 - 75) Timeo colloca la fondazione di Roma trentotto anni prima della prima Olimpiade (824 a.C.), Cincio Alimento nel quarto anno della dodicesima (745 a.C.), Fabio Pittore nel primo dell'ottava (728 a.C.).

Catone la colloca quattrocentotrentadue anni dopo la caduta di Troia, corrispondente al primo anno della settima Olimpiade (751 a.C.).

Infine Polibio datava la fondazione del secondo anno della settima Olimpiade, datazione accettata da Dionisio che ne spiega i motivi tramite l'analisi dei documenti ufficiali: le tavole custodite dai sacerdoti e le " liste dei censori ".

In base a questi documenti si sarebbe arrivati a stabilire l'epoca del primo consolato, considerando poi la durata del regno dei sette re si risale alla data suddetta.

76) Riprende la narrazione dai tempi di Romolo.

Quando Amulio ottenne il regno tramò per eliminare la discendenza di Numitore. Fece uccidere Egesto, figlio di Numitore, simulando un agguato dei briganti, quindi nominò la nipote Rea Silvia (o Ilia) vestale vincolandola ad un voto di castità per evitare che mettesse al mondo pericolosi discendenti. Numitore si rese conto del crimine e delle intenzioni del fratello ma decise di aspettare momenti migliori per vendicarsi.

Nota: Dionisio dice che le vestali dovevano rimanere senza marito per almeno cinque anni.

77) Quattro anni dopo Rea Silvia fu violentata, secondo alcuni da uno dei suoi vecchi pretendenti, secondo altri dallo stesso Amulio mascherato ma per i più da un dio che dopo averle predetto due figli straordinari se ne sarebbe tornato in cielo avvolto da una nube.

78) Amulio venuto a conoscenza dello stupro subito da Rea Silvia intentò un processo coinvolgendo ed accusando Numitore.

Numitore riuscì ad ottenere un rinvio e mentre il processo era ancora in corso Rea Silvia partorì i gemelli.

Amulio continuò a perorare l'accusa davanti al consiglio facendo valere la propria autorità fino ad ottenere la condanna a morte di Rea Silvia e l'abbandono dei neonati alla corrente del fiume.

79) Sugli eventi seguenti le fonti erano discordi, per alcuni Rea Silvia fu immediatamente posta a morte, per altri detenuta in una prigione segreta avendo ottenuto la grazia per intercessione della figlia di Amulio.

I due neonati furono condannati, secondo Fabio Pittore (dal quale dipendono molti autori) ad essere abbandonati nelle acque del Tevere. Gli esecutori li lasciarono in una cesta in un punto acquitrinoso perchè il fiume era straripato ed impediva loro di avvicinarsi ad un punto dove il letto fosse più profondo.

Dopo aver galleggiato per un tratto la cesta si arenò ed i neonati furono soccorsi dalla lupa che li allattò. Arrivò un pastore che rimase stupefatto dalla mansuetudine della lupa ed andò a chiamare i suoi compagni. I pastori ravvisarono nell'insolito spettacolo i segni di un prodigio. La lupa si allontanò tranquillamente nascondendosi in un bosco che si diceva sacro a Pan.

Dionisio testimonia che nel luogo (il Lupercale) si conservava ai suoi tempi un " complesso bronzeo di antica fattura " raffigurante la lupa che allatta due bambini. Si tratta del monumento celebrativo collocato dagli edili Ogulnii nel 295 a.C.

Un fulmine nel 65 a.C. danneggiò le figure dei gemelli e la lupa fu interrata in quanto sconsacrata dal fulmine.

Probabilmente è identificabile con la famosa Lupa Capitolina (Museo dei Conservatori), opera di difficile datazione, forse etrusca del sesto secolo a.C. (i Gemelli furono aggiunti nel XV secolo dal Pollaiolo).

I gemelli furono adottati dai pastori, fra i quali Faustolo, guardiano dei porci reali. Questi era stato recentemente in città ed avendo avuto notizia del processo di Rea Silvia intuì la vera identità dei gemelli. Fu lui a prendere i gemelli che portò alla moglie, consolandola del dolore di aver perduto un bimbo appena nato. Faustolo diede ai gemelli i nomi di Romolo e Romos.

Quando crebbero il loro aspetto regale li distingueva dai pastori dei quali condividevano la vita.
All'età di diciotto anni ebbero una controversia con i pastori di Numitore per l'utilizzo di pascoli comuni e furono coinvolti in una rissa. I gemelli ebbero la meglio e gli avversari tramarono un'imboscata per vendicarsi, attaccando nottetempo le greggi dei due. Romolo si trovava a Cenina a svolgere riti sacrificali, Romos tentò una sortita con i pochi abitanti del villaggio contro gli aggressori ma fu attirato in una trappola e catturato.

80) Nella variante dell'episodio attinta da Elio Tuberone Romos viene catturato durante la festa dei Lupercali.

Romolo organizza immediatamente la liberazione del fratello ma Faustolo lo trattiene e gli racconta finalmente la verità sulle sue origini, persuadendolo a pazientare ed a organizzare l'attacco con forze maggiori per sconfiggere definitivamente Amulio.

81) Romolo raduna tutti gli abitanti del villaggio ed ordina loro di entrare in Albalonga passando inosservati ed attendere nel Foro il suo comando. Intanto Romos veniva condotto davanti ad Amulio e da questi condannato. Amulio lasciò però a Numitore l'autorità di procedere contro di lui. Numitore rimane colpito dal portamento del giovane e si apparta con lui per interrogarlo sulle sue origini. Romos rivela di essere stato abbandonato insieme ad un fratello gemello ed adottato da un pastore. Numitore intuendo la verità lo libera e gli chiede di aiutarlo a vendicarsi dell'usurpatore Amulio.

82) Numitore riconosciuto il nipote manda a chiamare anche Romolo e dopo un gioioso riconoscimento i tre cominciano ad organizzare l'offensiva contro Amulio. Nel frattempo Faustolo, temendo che Romolo potesse non essere creduto, cerca di raggiungerlo portando come prova la cesta che aveva contenuto i neonati, ma viene tradito dal proprio nervosismo quando viene interrogato dalle guardie reali al momento di entrare in città. Condotto davanti a Amulio è da questi costretto a svelare la verità. Saputo che i due gemelli sono sopravvissuti Amulio dimostra inaspettata e sospetta mitezza, dichiarando di volerli accogliere a corte.

83) L'atteggiamento di Amulio insospettisce Faustolo che nasconde il fatto che i giovani si trovano presso Numitore e propone di accompagnare gli uomini di Amulio alla loro capanna, nella speranza di ottenere la libertà e dare il tempo ai gemelli di organizzarsi. Amulio in effetti ordina segretamente ai suoi di catturare le persone che il porcaio avrebbe indicato. Quindi Amulio manda a chiamare Numitore con l'intenzione di trattenerlo sotto custodia ma il suo messo mette in guardia Numitore svelandogli il disegno di Amulio. I gemelli passano dunque all'attacco aiutati dai compagni che si erano frattanto infiltrati in città e l'usurpatore viene rapidamente sconfitto ed ucciso. Questa la versione che Dionisio riprende da Fabio Pittore.

84) Nella versione razionale che Dionisio propone i gemelli sono salvati da Numitore che riesce a sostituirli con altri neonati, quindi li affida in adozione a Faustolo.
La lupa non è un animale ma il soprannome della moglie di Faustolo che un tempo si era prostituita. Una volta svezzati i bambini sarebbero cresciuti a Gabii, ricevendo un'educazione di tipo greco, in casa di persone legate a Faustolo. Anche la contesa fra i pastori sarebbe stata, in questa versione, un espediente di Numitore per ottenere che gli fossero affidati i figli del mandriano di Amulio e quindi aprire le ostilità.

85) Dopo la morte di Amulio, Numitore riprese il potere e riordinò la vita cittadina, quindi decise di fondare una nuova città per dotare i nipoti di un potere indipendente. Affidò dunque ai due giovani le terre nelle quali erano stati allevati e li mise alla guida di una parte della popolazione costituita da coloro che probabilmente gli erano ostili e da tutti quelli che gradivano seguirli. Fra questi erano molti individui di condizione popolare ma anche famiglie nobili, in particolare quelle risalenti all'elemento troiano.

86) Dotati di provviste, bestie e schiavi i gemelli condussero la popolazione fuori da Albalonga e la mescolarono con quanti vivevano presso il Palatino ed il Campidoglio. Ma presto fra Romolo e Romos e fra i rispettivi sostenitori nacque la discordia a proposito della supremazia. La discordia si manifestò al momento di scegliere il luogo per la costruzione della città, optando Romolo per il Palatino e Romos per altro luogo dove intendeva fondare una città di nome Remoria.
86) Per dirimere la contesa i giovani decisero di chiedere consiglio al nonno. Numitore propose di affidarsi alla volontà degli dei prendendo auspici. In un giorno stabilito Romolo si recò sul Palatino, Romos sull'Aventino avendo convenuto che il potere sarebbe stato del primo che avesse visto presagi favorevoli. Pare che Romolo per distrarre il fratello lo mandasse a chiamare dicendo di aver visto qualcosa ma mentre i suoi inviati lo raggiungevano Romos avvistò sei avvoltoi. Mentre discutevano apparvero sul Palatino dodici avvoltoi e Romolo concluse senz'altro di essere lui il prescelto suscitando l'indignazione dell'altro.

87) La contesa divenne ancora più aspra. Avendo visto entrambi lo stesso tipo di presagio l'uno pretendeva la vittoria per la precedenza, l'altro per il maggior numero di uccelli visti. Ne nacque una rissa che degenerò in vero e proprio combattimento. Vi persero la vita Faustolo (nel tentativo di porre fine alla contesa) e Romos.

Romolo fece seppellire il fratello nel luogo dove avrebbe voluto erigere la propria città. Un leone di pietra che ai tempi di Dionisio si trovava nel Foro era invece ritenuto il monumento funebre di Faustolo. Addolorato e pentito Romolo cadde in prostrazione ma si riprese consolato da Lucrezia (Acca Larenzia, la madre adottiva) e riuniti i superstiti della battaglia iniziò la costruzione della città.

Secondo un'altra versione non ci sarebbero stati combattimenti e Romos avrebbe accettato la supremazia di Romolo ma in segno di spregio avrebbe saltato il muro che si stava costruendo. Il sovrintendente ai lavori, di nome Celere, lo avrebbe ucciso con un colpo di vanga per vendicare l'offesa.

88) Dopo aver fatto auspici e compiuto sacrifici e riti di purificazione, Romolo chiamò tutto il popolo sul luogo designato per la fondazione della città e tracciò un solco quadrangolare con un aratro tirato da un toro e da una mucca. Compito questo rito e sacrificati gli animali diede il via ai lavori di costruzione. La giornata era celebrata dai Romani nelle Parilia, all'inizio della primavera.

89) Dionisio riepiloga gli argomenti in base ai quali sostiene l'origine greca di Roma: gli Aborigeni di stirpe arcade, i Pelasgi di stirpe argiva gli Arcadi di Evandro ed i Peloponnesiaci di Eracle, infine gli esuli della Troade. Successivamente la mescolanza con molti popoli barbari differenti fra loro per lingua e costumi ha diluito le caratteristiche greche delle genti romane.

90) I Romani parlano una lingua che è un misto fra la lingua greca e quelle dei barbari con cui sono venuti in contatto, in particolare la componente greca è per Dionisio di origine Eolica e (per lui) facilmente individuabile. I costumi civili e le leggi dei Romani non nascono con la loro grande potenza ma risalgono fino ai primi tempi della città.

Libro Secondo


1) Riepilogo dei popoli che abitarono nel territorio di Roma.
2) Romolo, con tremila fanti e trecento cavalieri, fondò Roma dopo quattrocentotrentadue anni dalla distruzione di Troia.
3) L'assemblea dei Romani approva un ordinamento costituzionale proposto da Romolo.
4) Il popolo riconferma Romolo sul trono di Roma.
5) Romolo prende gli auspici prima di accettare la definitiva conferma della sovranità. Lampeggia da sinistra, fatto considerato positivo dai Romani che credevano che da sinistra (settentrione per chi guarda verso oriente) venissero le cose migliori. Credenza probabilmente di origine etrusca.

6) Romolo stabilisce che anche i suoi successori debbano cercare nei segni degli dei la conferma alla propria elezione. L'usanza si conservò in età repubblicana per le cariche maggiori ma cadde in disuso in epoca imperiale. Tuttavia secondo Dionisio agire contro il volere divino può provocare sciagure, è quello che capitò a Licinio Crasso nella guerra contro i Parti.

7) L'ordinamento di Romolo: vengono create tribù, ognuna divisa in dieci curie. I capi si chiamano tribuni e curioni.

8) Forse riprendendo un modello ateniese la popolazione viene divisa fra patrizi e plebei.
9) Compiti dei patrizi erano gli uffici religiosi, le magistrature, l'amministrazione della giustizia, il disbrigo degli affari pubblici.

I plebei dovevano coltivare la terra, allevare il bestiame, ecc. Istituto della clientela: a ciascun plebeo viene accordato di scegliersi un patrizio come patrono. Anche la clientela sarebbe per Dionisio usanza di origine greca.

10) I patroni erano impegnati ad assistere e difendere i propri clienti in sede legale e a spiegare loro le leggi. I clienti doveveano provvedere la dote per le figlie dei patroni se questi si trovavano in condizioni di scarsa disponibilità economica ed a pagare per loro il riscatto in caso di rapimento, dovevano inoltre (" in segno di gratitudine ") pagare multe e sanzioni sofferte dal patrono e compartecipare alla spesa delle loro campagne elettorali. Patroni e clienti erano legati da stretti vincoli di fedeltà tanto che i loro rapporti duravano per molte generazioni.

11) La concordia che derivò dagli ordinamenti di Romolo sia all'interno della città sia verso le colonie greche ed altre città amiche durò seicentotrenta anni durante i quali le contese fra cittadini furono sempre risolte in via politica e senza spargimenti di sangue, finchè il tribunato di Gaio Gracco non distrusse l'armonia del governo (affermazione piuttosto opinabile).

12) Romolo costituì un Senato di cento scegliendoli fra i patrizi.
Al senatore che considerava il migliore delegava l'amministrazione della città durante le sue assenze. L'istituzione secondo Dionisio deriva dalla "Gerusia" greca, già attestata in Omero.

13) Costituì quindi un corpo scelto di trecento armati adibito alla sua guardia personale e agli interventi di emergenza. Questi militari erano detti celeres per l'immediatezza delle prestazioni loro richieste o, stando a Valerio Anziate, per il nome del loro primo comandante, Celere. Probabile connessione di questa istituzione con la guardia reale lacedemone.

14) Assegnò al re le funzioni sacerdotali più eminenti, la custodia del diritto ed il giudizio per i reati più gravi, demandando ai senatori quelli di minore entità. Al re spettava la convocazione del Senato e delle assemblee popolari e la facoltà di esprimere per primo la propria opinione. Al consenso dei senatori riservò il compito di discutere e sottoporre a votazione le proposte del re. Solo le decisioni approvate dalla maggioranza venivano varate, analogamente a quanto avveniva a Sparta.

All'assemblea popolare demandò l'elezione dei magistrati, la ratifica delle leggi e, quando lo diceva il re, la disamina delle questioni belliche in sintonia con il Senato. La gerarchia militare risultò composta, nell'ordine, da tribuni militari, centurioni, decurioni, e comandanti della cavalleria.

15) Prese provvedimenti per incrementare le nascite pur tollerando l'esposizione dei nati storpi purchè deliberata da diverse persone. Per i trasgressori delle leggi fissò diverse condanne fra cui la confisca della metà dei beni. Concesse asilo politico a chiunque lo richiedesse purchè fosse di condizione libera. Per nobilitare questa istituzione che evidentemente attirava a Roma gente di ogni sorta la supportò con significati religiosi e costruì un tempio nel quale chi chiedeva asilo doveva rifugiarsi.
Per Dionisio la migliore fra le istituzioni introdotte da Romolo era l'uso di fondare colonie nelle città conquistate, usanza conservata dai Romani e causa della loro supremazia.
Al termine del regno di Romolo Roma contava quarantaseimila fanti e mille cavalieri.

17) Critiche alla politica militare delle città greche che rischiavano in una sola battaglia tutta la propria potenza. Per contro Roma, usufruendo delle risorse delle colonie, seppe riprendersi anche in gravissime contingenze, ad esempio nel corso delle guerre puniche.

18) La politica religiosa di Romolo si basava dunque sulla temperanza, sulla giustizia e sull'idea che le leggi giuste favoriscano la concordia fra i cittadini. Promosse le pratiche religiose con la costruzione dei templi, la regolamentazione del culto e bandì da Roma i miti ritenuti indecenti e sconvenienti per la natura divina.

19) Nella religione romana sono esclusi riti orgiastici ed altri eccessi tipici dei culti greci e barbari.

20) La religione romana prevede miti e rituali più semplici e meno equivocabili di quelli greci.
21) Creazione di sessanta sacerdoti per le tribù popolari oltre a quelli gentilizi (citazione da Varrone), Romolo stabilì che i sacerdoti gentilizi fossero due, nominati fra i cittadini illustri che superassero i cinquanta anni e restassero in carica a vita, esentati dai doveri militari e civili.

22) Le cariche sacerdotali erano estese alle famiglie dei sacerdoti per quei riti che prevedevano di essere celebrati da donne o fanciulli. Dionisio ritiene che questa istituzione abbia origini greche. Un aruspice per ogni tribù interpretava i responsi divini.

23) Istituzione della mensa comune in occasione delle festività religiose e confronto con i banchetti comuni che si svolgevano a Sparta. Ammirazione di Dionisio per la semplicità delle pratiche rituali e per come i Romani seppero conservarle pressochè inalterate fino ai suoi tempi.

24) Leggi in materia matrimoniale.

25) La moglie entrava a dar parte della famiglia del marito anche in senso economico e religioso. La moglie ereditava i beni del marito al pari dei figli. Il marito era giudice delle colpe di lei e poteva punirla con la morte in caso di adulterio o se la sorprendeva a bere vino (l'ubriachezza poteva essere di stimolo all'adulterio).

Queste leggi matrimoniali sopravvissero per secoli. Spurio Carvilio, cinquecentoventi anni dopo fu il primo a rompere il matrimonio, causa la sterilità della moglie. (secondo Livio e Valerio Massimo il primo ripudio risale a Lucio Annio nel 307 a.C., Gellio e Plutarco concordano sul nome Carvilio ma non sulla data).

26) Assoluto potere del padre sul figlio, fino alla morte del padre indipendentemente dalla condizione del figlio.

Si ricordavano esempi di personaggi importanti pubblicamente castigati dai padri. Non mancarono in questo senso gli eccessi, come quello di Manlio Torquato che nel corso della guerra contro i Latini, fece uccidere il figlio perchè aveva disobbedito all'ordine di non ingaggiare combattimenti isolati.

27) Al padre romano era concesso anche di vendere il figlio. Il potere paterno era dunque maggiore di quello del padrone sullo schiavo, infatti uno schiavo venduto se affrancato dal nuovo padrone guadagnava la libertà, mentre il figlio tornava sotto l'autorità paterna e poteva essere venduto nuovamente. Solo dopo la terza vendita se affrancato dall'acquirente era libero anche dal padre. Questa norma che veniva ascritta a Romolo fu riportata trecento anni dopo dai decemviri nelle dodici tavole.

Nelle leggi di Numa si leggeva che il potere di vendere i figli cessava quando i figli si sposavano.

28) Tutti i lavori manuali e sedentari, considerati indegni, erano affidati agli schiavi o agli stranieri mentre i liberi cittadini potevano occuparsi solo di agricoltura e di guerra. In tempo di pace si occupavano dei campi recandosi ogni otto giorni ai mercati per vendere i propri prodotti, in tempo di guerra partecipavano alle spedizioni e condividevano i bottini.

29) Romolo amministrò spesso personalmente la giustizia. Compariva nel Foro con un grande apparato al fine di incutere timore. I littori del suo seguito somministravano pubblicamente le pene ai condannati.

30) Trovandosi Roma circondata da città non amiche che difficilmente consentivano alle proprie donne di sposare i Romani, Romolo decise di risolvere il problema con un ratto in massa. Con l'approvazione del Senato e dopo aver sacrificato alla divinità che presiede ai consigli segreti Romolo indisse i giochi in onore di Poseidone, invitando i vicini. L'ultimo giorno dei giochi diede ordine ai giovani Romani di rapire tutte le vergini che partecipavano alla festa e di portarle illese al suo cospetto. Le fanciulle rapite erano seicentoottantasei e, scelti altrettanti giovani, il re celebrò le nozze dopo aver consolato le donne.

31) Fra le opinioni delle sue fonti Dionisio accetta le versioni in cui ratto avvenne nel quarto anno di regno di Romolo con il primario obiettivo di stringere con le città vicine patti di alleanza basati sull'affinità. Ai tempi di Dionisio la festa istituita da Romolo era ancora celebrata con il nome di "Consualia" e dedicata al dio Conso, identificato da alcuni con il greco Poseidone.

La festa prevedeva sacrifici su un altare sotterraneo e corse equestri.

32) A seguito del ratto si verificarono alcune guerre fra i Romani e le popolazioni che ne erano state vittime. La più importante fu quella con i Sabini. Le città che per prime aprirono le ostilità furono Cenina, Antemnae e Crustumerio.

In un primo tempo queste città chiesero l'intervento dei Sabini ai quali volevano affidare il comando avendo subito il maggior numero di rapimenti.

33) Poichè ambasciatori di Romolo avevano già avviato trattative con i Sabini le proposte delle altre città tardavano a ricevere soddisfazione.
Impazienti i Cenini passarono all'attacco per primi e furono rapidamente battuti. I Romani presero la città e Romolo sconfisse in duello il re di Cenina spogliandolo delle armi.

34) Fu poi la volta di Antemnae, anch'essa rapidamente sbaragliata. Quindi l'esercito romano tornò in città accolto dal popolo festoso. Dionisio vede in questo evento l'istituzione del trionfo dicendo che il corteo era chiuso da Romolo in veste purpurea su una quadriga. Dopo la cerimonia Romolo costuì un piccolo tempio a Giove sul Campidoglio nel quale consacrò le spoglie opime del re di Cenina.

35) Riunito il Senato si delibera di trattare con clemenza le città conquistate, Romolo invia in ognuna di esse trecento coloni ed accoglie i loro cittadini, così Cenina ed Antemnae divengono colonie romane.

36) Analoga sorte subì Crustumerio che era un'antica colonia degli Albani. La fama del valore e della clemenza di Romolo attirò a Roma molti uomini valenti che si trasferirono con le famiglie. Fra questi l'etrusco Celio (Cele Vibenna), che diede il nome al colle. Preoccupati da questi successi i Sabini deliberarono di attaccare Roma e preperarono un forte esercito al comando di Tito Tazio.

37) Romolo si preparò a difendersi dai Sabini costruendo nuove mura sul Palatino, fortificando il Campidoglio e l'Aventino e mettendo al riparo di tali fortificazioni la cittadinanza e i pastori. Giunsero a Roma rinforzi da parte degli alleati: il tirreno Lucumone della città di Solonio e truppe di Albani inviate da Numitore. Conclusi i preparativi i Sabini richiesero formalmente la restituzione delle donne rapite e la soddisfazione del ratto ma Romolo rispose che le donne volevano restare con i loro mariti e si disse disponibile a trattare in pace altre ricompense. I Sabini non accettarono e schierarono venticinquemila fanti e circa mille cavalieri, la forza romana contava di ventimila fanti e ottocento cavalieri.

38) Tito Tazio si accampò nella pianura fra il Campidoglio e il Quirinale.

Il tradimento di Tarpea. Dionisio segue la tradizione per cui Tarpea avrebbe tradito per ottenere un compenso materiale e fa riferimento a Fabio Pittore e a Cincio Alimento.

Secondo Lucio Pisone invece avrebbe cercato di trarre in inganno i Sabini. Comunque Tarpea invita Tito Tazio ad un colloquio segreto ed i due si accordano per il tradimento.

39) Secondo Pisone Tarpea avrebbe mandato un messaggero ad avvertire Romolo del falso tradimento ma il messaggero sarebbe passato al nemico svelando a Tazio le intenzioni di lei. Per gli altri autori invece il tradimento sarebbe stato autentico. Tarpea aprì una porta ai Sabini che presero possesso della rocca del Campidoglio.

40) I Sabini ricompensarono Tarpea scagliandole contro i propri scudi fino ad ucciderla. La vicenda si basa sull'equivoco di "ciò che portavano al braccio sinistro", la ragazza voleva i braccialetti d'oro ma i Sabini le dettero gli scudi. Per Pisone la morte di Tarpea fu conseguenza del doppio gioco che il messaggero aveva svelato, per gli altri la ragazza tradì realmente. Noto che in Dionisio non si dice che fosse una vestale ma solo "la figlia di un notabile".

41) Con i Sabini arroccati nel Campidoglio seguì un lungo periodo di scaramucce finchè le due parti non decisero di scontrarsi in battaglia campale.

42) La battaglia dura più di una giornata, con alterne vicende. Anche Dionisio riporta l'episodio di Mettio Curzio, ufficiale sabino che con il proprio coraggio seppe recuperare una situazione di grande difficoltà per i suoi e dopo essersi a lungo scontrato personalmente con Romolo cadde nella palude salvandosi a stento dall'annegamento. La palude, successivamente prosciugata, ebbe il nome di Lago Curzio in ricordo dell'episodio.

43) Durante la battaglia Romolo fu ferito più volte e colpito alla tempia da una pietra cadde tramortito. I suoi lo portarono in salvo ma l'assenza del comandante diffuse il panico fra i Romani. Anche il tirreno Lucumone dopo essersi battuto valorosamente fu ferito e le forze romane rischiarono la rotta. I Sabini approfittarono della situazione guadagnarono terreno giungendo alle porte della città ma qui furono affrontati da forze fresche che erano state riservate per la guardia delle mura. Romolo, ripresosi, tornò in campo e rialzò il morale dei Romani che ripresero il sopravvento.

44) Nei giorni seguenti Romani e Sabini restarono incerti sul da farsi, entrambi tentati di cercare un accordo esitavano a proporlo per non esserne svantaggiati.

45) Frattanto le donne sabine rapite si riunirono su proposta di Ersilia e decisero di tentare di pacificare i contendenti. Ottenuto il consenso del Senato romano le donne si recarono in ambasceria presso i Sabini per trattare la pace.

46) L'ambasceria delle donne ebbe successo e i Sabini si accordarono con i Romani. Tazio ottenne il regno di Roma alla pari con Romolo ed i cittadini ebbero il nome di Quiriti. Tutti i Sabini che lo desideravano potevano diventare cittadini Romani acquisendo i relativi diritti. L'esercito dei Sabini tornò alla sua terra mentre Tazio con tre notabili (Valerio Volosso, Tallo detto Tirannio e Mettio Curzio) rimasero a vivere a Roma con un seguito di amici, parenti e clienti numericamente non inferiore a quello dei Romani. Noto che in Dionisio l'intervento delle donne avviene durante una tregua e non in piena battaglia come negli altri autori, inoltre le donne si riuniscono, si organizzano e prima di intervenire ottengono il consenso del Senato, mentre nelle altre fonti il loro operato appare più improvvisato.

47) In seguito all'unione con i Sabini furono creati cento nuovi senatori. Furono tributati grandi onori alle donne che avevano posto fine alla guerra. Secondo alcuni autori le trenta curie presero il nome di altrettante di quelle donne ma Varrone non concorda su questa tesi perchè le donne che parteciparono alla missione erano 527. Varrone ritiene che i nomi delle curie fossero stati stabiliti da Romolo basandosi a volte sui nomi dei comandanti, a volte su quelli delle zone abitate.

48) Mito relativo alla fondazione di Curi secondo la versione di Terenzio Varrone: al tempo in cui gli Aborigeni occupavano la regione una fanciulla nobile danzò nel tempio di un dio detto Enyalos, colta da divina ispirazione entrò nella cella del dio con il quale si sarebbe accoppiata. Ne nacque Modio, soprannominato Fabidio, che dopo essersi distinto come guerriero fondò la città che ebbe il nome di Curi da uno dei nomi della divinità di cui era ritenuto figlio o dalla parola sabina cures che significa lancia.

49) Tradizioni sull'origine dei Sabini. Sarebbero derivati dagli Umbri che occuparono quei territori già degli Aborigeni e dei Pelasgi. Secondo una tradizione locale si sarebbe installata fra loro una colonia di Lacedemoni che rifiutando la durezza della costituzione di Licurgo erano partiti in volontario esilio. Questo spiegherebbe l'affinità fra molti usi Sabini e quelli spartani, in particolare l'attitudine bellica, la frugalità ed il rigore.

50) Romolo e Tazio ampliarono la città annettendo il Quirinale ed il Celio, quindi si divisero il territorio. Romolo ebbe il Palatino ed il CelioTazio il Campidoglio ed il Quirinale. Bonificata la palude ed abbattuto il bosco ai piedi del Campidoglio costruirono il Foro per le assemblee ed i mercati. Romolo costruì un tempio a Giove presso la porta Mugonia.

Romolo e Tazio regnarono in armonia per cinque anni. Durante questo periodo combatterono contro i Camerini che organizzavano spedizioni ai danni dei territori Romani. Cameria, antica colonia degli Albani, fu conquistata e ridotta a colonia romana mentre circa quattromila Camerini furono ammessi a Roma.

51) Nel sesto anno di compartecipazione al regno Tazio fu coinvolto in una disputa fra i Sabini e gli abitanti di Lavinio.

I Laviniati avevano subito aggresioni e danni da parte di alcuni Sabini ed avevano chiesto a Romolo di consegnare i colpevoli ma Tazio ne aveva preso le difese. Inoltre gli ambasciatori di Lavinio furono aggrediti dai Sabini.

52) Romolo infine consegnò gli aggressori ai Laviniati poichè danneggiare gli ambasciatori era considerato sacrilegio, tuttavia Tazio intervenne in loro difesa e li liberò. Successivamente fu ucciso da un complotto di Laviniati.

53) Dopo la morte di Tazio Romolo mosse contro i Fidenati che insidiavano i commerci Romani sul Tevere. Sottomise la città, sequestrò parte del territorio e stabilì a Fidene un presidio di trecento armati.

54) I Camerini approfittarono di una pestilenza che aveva colpito i Romani per insorgere ma furono duramente repressi da Romolo che questa volta mise al sacco la loro città e riportò un secondo trionfo. Fu quindi la volta di Veio che intervenne a favore di Fidene. Romani e Veienti si scontrarono alle porte di Fidene in una lunga battaglia che si concluse in parità.

55) In una seconda battaglia i Veienti furono sconfitti ma poco dopo raccolsero un nuovo esercito con l'aiuto di altre stirpi etrusche e mossero nuovamente contro Roma. Battuti nuovamente, Romolo celebrò il suo terzo trionfo e concluse una tregua di cento anni con Veio lasciando ai nemici parte del territorio conquistato ma togliendo loro le saline del Tevere.

56) Sulla fine di Romolo Dionisio cita tre versioni: la prima è quella leggendaria per cui sarebbe stato rapito in cielo dal padre Ares, le altre due dicono che era diventato dispotico e fu eliminato dai senatori o dai nuovi cittadini.

57) Alla morte di Romolo seguì un interregno. I duecento senatori si divisero in gruppi di dieci ed estrassero a sorte il gruppo che doveva detenere per primo il potere. I dieci estratti governarono a turni di cinque giorni quindi passarono il potere ad un secondo gruppo di dieci e così via. Nel frattempo si discusse sulla forma di governo da adottare. Il popolo, consultato, rimise la decisione al Senato che fu unanime nell'optare per la monarchia ma non nella scelta del nuovo re.

58) Dopo una lunga disputa si decise di scegliere un uomo che non vivesse a Roma per avere maggiori garanzie di imparzialità. Il potere era infatti conteso fra i vecchi senatori (Romani) ed i nuovi (Sabini). Fu scelto Numa Pompilio, figlio di Pompilio Pompone, della città di Curi, uomo notissimo per la sua saggezza ed il suo ingegno. L'interrè vigente cominicò la decisione al popolo ed inviò a Numa una delegazione per offrirgli il potere.

59) Anche Dionisio cita e contesta la tradizione che voleva Numa Pompilio allievo di Pitagora.
Pitagora visse quattro generazioni dopo Numa ed anche la città di Crotone nella quale si diceva che il re avesse studiato presso il filosofo fu fondata successivamente. Dionisio attribuisce l'errore alla superficialità di quanti hanno voluto mettere in relazione il soggiorno italiano del filosofo con la saggezza di Numa Pompilio senza preoccuparsi dell'attendibilità storica delle proprie asserzioni.

60) Numa esitò a lungo prima di accettare l'offerta del potere, infine convinto anche dall'insistenza del padre e dei fratelli si recò a Roma dove la sua fama di rettitudine e saggezza gli valse ovazioni e calorosa accoglienza. L'assemblea popolare confermò l'elezione, il Senato la ratificò e gli dei, tramite gli auspici, la benedissero. I Romani dicono che egli non intraprese nessuna spedizione militare, ma che essendo un uomo giusto e pio passò in pace tutto il tempo del suo regno, e diede un'ottima amministrazione alla città (sic) .

Nacquero sul suo conto varie leggende fra le quali quella della sua relazione con la ninfa Egeria. Un episodio che non ho trovato altrove: Numa per dimostrare la veridicità del suo rapporto con la ninfa invitò alcuni notabili a visitare la sua casa mostrando loro la modestia degli arredi e la mancanza di quanto è necessario per preparare un banchetto. Li invitò quindi a tornare dopo poche ore e fece trovare arredi magnifici ed un ricchissimo banchetto che un uomo non avrebbe avuto modo di preparare in così poco tempo.

61) Probabilmente la vicenda relativa ad Egeria era un'invenzione di Numa per agire sugli scrupoli dei cittadini più religiosi. Dionisio indica precedenti greci: Minosse di Creta sarebbe stato consigliato da Zeus che visitava in un antro sacro, Licurgo avrebbe ottenuto assistenza da Apollo tramite l'oracolo di Delfi.

62) La situazione di Roma era complicata da due conflitti sociali, quello fra Albani e Sabini che disputavano su onori e poteri e quello provocato dalla parte più povera della plebe che vivendo in miseria tendeva alla sedizione sociale.
Numa distribuì dei terreni pubblici e beni dell'eredità di Romolo per soddisfare i poveri e concedendo alcuni onori ai senatori sabini migliorò la situazione.
Ingrandì la città annettendo il Quirinale.

63) Sul piano legislativo mantenne in vigore la costituzione di Romolo aggiungendo norme di carattere religioso. Inaugurò molti "recinti sacri" dedicati a varie divinità, istituì feste, nominò sacerdoti, stabilì norme per i riti, le cerimonie e le espiazioni.

"Ordinò inoltre che Romolo, che aveva superato i limiti della natura umana, fosse onorato sotto il nome di Quirino con un tempio e sacrifici annui".
Si fa vivo "un tale di nome Giulio" che racconta di aver avuto la visione di Romolo che gli confermava la propria divinizzazione, (cfr Giulio Proculo in Livio I, 16 ).

64) Assegnò la prima serie di cerimonie ai trenta curioni, la seconda ai flamini, la terza ai comandanti dei celeri, la quarta agli auguri, la quinta alle vestali. Numa costruì a Roma il primo tempio a Hestia (Vesta) e le assegnò come sacerdotesse le vergini.

65) Dissertazione di Dionisio sull'attribuzione a Numa del primo tempio di Vesta. Alcune sue fonti riteneveano che fosse opera di Romolo ma per Dionisio la collocazione del tempio fuori dalle mura della Roma Quadrata è prova certa che sia stato costruito più tardi, quando la città si era ampliata.
Romolo aveva preferito distribuire il culto della dea sui focolari di ciascuna delle trenta curie.

66) Numa non abolì i focolari particolari ma ne aggiunse uno comune nel tempio da lui costruito fra il Campidoglio e il Palatino.
Su ciò che si custodiva nel tempio certamente il fuoco perenne simbolo della dea che corrispondendo alla terra "suscita il fuoco celeste da se stessa". Inoltre pare che il tempio contenesse alcuni oggetti sacri e segreti. Quando il tempio andò a fuoco (241 a.C.) Lucio Cecilio Metello celebre vincitore dei Cartaginesi nella battaglia di Panormo, rischiò la vita per salvare dalle fiamme gli oggetti sacri. Per alcuni si trattava di oggetti risalenti a Dardano, quindi alle origini di Troia, per altri del Palladio caduto dal cielo anche esso già custodito a Troia. In entrambi i casi le reliquie sarebbero state portate in Italia da Enea.

67) Le vestali erano in origine quattro e venivano scelte dal re, in seguito divennero sei. Il sacerdozio, che comportava l'obbligo di castità, durava trenta anni: nei primi dieci le novizie apprendevano, nel secondo decennio svolgevano i riti e nel terzo insegnavano alle altre. Dopo i trenta anni potevano sposarsi, tuttavia ciò accadeva molto raramente perchè ritenuto di pessimo auspicio. Alle vestali venivano tributati grandi onori, per contro le loro colpe erano punite severamente dai pontefici. Le pene lievi erano punite a vergate mentre quelle che perdevano la verginità erano sepolte vive in una cella sotterranea presso la Porta Collina. I Romani consideravano presagio di catastrofe lo spegnimento del fuoco sacro, in questi casi lo riaccendevano con solenni riti di espiazione.

68) Esistevano varie leggende sulle vestali e sugli interventi della dea in favore di quelle accusate ingiustamente. Una vestale di nome Emilia aveva lasciato spegnere il fuoco. Processata chiese aiuto alla dea quindi, pregando, stracciò la propria veste e ne gettò un lembo sulle ceneri. Subito ne scaturì una grande fiamma che riaccese il fuoco salvando la vestale.

69) Un altro aneddoto si raccontava su una vestale di nome Tuccia che venne calunniata ingiustamente. Dimostrò la propria innocenza riuscendo a raccogliere e trasportare l'acqua del Tevere con un vaglio.

70) Il sesto gruppo delle istituzioni religiose era assegnato ai cosiddetti Salii. Numa istituì i Salii palatini ai quali successivamente Tullo Ostilio avrebbe aggiunto i Salii agonali . I Sali palatini erano dodici giovani di estrazione patrizia. Secondo Dionisio equivarrebbero ai Kuretes greci che svolgevano riti analoghi durante le panatenee. Il rito dei Salii si svolgeva a marzo durante le Quinquatria, dedicato agli dei della guerra e consisteva in una danza al suono del flauto. I Salii saltavano (da qui il nome), danzavano e cantavano armati di lance e scudi in una processione che attraversava la città.

71) Fra gli scudi dei Salii ve ne era uno che si diceva caduto dal cielo per volere degli dei. Per confondere eventuali ladri Numa aveva fatto fabbricare dall'artigiano Mamurio molti scudi identici. La danza dei Salii era comunque istituzione molto antica dalla quale i Romani derivarono molte danze cerimoniali usate nel circo, nei giochi, in occasione di varie feste.

72) Il settimo gruppo delle istituzioni sacre fu assegnato al collegio dei fetiales. Anche questo collegio fu istituito da Numa ed era composto da sacerdoti di condizione patrizia nominati a vita. Numa avrebbe istituito i feziali quando fu sul punto di combattere contro Fidene. Anche Dionisio è a conoscenza di possibili precedenti latini e cita i sacerdoti Equicoli della città di Ardea. I feziali avevano il compito di tentare trattative con i nemici e in caso di insuccesso di dichiarare guerra. Dovevano inoltre vigilare sul rispetto dei trattati di pace e di alleanza ed interloquivano con gli ambasciatori stranieri che lamentavano qualche offesa subita ad opera di Romani, eventualmente arrestando i colpevoli e consegnandoli alla parte offesa. Dionisio fornisce una rapida descrizione dell'ambasceria rituale in caso di contestazioni presso altre città. Il collegio incaricava uno dei feziali di svolgere la missione. Questi raggiungeva la città avversaria ripetendo più volte invocazioni e giuramenti al suo arrivo, chiamando a testimoni le prime persone che incontrava. Giunto al cospetto dei governanti della città discuteva con loro la questione e concedeva fino a trenta giorni di tempo per rispondere all'appello. Trascorso il termine se non aveva ottenuto soddisfazione si presentava al Senato romano con gli altri feziali e dichiarava di aver svolto il suo compito secondo quanto previsto dalle leggi sacre, a quel punto il Senato poteva decidere se dichiarare guerra. In mancanza di questa procedura "nè il Senato nè il popolo avevano il potere di dichiarare guerra".

73) La più alta dignità sacerdotale toccò ai pontefici. La denominazione derivava da uno dei loro compiti, il restauro del ponte di legno, ma il loro campo d'azione era molto vasto. Giudicavano tutte le cause religiose fra cittadini, magistrati e sacerdoti ed in generale legiferavano in materia religiosa. Sovraintendevano a tutte le funzioni religiose ed insegnavano la dottrina, avevano il potere di punire sacrilegi e reati religiosi ma erano inviolabili e non potevano essere giudicati nè dal popolo nè dal Senato. La loro carica durava a vita ed i successori venivano eletti dal collegio stesso con l'approvazione degli auspici.

74) Fra le numerose disposizioni emanate da Numa per ordinare la società dei Romani Dionisio ricorda le leggi ed i riti relativi ai confini, da cui l'isituzione della festa annuale dei Terminalia. In sostanza mi pare che a Numa venga riferita l'introduzione del concetto della proprietà privata e della distinzione di questa dal bene pubblico.

75) Numa regolamentò i contratti privati basandosi sul concetto della lealtà personale che dai suoi tempi divenne un valore sacro nella mentalità romana. Dedicò per primo un tempio alla Pistis pubblica (fede pubblica, credibilità) sostenendo che lo stato doveva essere di esempio nella lealtà e coerenza di comportamento verso i cittadini.

76) Per organizzare l'economia cittadina Numa divise il territorio in pagi istituendo dei magistrati che controllassero il lavoro degli agricoltori. Incentivò il lavoro agricolo con elogi e premi per distogliere i Romani dalla loro bellicosità.

Le istituzioni di Numa riuscirono ad assicurare alla città un lungo e prospero periodo di pace interna ed esterna, la sua fama si diffuse anche fuori di Roma tanto che gli fu spesso richiesto di arbitrare su ostilità fra le città vicine. Regnò per quarantatre anni (il dato coincide con Livio) e morì serenamente ultraottantenne, fu sepolto sul Gianicolo. Per molte fonti ebbe quattro figli maschi ed una figlia femmina, Cneo Gellio parlava di una sola figlia madre di Anco Marzio.

Libro Terzo



1) Alla morte di Numa Pompilio seguì un secondo interregno, quindi fu eletto re Tullo Ostilio, uomo nobile e facoltoso che si era trasferito a Roma dalla città albana di Medullia. Discendeva da Ostilio, il quale aveva sposato la figlia di Ersilio (l'Ersilia promotrice della missione di pace delle donne rapite). Ersilio aveva compiuto grandi imprese con Romolo ed era stato onorato con un monumento al Foro. Il figlio di Ostilio aveva sposato una donna di nobili natali, da tale unione era nato Tullo Ostilio.
Tullo Ostilio è quindi nipote dell'Ostilio di epoca romulea come in Livio (I, 22) .
L'elezione, voluta dal Senato fu confermata dal popolo ed anche gli auspici furono favorevoli, avvenne nel 670 a.C.
Tullo Ostilio iniziò il suo regno con un atto di liberalità che gli guadagnò il favore della popolazione più povera: dichiarando che il suo patrimonio sarebbe bastato per le necessità personali e le spese del culto donò ai poveri i terreni e i beni che erano considerati proprietà del re. Inoltre estese la cinta muraria per comprendere il Celio che fu distribuito a chi non aveva un terreno dove edificare una casa e vi stabilì anche la propria residenza.
2) Ma Tullo Ostilio fu noto soprattutto per le imprese militari, di cui Dionisio citerà le più importanti, a partire dalla guerra contro gli Albani. All'origine della contesa (i Romani sono sempre nel giusto per Dionisio) fu l'invidia e l'arroganza di un certo Cluilio, supremo magistrato di Albalonga. Organizzata una banda di predoni Cluilio provocò i Romani con incidenti di frontiera e seppe mettere le cose in modo che la reazione romana sembrasse un'aggressione.
3) Dopo uno scambio di ambasciate le due città si rifiutano reciprocamente soddisfazione ed entrano in guerra.
4) Gli ambasciatori si schierano nei pressi di Roma. Dopo un periodo di scaramucce Cluilio decide di attaccare in forze il nemico ed organizza tutto per il giorno seguente ma al mattino, misteriosamente, viene trovato il suo cadavere senza segni di violenza o di avvelenamento.
5) L'incomprensibile morte di Cluilio scoraggiò molto gli Albani: alcuni parlarono di vendetta divina, altri di veleni sconosciuti privi di tracce, altri ancora di suicidio. Dionisio crede che fosse semplicemente giunta la sua ora. Fu eletto dagli Albani il dittatore Mezzio Fufezio che propose un accordo in vista di un nuovo pericolo comune.
6) Veienti e Fidenati, infatti, che erano stati sottomessi da Romolo stavano congiurando per approfittare dello scontro fra Romani ed Albani e contavano di poter intervenire alla fine della battaglia ed avere la meglio sul vincitore. Tuttavia, forse a causa di delazioni, Fufezio era venuto a conoscenza della cospirazione.
7) Anche Tullo Ostilio avendo avuto voce del complotto ritenne opportuno trattare con gli Albani. Dionisio cita un "discorso" di Mezzio Fufezio con il quale il dittatore chiarisce i motivi che lo hanno spinto a cercare la trattativa.
8) Fufezio esibisce delle lettere delatorie che dimostrano l'esistenza della congiura ed esorta le parti a trattare rapidamente la pace per poter fare fronte comune contro i nemici. Propone una remissione totale ed immemore delle reciproche offese.
9) Tullo Ostilio accetta la proposta di pace ma ne aggiunge una per fondere le popolazioni o almeno il Senato delle due città per evitare future nuove inimicizie.
10) Fufezio prende tempo per consultare i suoi concittadini quindi risponde che gli Albani non volevano abbandonare le proprie case ma erano propensi ad unificare il Senato. Restava da decidere quale città avrebbe detenuto il potere. Gli Albani lo richiedevano perchè consideravano Albalonga la madre patria e Roma una colonia; inoltre sostenevano che il ceppo atavico albano fosse più incorrotto di quello romano (che si era unito con Tirreni e Sabini) e che nella loro città regnasse un ordine sociale e politico migliore di quello romano.
11) Tullo Ostilio risponde con molti argomenti a sostegno dell'egemonia romana (a parità di antenati Roma è più grande e potente, proprio nell'aver accolto altre genti è l'origine della potenza, non esiste una legge di natura che stabilisca che la la madre patria debba dominare la colonia e non viceversa). Conclude proponendo che la controversia sia risolta con un duello fra pochi guerrieri.
12) La proposta di Tullo Ostilio viene approvata ma Fufezio non accetta di battersi in duello e propone con successo una prova tra tre Albani e tre Romani.
13) Sembra a Fufezio un segno divino il fatto che ad Albalonga e a Roma vivano due famiglie tra loro imparentate, i Curiazi (Albani) e gli Orazi (Romani) che contano tre gemelli ciascuna, della stessa età e tutti noti per abilità e coraggio.
14) Fufezio propone la scelta dei "triplici gemelli" a Tullo Ostilio.
15 - 16.- 17) Tullo Ostilio teme che la consanguineità fra Orazi e Curiazi renda sacrilego il duello. Fufezio è dell'opinione che non ci sia sacrilegio se i duellanti accettano liberamente lo scontro. Tullo Ostilio chiede una tregua di dieci giorni per interrogare gli Orazi mentre i Curiazi hanno già dato il loro assenso a Fufezio. Tullo Ostilio convoca gli Orazi che con l'approvazione del padre accettano di combattere.
18) I due popoli accompagnano i giovani con manifestazioni di onore e di lutto, come vittime consacrate. Ha inizio il duello.
19) Durante il duello il maggiore degli Orazi viene ucciso ma l'uccisore cade a sua volta. Altri due contendenti si uccidono reciprocamente.
20) Il Romano superstite finge di fuggire per dividere i due avversari. Riesce nell'intento ed ha rapidamente la meglio, vincendo il duello.
21) La sorella degli Orazi, promessa sposa di uno dei Curiazi, si dispera per la morte del cugino. Questo scatena l'ira del fratello superstite che la uccide, approvato per questo dal padre che nega alla sventurata di essere sepolta nella sua casa. La poveretta viene coperta di terra dai passanti pietosi. Durezza dei costumi degli antichi che usavano celebrare sacrifici e trionfi anche per le vittorie nelle quali avevano perduto i propri figli.
22) Sepolti i morti e compiuti i sacrifici Tullo Ostilio assicurò agli Albani che la loro condizione sarebbe rimasta onorevole e che avrebbe lasciato intatte le loro istituzioni, quindi riporta l'esercito a Roma dove celebra il trionfo.

A Roma alcuni cittadini citarono in giudizio l'Orazio superstite per l'uccisione della sorella. Si svolse un lungo processo nel quale l'imputato fu difeso dal padre. Perplesso Ostilio affidò il giudizio al popolo ed il giovane venne assolto. Tuttavia il re ritenne opportuno che i pontefici sottoponessero il giovane ai riti purificatori allora in uso per gli omicidi involontari. Due altari furono dedicati ad Hera e a Giano.
" L'omicida viene fatto passare sotto il giogo, come i Romani facevano con i prigionieri di guerra prima di rimandarli liberi in patria ". Gli altari ed il sostegno sul quale furono esposte le armi degli Orazi nel Foro sarebbero stati ancora al loro posto ai tempi di Dionisio. Una legge fissò gli onori tributati agli Orazi, fra cui un contributo pubblico a favore dei genitori dei tre gemelli.
23) Dopo un anno di preparativi Tullo Ostilio decise di attaccare i Fidenati per punirli del complotto. Fra le truppe ausiliarie dell'esercito di Tullo spiccavano quelle degli Albani inviate da Mezzio Fufezio. Tuttavia Fufezio covava segreti rancori verso i Romani poichè era stato accusato di aver mal condotto la guerra con Roma e di continuare a tenere il potere solo per ordine di Ostilio. Tramò quindi un tradimento e sobillò i Fidenati alla rivolta promettendo loro il proprio aiuto in battaglia. Alla vigilia della battaglia Fufezio convoca i centurioni ed i tribuni delle forze albane ed espone loro il proprio piano riprendendo come giustificazione del tradimento il concetto che la madre patria deve governare le colonie.
24) Durante la battaglia Fufezio porta le proprie truppe su un colle, come aveva annunciato nel paragrafo precedente, ed aspetta il momento buono per attaccare i Romani. Era sua intenzione, nel caso di imprevisti attaccare i Fidenati come i Romani si aspettavano e far passare inosservato il suo progetto di tradimento.
25) Con presenza di spirito Tullo Ostilio rendendosi conto della diserzione degli Albani finge che stiano eseguendo un suo ordine per accerchiare il nemico e risollevato il morale dei soldati, volge a proprio favore le sorti dello scontro.
26) Fufezio constatato il successo dei Romani gioca la carta di riserva ed attacca i Fidenati. Tullo Ostilio capisce i suoi propositi ma decide di aspettare un momento migliore per affrontare il traditore. Gli ordina intanto di braccare i nemici fuggitivi, cosa che Fufezio esegue con entusiasmo, convinto di aver ingannato Ostilio. I prigionieri Fidenati, interrogati dai Romani, confermano i sospetti di Tullo su Mezzio Fufezio. Tullo torna a Roma e convoca nottetempo il Senato per decidere sul da farsi.
27) Dopo averlo concordato con il Senato Tullo Ostilio decreta la distruzione di Albalonga ed incarica l'Orazio superstite di eseguirla immediatamente, risparmiando però ogni vita umana. Quindi viene convocato Mezzio Fufezio con i suoi ufficiali, nell'ambito di un'assemblea dei soldati.
28) In assemblea Tullo Ostilio smaschera le trame di Fufezio.
29) Tullo Ostilio dichiara agli Albani le decisioni sue e del Senato romano: la demolizione della città, la deportazione a Roma dell'intera popolazione, la costruzione a Roma di nuovi quartieri per ospitarvi gli Albani. Alcune famiglie albane saranno ammesse al patriziato ed al Senato: i Giulii, i Servilii, i Curiazi, i Quintilii, i Clelii, i Gegani e i Metilii.
Fufezio ed i suoi complici saranno regolarmente processati.
30) Mezzio Fufezio cerca di difendersi dichiarando di aver eseguito gli ordini del Senato albano. Scoppia una rissa ma Tullo, che aveva previsto disordini, aveva circondato l'assemblea di armati la cui presenza riduce presto i rivoltosi alla ragione. Fufezio viene giudicato sommariamente reo di tradimento ed il suo corpo, legato a due coppie di cavalli, viene rapidamente straziato davanti all'assemblea. più tardi i suoi amici e complici vennero processati e molti furono giustiziati.
31) Frattanto Marco Orazio eseguendo l'ordine del re demolì tutti gli edifici pubblici e privati di Alba salvando solo i templi, quindi condusse tutta la popolazione a Roma senza privarla di alcun avere. Gli Albani furono accolti da Tullo Ostilio che li distribuì nelle tribù aiutandoli a costruire nuove abitazioni ed assegnando lotti di terreno ai più bisognosi. La città di Alba, fondata da Ascanio figlio di Enea, 487 anni prima, dopo aver conosciuto notevole incremento demografico e prosperità ed aver fondato trenta colonie di Latini fu distrutta da Roma, l'ultima sua colonia. L'anno seguente Tullo assediò Fidene e dopo essersene impadronito uccise i responsabili della rivolta e ripristinò la normalità, quindi tornò a Roma per celebrare il suo secondo trionfo.
32) Dopo la guerra contro Fidene se ne svolse una contro i Sabini. La guerra fu causata dall'aggressione da parte di alcuni Sabini ai danni di un gruppo di Romani durante le celebrazioni della dea Feronia in un santuario comune ai due popoli. I Sabini non vollero dar ragione dell'aggressione e si aprirono le ostilità. Una prima serie di scontri non decise nulla causa l'equivalenza delle forze. La guerra fu sospesa fino all'anno seguente e Tullo, nel riprenderla fece voto a Crono e Rea di istituire feste in loro onore (Saturnalia e Opalia) se avesse vinto. Questa volta i Romani vinsero e razziarono il territorio sabino. Poco dopo i Sabini furono costretti a pagare un risarcimento ai Romani per i danni di guerra.
33) Successivamente, tuttavia, l'inizio di una guerra dei Romani contro le città Latine, incoraggiò i Sabini a violare il trattato di pace con i Romani e ripresero le scorrerie ai danni degli agricoltori Romani. I Sabini cercavano di allearsi con i Latini per attaccare Roma, ma Tullo concluse una tregua con i Latini e decise di condurre l'esercito contro i Sabini. La guerra fu rapidissima ed i Sabini ne uscirono di nuovo sconfitti.
34) La guerra con i Latini era scoppiata quando Tullo aveva cercato di affermare la supremazia di Roma sulle città che erano state sotto il potere di Alba, distrutta quindici anni prima. I Latini avevano reagito riunendosi e decidendo di resistere ai Romani.
Nominarono due generali con pieni poteri in tempo di pace e di guerra: Anco Publicio, di Cora e Spusio Vecilio di Lavinio.
35) La guerra durò cinque anni "con un andamento, per così dire diplomatico, ed alla maniera antica". Non si verificarono mai spiegamenti di interi eserciti ma solo incursioni nel territorio nemico. Nessuna città venne distrutta salvo Medullia, ed alla fine furono stipulati accordi di pace facilmente accettabili anche dalla parte sconfitta.
36) Dopo trentadue anni di regno Tullo Ostilio perì, con la moglie e i figli, nell'incendio della sua dimora. Alcuni attribuirono l'incendio all'ira divina scatenata da Tullo per la sua negligenza in materia rituale e religiosa, altri sospettarono di Anco Marzio, che fu suo successore. Anco Marzio, nato da una figlia di Numa Pompilio, ambiva al trono ed era preoccupato per la concorrenza dei figli di Tullo Ostilio. Avrebbe approfittato della sua amicizia con la famiglia del re per ordire un agguato ed entrato nella casa in un momento favorevole avrebbe fatto strage di tutti i presenti nascondendo poi il misfatto con l'incendio da lui stesso appiccato. Dionisio non accetta questa versione che ritiene inverosimile.
37) Dopo la morte di Tullo Ostilio gli Interreges elessero come re Marzio denominato Anco , con la conferma del popolo e degli auspici nel secondo anno della 35sima Olimpiade (638 a.C.).
Questo re cercò di ristabilire le usanze religiose ed i pacifici costumi introdotti dal nonno Numa Pompilio. Invitò i cittadini a riprendere l'antica cura nel lavoro della terra e nell'allevamento del bestiame spronandoli ad allontanarsi dalla violenza e dalla belligeranza. Fece pubblicare le disposizioni di Pompilio circa le cose sacre. Le tavole esposte al pubblico, poi perdute, furono ricopiate su di un'iscrizione dal pontefice Gaio Papirio, dopo la caduta della monarchia.
Nonostante la sua indole pacifica però Anco Marzio fu costretto a divenire guerriero. I Latini infatti lo disprezzavano e lo ritenevano indegno del potere e presero a tormentare i Romani con continue incursioni e scorrerie nei loro territori. Agli ambasciatori che chiedevano soddisfazione i Latini risposero che si trattava di azioni di bande di briganti e ne declinarono la responsabilità. Infine Marzio guidò l'esercito contro i Latini e prese la città di Politorio deportandone a Roma gli abitanti.
38) L'anno successivo i Latini ricolonizzarono la deserta Politorio e Marzio la conquistò per la seconda volta. L'anno seguente i Latini espugnarono la colonia romana di Medullia, mentre Marzio conquistava Tellene e ne deportava gli abitanti a Roma. Dopo tre anni riprese Medullia e conquistò Ficana.
39) Si verificarono in seguito due grandi battaglie campali, la prima conclusasi senza vincitori, la seconda vinta dai Romani. Seguì un altro periodo di scaramucce per lo più favorevoli ai Romani. Intanto i Fidenati si ribellarono nuovamente e Marzio si accampò presso Fidene con un esercito leggero. I Fidenati attribuirono le incursioni subite dai Romani ad iniziativa privata e chiesero tempo per trovarne i colpevoli mentre di fatto preparavano l'offensiva.
40) Comprese le intenzioni dei Fidenati Marzio attaccò la città e concluse l'assedio facendo infiltrare soldati Romani tramite cunicoli appositamente scavati. I Fidenati furono puniti duramente, i capi della rivolta vennero uccisi. Anche i Sabini ruppero in quel periodo gli accordi di pace e si diedero a razziare le aree di confine. Marzio li sconfisse con l'impiego dell'esercito e della cavalleria e concesse loro una pace favorevole per non distrarre le proprie forze impegnate nella guerra contro i Latini.
41) Circa quattro anni dopo Marzio attaccò Veio devastando gran parte della regione. Vinse i Veienti e celebrò il trionfo ma due anni dopo Veio tentò di riprendere le saline alle quali aveva rinunciato in un trattato con Romolo. Con una seconda battaglia i Romani si aggiudicarono il possesso indiscusso delle saline. Il comandante della battaglia, Tarquinio, fu fatto senatore. Marzio si scontrò quindi con i Volsci ed assediò Velitre, quindi accettò la richiesta di pace degli abitanti e stipulò un trattato.
42) Fu poi la volta dei Sabini, un gruppo dei quali prese a minacciare il territorio romano (lacuna nel testo) e fu sconfitto dai Romani.
43) Marzio aggiunse alla cinta muraria della città l'Aventino. Sull'Aventino fu costruito un tempio di Artemide, l'area fu destinata alle abitazioni di quanti erano stati deportati da Politorio, Tellene e dalle altre città conquistate da Anco Marzio.
44) Marzio decise di costruire alla foce del Tevere un porto fluviale sfruttando l'imboccatura stessa del fiume. Le navi a remi riuscivano a risalire il corso del Tevere fino a Roma mentre il carico delle navi marittime più grandi veniva trasferito su imbarcazioni più piccole. Nei pressi del porto Anco Marzio fondò la città di Ostia.
45) Cinse di mura anche il Gianicolo, al di là del Tevere e vi installò una guarnigione per vigilare sulla navigazione del fiume. Gli si attribuisce anche la costruzione di un ponte di legno.
Anco Marzio morì dopo ventiquattro anni di regno lasciando un figlio bambino ed uno appena entrato nella pubertà.
46) Dopo la morte di Anco Marzio gli Interreges elessero Lucio Tarquinio, nel secondo anno della 41ma Olimpiade (614 a.C.). Le origini di Tarquinio: Demarato di Corinto, della stirpe dei Bacchiadi era un mercante e svolgeva intensi commerci fra la Grecia e le città tirrene. Allo scoppio a Corinto della rivolta di Cipselo, Demarato considerò prudente trasferirsi definitivamente in Italia. Si stabilì a Tarquinia, sposò una donna nobile ed ebbe due figli, Aronte e Lucumone, che sposarono donne etrusche.
47) Aronte morì giovane e poco dopo morì Demarato, lasciando Lucumone suo unico erede. Lucumone tentò la politica ma i Tarquinesi lo emarginarono, così decise di trasferirsi a Roma (città che notoriamente accoglieva bene gli stranieri) con la moglie ed un nutrito seguito di amici. Quando Tarquinio fu alle porte di Roma un'aquila ghermì il suo copricapo, lo portò in alto, quindi lo rimise sulla sua testa. Tanaquilla, moglie di Tarquinio, interpretò il fatto come un presagio: Tarquinio avrebbe ottenuto il comando supremo.
48) A Roma Tarquinio si presentò ad Anco Marzio mettendo a disposizione i propri beni e fu accolto positivamente. Costruì una abitazione e ricevette un lotto di terra. Sostituì il nome Lucumone con Lucius ed aggiunse il gentilizio Tarquinio dal nome della sua città natale. Divenne amico e consigliere del re e partecipò alle sue imprese belliche. Strinse amicizia nel patriziato e si rese ben accetto alla popolazione.
49) La popolarità conquistata gli valse il trono alla morte di Anco Marzio. La sua prima guerra fu contro gli Apiolani, abitanti di una città latina, che venne presa e distrutta. Quindi Tarquinio guidò una spedizione contro Crustumerio, già sottomessa da Romolo, che tentava di sollevarsi. I Crustumerini non ottenendo aiuti dagli altri Latini si arresero subito e furono risparmiati.
50) Analoga ribellione tentarono i Nomentani ed anche essi si arresero senza combattere. Gli abitanti di Collatia tentarono invece di combattere ma vinti, furono privati delle armi e multati. Rimase a governare Collatia Tarquinio Aronte, figlio postumo di Aronte, fratello del re.
Tarquinio Aronte era soprannominato Egerio (indigente) perchè nato dopo la morte del padre e del nonno non aveva ricevuto eredità, dalla sua nomina a Collatia fu detto Collatino.
Tarquinio marciò poi contro Cornicolo, che fu espugnata e saccheggiata. I Latini si unirono contro Tarquinio ma furono battuti presso Fidene.
51) Alcune città latine si sottomisero ma le altre si riorganizzarono ed ottennero promesse di aiuto dai Sabini e da alcune città etrusche.
52) Scontri non decisivi fra Romani e Latini.
53) Vittoria di Tarquinio sui Latini.
54) Clemenza di Tarquinio verso le città conquistate. Trattato di amicizia.
55) L'anno successivo Tarquinio condusse le truppe contro i Sabini. Alcuni scontri e sortite. I Sabini si accamparono alla confluenza fra il Tevere e l'Aniene.
56) Stratagemma di Tarquinio per incendiare il ponte poco sotto la confluenza tra Aniene e Tevere, costuito dai Sabini per unirsi alle forze tirrene. All'incendio segue l'attacco vittorioso dei Romani.
57) Si concluse una tregua di sei anni con i Sabini. I Tirreni invece si coalizzarono contro Roma e si impadronirono di Fidene per farne una base militare antiromana. La primavera successiva Tarquinio raccolse un grosso esercito di Romani e di alleati e marciò contro i Tirreni. Comandava personalmente le truppe romane mentre aveva affidato il comando dei contingenti alleati a suo nipote Egerio. Gli alleati dei Romani subirono una prima sconfitta nei pressi di Fidene ma Tarquinio invase e saccheggiò il territorio di Veio e riportò una vittoria sulle forze etrusche accorse in aiuto dei Veienti. Nei mesi successivi Tarquinio penetrò nel territorio etrusco infliggendo al nemico varie sconfitte.
58) Gli assalti Romani ridussero Veio in gravi difficoltà, quindi Tarquinio si diresse contro Cere. Sconfitti i Ceretani ripresero le ostilità contro Fidene che fu assediata ed espugnata. La guarnigione etrusca venne ridotta in catene ed i capi ribelli dei Fidenati furono giustiziati o esiliati.
59) Scaduta la tregua di sei anni i Sabini ripresero a combattere contro Roma ma non ottenendo dagli Etruschi l'aiuto sperato furono definitivamente sconfitti sul loro territorio presso la città di Ereto. La vittoria di Tarquinio fu schiacciante ed il re ottenne il trionfo. I Tirreni decisero infine di intraprendere trattative per stabilire accordi di pace.
60) Ascoltati gli ambasciatori tirreni, Tarquinio si dichiarò intenzionato a concludere la pace senza punire i Tirreni, pretendere tributi o occupare città a condizione di ottenere spontaneamente dalle città tirrene il riconoscimento della supremazia di Roma.
61) Gli ambasciatori etruschi tornarono in patria a riferire la proposta di Tarquinio e pochi giorni dopo tornarono recandogli i simboli regali con i quali le città accettavano la supremazia del re dei Romani: una corona d'oro, un trono d'avorio, uno scettro sormontato da un'aquila, una tunica di porpora con fregi in oro e un mantello di porpora ricamata. Inoltre portarono dodici scuri, provenienti dalle altrettante città, che come simboli del comando supremo avrebbero dovuto precedere il re recate dai littori. Dionisio dice che alcune sue fonti attribuivano questa istituzione a Romolo, ritiene comunque che l'usanza sia d'origine tirrena.
62) Tarquinio, consultatato il Senato, accettò ed adottò questi ornamenti onorifici che durante il suo regno divennero istituzionali e passarono ai suoi successori. Dopo la caduta della monarchia divennero simboli dei consoli annuali ad eccezione della corona e della porpora il cui uso fu limitato alla celebrazione dei trionfi.
63) Conclusa così la guerra con i Tirreni (durata nove anni) ripresero gli scontri con i Sabini, i quali oltrepassarono l'Aniene e devastarono i territori immediatamente circostanti Roma. Tarquinio li respinse e rimase a presidiare la città finchè non sopraggiunsero le forze richieste agli alleati.
64) Si giunse alla battaglia campale ed i Sabini furono sconfitti e decimati dalla cavalleria romana. Le città sabine organizzarono un nuovo esercito ma Tarquinio le attaccò con prontezza. Tarquinio cinse d'assedio il campo sabino costringendo i suoi occupanti alla fuga ma la guerra durò ancora cinque anni. Nello scontro finale compare Servio Tullio, come generale alla guida dei contingenti alleati.
66) Alla fine i Sabini stremati da ripetute sconfitte cedettero e trattarono la pace consegnando a Tarquinio le loro città. Tarquinio accettò la resa e celebrò il suo terzo trionfo.
67) Sul piano politico Tarquinio attuò alcune riforme. Creò cento nuovi senatori portando a trecento il numero dei componenti effettivi del Senato. Portò da quattro a sei il numero delle vestali per compensare il maggior impegno dovuto al cresciuto numero di cerimonie pubbliche in onore di Hestia. Alcuni autori attribuivano a Tarquinio l'uso di giustiziare le vestali che rompevano il voto di castità. Abbellì con botteghe e porticati il Foro e fece costruire la prima cinta regolare di mura (le mura precedenti erano realizzate in modo empirico e grossolano). Diede inizio allo scavo di canali sotterranei per convogliare le acque al Tevere, opera che Dionisio annovera per importanza, utilità e costo, fra le maggiori realizzazioni romane.
68) Fece innalzare il più grande degli ippodromi facendovi per primo installare sedili coperti. Dionisio fornisce una descrizione dell'ippodromo: le dimensioni (645 m. x circa 123 m.), un canale di racconta delle acque intorno all'edificio e portici a tre piani. Esternamente all'ippodromo botteghe e negozi. Molte entrate ed uscite semplificavano l'accesso e l'uscita. Non è chiaro se la descrizione si riferisca all'ippodromo così come era ai tempi di Dionisio (pare probabile) o a quella che viene attribuita a Tarquinio.
69) Intraprese la costruzione del tempio di Zeus, Era ed Atena, per sciogliere un voto formulato nel corso dell'ultima battaglia contro i Sabini. Fu necessario recintare il colle dove doveva sorgere il tempio con muri di rinforzo e creare un terrapieno in piano. Prima di gettare le fondamenta il re morì ed il lavoro fu ripreso da Tarquinio il Superbo ed infine completato dai consoli del terzo anno. La tradizione riferiva un episodio inerente alla costruzione del tempio (l'episodio è da Livio attribuito al regno di Tarquinio il Superbo): consultati dal re gli auguri indicarono il Campidoglio come luogo ideale per la costruzione, quindi passarono ad interrogare le varie divinità che avevano altari sul colle per conoscere la loro opinione in merito allo spostamento degli altari stessi. Tutte le divinità dettero segnali positivi ad eccezione di Terminus e Juventus (il dio dei confini e quello della giovinezza) i cui altari finirono inglobati nel tempio. Il fatto fu interpretato come presagio della perenne stabilità e del continuo vigore del dominio romano.
70) Il più importante augure consultato da Tarquinio Prisco si chiamava Attio Nevio. Era di umile origine. Da ragazzo, mentre custodiva le bestie del padre, ne smarrì alcune e chiese aiuto agli dei che gli fecero trovare sia le bestie smarrite che il grappolo più grande della vigna che il giovane aveva promesso loro in sacrificio. Da questi fatti il padre di Attio Nevio intuì le capacità divinatorie del ragazzo e lo avviò agli studi, prima a Roma poi presso gli Etruschi. Per la conoscenza della mantica così acquisita Attio Nevio divenne il più famoso augure della Roma dei suoi tempi.
71) Attio Nevio, secondo la leggenda, si oppose a Tarquinio quando questi concepì l'dea di istituire tre nuove tribù facendone eponimi se stesso e due suoi amici personali, poichè Attio non voleva che fossero alterate le istituzioni di Romolo.
Adirato Tarquinio lo fece comparire davanti al tribunale e lo sfidò a dar prova delle sue capacità divinatorie. Attio Nevio dovette consultare gli auspici a proposito di un progetto del re (che questi non descrisse) e sapere se il progetto fosse realizzabile. Poco dopo Nevio affermò di aver avuto auspici positivi e Tarquinio, per metterlo in ridicolo svelò il progetto. Si trattava di tagliare con il rasoio la pietra cote. Senza perdere la calma l'augure invitò il re a provare e fra lo stupore generale il re riuscì con un solo colpo di rasoio a dividere la pietra in due parti. Da allora Tarquinio ebbe grande rispetto per Nevio, abbandonò il progetto delle nuove tribù e fece addirittura collocare una statua dell'augure nel Foro.
72) Tarquinio, ormai ottantenne, fu ucciso dai figli di Anco Marzio. Il movente dei congiurati era ovviamente l'aspirazione al regno. Quando Attio Nevio scomparve misteriosamente tentarono di accusare Tarquinio ma questi seppe scagionarsi sfruttando il proprio ascendente sul popolo.
73) Dopo il processo i figli di Anco Marzio fuggirono da Roma ma passato qualche tempo si riconciliarono con Tarquinio. Trascorsero cinque anni ed alla prima occasione propizia riuscirono a vendicarsi. Alcuni membri della congiura inscenarono una rissa fra cittadini di fronte alla dimora di Tarquinio il quale intervenne per dirimere la contesa. Nella confusione due giovani colpirono il re al capo con dei falcetti. Molti congiurati riuscirono a mettersi in salvo ma i sicari, catturati e torturati, svelarono i nomi dei mandanti.

Libro Quarto


1) Tarquinio morì dopo trentotto anni di regno, suo successore fu il genero Servio Tullio (576 a.C.).

Origini di Servio Tullio. Quando Tarquinio conquistò la città di Cornicolo ne trasse prigioniera la nobildonna Ocrisia, moglie di un certo Tullio che cadde in battaglia. Ocrisia, che era incinta, divenne schiava di Tanaquilla, moglie di Tarquinio e mise al mondo Servio Tullio. Tanaquilla le si affezionò e presto le rese la libertà.

2) Dionisio racconta un'altra versione leggendaria delle origini di Servio Tullio: Ocrisia era schiava nella casa di Tarquinio e fu la prima testimone della apparizione di un gigantesco fallo sul focolare. Su parere di Tanaquilla e degli indovini Ocrisia fu affrancata e condotta in abito nuziale nella stanza dell'apparizione e fu lasciata da sola. Qui si sarebbe accoppiata con un dio, forse Efesto, per concepire Servio Tullio.

Un'ulteriore tradizione parlava di una fiamma prodigiosa apparsa una volta sul capo di Servio addormentato.

Nota: L'episodio del fallo sul focolare è molto simile ad una leggenda narrata da Plutarco (Romolo, 2) a proposito del dispotico re Tarchezio e delle origini di Romolo e Remo.

3) Da ragazzo Servio aveva combattuto con Tarquinio contro i Tirreni guadagnandosi fama di grande valore, più tardi aveva partecipato alla battaglia di Ereto coprendosi di gloria. A vent'anni ebbe il comando dei contingenti alleati Latini. Nella prima guerra contro i Sabini fu comandante della cavalleria. Per questi ed altri meriti ottenne il passaggio dalla classe plebea a quella patrizia. Sposò una delle figlie di Tarquinio. Durante la vecchiaia di Tarquinio entrò sempre di più nella direzione degli affari di stato.

4) Alla morte di Tarquinio la vedova Tanaquilla decise di aiutare il genero a prendere il potere. Si decide di nascondere al popolo la morte di Tarquinio e di far credere che il re abbia designato Servio come suo sostituto durante la convalescenza.

Nel frattempo Tullio avrebbe citato in giudizio i Marci condannandoli a morte o all'esilio. Eliminati i pericolosi antagonisti Tullio avrebbe potuto annunciare la morte di Tarquinio ed ottenere facilmente la successione. Il figlio di Tarquinio era morto ed aveva lasciato due bambini. Servio avrebbe dovuto cedere il trono al primogenito quando questi fosse diventato adulto.

5) L'indomani Tanaquilla attuò il suo piano e comunicò al popolo quanto stabilito. Tullio aprì il processo contro i Marci ottenedone la condanna in contumacia all'esilio a vita ed alla confisca dei beni.

6) Dionisio disserta da Fabio Pittore e da altre fonti che sostenevano che i bambini fossero figli e non nipoti di Tarquinio. Considerando gli eventi della vita di Tarquinio che era arrivato a Roma almeno venticinquenne, era stato alla corte di Anco Marzio per diciassette anni ed aveva regnato per trentotto, il re doveva essere almeno ottuagenario al momento della morte e la moglie doveva verosimilmente avere circa settantacinque anni. Era quindi impossibile che la coppia avesse figli piccoli. Se invece i figli fossero stati vivi ed adulti non avrebbero accettato di essere soppiantati da Servio.

7) Ulteriore argomento per sostenere che erano nipoti e non figli di Tarquinio: il primogenito viene descritto nel pieno degli anni quando uccide Servio Tullio, mentre se fosse stato figlio di Tarquinio sarebbe stato più che settantenne ed avrebbe a sua volta preso il trono a novantasei anni. Avrebbe poi compiuto altre operazioni belliche per altri quattordici anni giungendo dunque all'età di centodieci anni.

Citazione di Lucio Pisone Frugi, l'unico ad aver riportato correttamente questi particolari (dal sommario del Libro Quarto

(Lacuna nel testo).

8) Quando giudicò di avere saldamente in mano il potere Servio dichiarò che Tarquinio era appena morto e gli diede sepoltura, dedicandogli un monumento. Quindi come tutore dei bambini assunse la custodia della famiglia e dello stato. Presto i patrizi divennero insofferenti del governo di Tullio e si organizzarono per deporlo. Tullio cercò di guadagnarsi l'appoggio popolare soccorrendo gli indigenti. Convocò il popolo in assemblea e pronunciò un discorso.

9) Discorso di Tullio. Dichiara la sua gratitudine verso Tarquinio, del quale si impegna a proteggere i figli. Assume su di se i debiti dei cittadini bisognosi e vieta, per il futuro, di garantire i debiti con la libertà personale. Preannuncia un censimento che servirà a ridistribuire le risorse e regolare più equamente la pressione fiscale.
10) Il discorso di Tullio fu molto apprezzato dall'assemblea. Nei giorni seguenti cominciò a mettere in pratica le sue promesse saldando personalmente i debiti degli indigenti e confiscando le terre pubbliche a quanti se le erano accaparrate illecitamente per distribuirle ai bisognosi. Ostilità del Senato. I senatori decidono di non tentare di deporre Tullio perchè troppo ben voluto dal popolo. Tullio sparge la voce che i patrizi tramavano contro di lui, quindi convoca di nuovo l'assemblea presentandosi con l'intera famiglia reale. Un altro discorso.

11) Dopo aver accusato gli usurai, quanti detenevano terreni pubblici e parte di patrizi di complottare con i figlio di Marzio per ucciderlo, Tullio rimette al popolo la decisione.
12) Il popolo si esprime favorevolmente nei confronti di Tullio, anche grazie all'operato dei suoi partigiani sparsi fra la folla. Si indicono elezioni che confermano Tullio al potere, si omette di far ratificare l'elezione al Senato.
13) Tullio emanò varie riforme in materia di diritto privato ed operò una ridistribuzione delle terre. Aggiunse al territorio urbano due colli: il Viminale e il Quirinale, egli stesso si stabilì sul Quirinale. La Roma dell'epoca doveva essere poco più grande di Atene.
14) Tullio cinse di mura i colli che con le sue annessioni erano diventati sette, e divise la città in quattro parti: Palatina, Suburrana, Collina, Esquilina. Portò il numero delle tribù da tre a quattro. In base a questa ripartizione regolò gli arruolamenti. Istituì le feste Compitalia, in onore degli eroi protettori dei crocicchi. Durante queste feste si svolgevano cerimonie cui partecipavano solo i servi che in quei giorni venivano trattati da liberi.

15) Divise tutto il territorio in ventisei regioni secondo Fabio, in trentuno secondo l'annalista Vennonio. A scopo di difesa e per riparo notturno fece costruire rifugi fortificati in ogni regione a cui dette il nome di pagi, parola che Dionisio considera nell'accezione greca con il significato, appunto, di rifugio. Istituì le feste Paganalia in onore delle divinità protettrici dei quinquatria.

Tramite il censimento istituì la tassazione diversificata e regolò gli impegni di arruolamento della cittadinanza.
Furono istituite tasse particolari da versare ad ogni nascita ed a ogni morte (al tempio di Giunone o a quello di Venere) e in occasione del raggiungimento della maggiore età (tempio di Juventus), di importo diverso per uomini, donne e bambini, in modo che il computo di tali tributi incassati aiutasse a determinare il numero dei cittadini viventi e degli uomini atti alla leva. Istituì quindi il censimento vero e proprio facendo obbligo ai cittadini di dichiarare le proprie generalità ed una valutazione esatta dei propri beni. L'evasione da queste norme poteva comportare la confisca dei beni, il flagello e la schiavitù.

16) Organizzò coloro che avevano il censo più alto in ottanta centurie armate. Quaranta centurie, formate dai più giovani, erano destinate alle operazioni in campo aperto mentre le altre quaranta erano destinate alla difesa della città. Queste ottanta centurie costituivano la prima classe. La seconda classe, formata da cittadini di censo medio, contava venti centurie, anche in questo caso i più giovani formavano dieci centurie adibite alle battaglie e le altre dieci centurie adibite alla difesa delle mura.

La terza classe, di un livello di censo più basso, era organizzata esattamente come la seconda in venti centurie, dieci da battaglia e dieci da difesa.

17) La quarta classe fu divisa in venti centurie, la quinta in trenta. L'ultima classe, formata da otto centurie comprendeva i meno abbienti che partecipavano alle attività belliche senza armamenti e provvedevano ai servizi logistici.

18) Le classi suddette formavano la fanteria. Scelse poi un contingente di cavalieri fra i detentori di maggior censo e di nascita illustre e di li divise in in diciotto centurie. I cittadini componenti la classe più povera furono esentati dagli obblighi militari e dal pagamento delle tasse.

Riepilogo delle Classi:

Prima classe 80 centurie + 18 centurie di cavalleria

Seconda classe 22 centurie compresi gli ausiliari

Terza classe 20 centurie

Quarta classe 22 centurie compresi gli ausiliari

Quinta classe 30 centurie.


19) Ciascuna delle 123 centurie aveva l'obbligo di fornire un contingente militare calcolato su un principio di proporzionalità fra impegni e benefici. All'epoca le prestazioni militari non erano retribuite.
20) Per compensare gli oneri che la sua costituzione addossava ai patrizi ed ai possidenti Servio Tullio escogitò un metodo per fornire a queste classi il maggior potere in assemblea. Prese cioè a convocare ed a far votare l'assemblea con un voto per centuria, in questo modo - essendo le centurie degli abbienti numerose - le classi più alte si garantivano la decisione finale.

21) L'inganno di Tullio verso il popolo consisteva nell'univocità del voto esprimibile, indipendentemente dal numero dei cittadini iscritti in ogni centuria. I poveri, che erano i più numerosi, venivano consultati per ultimi e solo se le altre centurie erano in parità (caso estremamente improbabile).
22) Tullio, fissato l'ordinamento censitorio, ordinò la purificazione dell'esercito con il sacrificio di un toro, un ariete ed un caprone (Lustrum). I cittadini Romani registrati nelle tavole del censo erano in numero di 84.700. Tullio fece registrare anche gli schiavi affrancati e, distribuiti nelle quattro tribù urbane, li ammise nei pubblici affari.

23) I patrizi, indignati da questa ultima disposizione convocarono un'assemblea. Tullio illustra loro l'importanza di valutare bene uno schiavo prima di liberarlo ma anche la necessità di riconoscere la cittadinanza a questi schiavi meritevoli che essi stessi avevano liberato. Tullio ribadisce l'importanza di un elevato livello demografico per una città avviata a raggiungere l'egemonia. Il discorso del re convince i patrizi tanto che l'usanza era ancora praticata e ritenuta sacra ai tempi di Dionisio.

24) Usanze romane concernenti la schiavitù. I Romani acquisivano gli schiavi per lo più per averli catturati in guerra. I prigionieri venivano venduti all'asta o concessi in proprietà a chi li aveva catturati. Era abbastanza frequente che gli schiavi dimostratisi utili ed onesti venissero liberati senza pagare. Meno frequentemente la libertà veniva recuperata tramite il pagamento di un riscatto. Secondo Dionisio ai suoi tempi i costumi corrotti facevano si che gli schiavi si arricchissero tramite attività illecite come il furto e la prostituzione finchè giungevano a riscattarsi " e di colpo eccoli cittadini Romani ". Queste circostanze e l'usanza di liberare molti schiavi per procurarsi celebrità facevano biasimare ad alcuni cittadini l'uso di concedere la cittadinanza ai liberti. Dionisio sollecita da parte delle autorità che i liberti vengano passati al vaglio da magistrati competenti prima di concedere loro la cittadinanza affinchè i soggetti indesiderabili vengano espulsi dalla città.

25) Tullio riformò anche il diritto processuale stabilendo che i processi pubblici fossero competenza del re mentre per le cause private fossero istituiti dei giudici con il compito di applicare le disposizioni della sua costituzione. Questa riforma comportava di fatto una riduzione delle prerogative del re che Dionisio ascrive al favore di Servio Tullio verso il popolo. Ammirando il modello anfizionico, inoltre, Tullio volle stabilire legami fra tutti i Latini per evitare guerre e sedizioni.

26) Servio Tullio convocò dunque un'assemblea dei capi latini per proporre una generale alleanza, sotto la supremazia romana, e la costruzione in Roma di un'area sacra ove svolgere solenni celebrazioni comuni. Ottenuto il consenso ed il contributo di tutte le città latine fece costruire il Tempio di Diana sull'Aventino. Fece incidere le disposizioni riguardanti il culto federale così istituito in una stele di bronzo ancora visibile ai tempi di Dionisio. L'autore dice che questa stele era scritta in antichi caratteri greci. ( Potrebbe trattarsi di quella di cui parla R.M. Ogilvie che ritiene fossero caratteri etruschi )

27) Dopo la morte di Tarquinio le città che avevano firmato trattati con quel re non ritennero di doverli rispettare verso il suo successore, il quale fra l'altro non godeva il pieno consenso del patriziato romano. Ad aprire le ostilità furono come al solito i Veienti ai quali seguirono Ceretani e Tarquiniesi ed in breve tutta l'Etruria. La guerra che ne nacque durò venti anni durante i quali si svolsero numerosissime battaglie e Servio Tullio riportò tre trionfi. Alla fine gli Etruschi sconfitti accettarono la supremazia romana e ratificarono di nuovo i trattati stipulati con Tarquinio. Tullio si comportò con clemenza e fra le varie città tirrene solo quelle che si erano fatte promotrici della guerra, Cere, Tarquinia e Veio, furono punite con la perdita del territorio. Compiuti tali atti Servio Tullio dedicò due templi, uno nel Foro Boario, l'altro sulle sponde del Tevere, alla Dea Fortuna, della quale si sentiva debitore. Quando era avanti negli anni Tullio morì per colpa del genero Tarquinio e di sua figlia, per cause che Dionisio si accinge a raccontare.

28) Tullio aveva due figlie avute dalla moglie Tarquinia, figlia di Tarquinio. Le fece sposare con i cugini materni, nipoti di Tarquinio. Dionisio riporta una bizzarra tradizione: uno dei generi, mite e rispettoso, aveva sposato una figlia scellerata di Servio, prontissima a tramare contro il padre, viceversa l'altra figlia, saggia ed amorevole aveva sposato Lucio il quale aspirava a spodestare il suocero ed impadronirsi del regno.

29) Infine Tullia, la figlia malvagia, convocò il cognato ad un colloquio segreto e gli propose di eliminare i rispettivi consorti per unirsi in matrimonio ed organizzare la conquista del trono.

30) Poco tempo dopo, si era nel quarantesimo anno del regno di Servio Tullio, i due consorti indesiderati perirono in circostanze non chiarite, Tarquinio e Tullia si sposarono e cominciarono a tramare più o meno manifestamente contro il vecchio re. Servio Tullio cercò di ridurli alla ragione, quindi citò Tarquinio davanti al Senato perchè esponesse i motivi della sua ostilità.

31 - 32) Davanti al Senato Tarquinio accusa Servio Tullio di aver usurpato il trono e di non averglielo consegnato quando aveva raggiunto l'età opportuna per reggerlo. Lo accusa di aver acquisito il potere in modo irregolare, sobillando la plebe, e gli intima di rimettere il regno nelle sue mani minacciandolo, in caso contrario di azioni drastiche.

33 - 34) Servio Tullio replica deprecando l'ingratitudine di Tarquinio e contestando il principio di ereditarietà del trono e poichè le irregolarità di cui viene accusato avrebbero eventualmente offeso il popolo e non Tarquinio rifiuta di abdicare.

35) Infine Servio dopo aver contestato l'intempestività delle accuse di Tarquinio che avrebbe dovuto citarlo in giudizio molti anni prima se avesse avuto valide ragioni, rimette la decisione nelle mani del popolo.

36) Servio si rivolge al Senato per difendere il suo operato durante i suoi quaranta anni di regno.

37) Tullio convoca immediatamente l'assemblea popolare e tiene una lunga orazione rammentando tutti gli eventi del suo regno e difendendo le proprie posizioni. Tarquinio è costretto a fuggire con i suoi amici per evitare l'indignazione popolare.

38) Umiliato dal successo popolare di Tullio, Tarquinio cerca la riconciliazione ma alla prima occasione propizia arma una congiura di patrizi e tende un agguato al re in Senato: presentandosi vestito di abiti regali occupa il trono ed aggredisce fisicamente Tullio che era imprudentemente accorso con pochissimo seguito. Il re ferito e malconcio è costretto ad allontanarsi.

39) Tullia sopraggiunge su un carro e saluta Tarquinio come nuovo re quindi, presolo in disparte, lo istiga ad eliminare Servio Tullio, consiglio che viene subito accettato. E poco dopo Servio Tullio viene assassinato dai sicari di Tarquinio, per colmo di empietà Tullia vuole passare con il carro sul cadavere del padre.

40) Servio Tullio fu ucciso dopo quarantaquattro anni di regno. Fu il primo sovrano a prendere il potere senza essere stato designato dagli interrè e dal Senato, tuttavia secondo Dionisio la moderazione e la saggezza lo portarono a guadagnare il favore popolare e a far dimenticare le sue origini oscure ed il modo discutibile in cui aveva ottenuto il trono. Dopo la morte di Tullio la città era in grande agitazione e Tarquinio, temendo la reazione della plebe, proibì che al defunto re fosse tributato il consueto cerimoniale funebre. Alla vedova non rimase quindi che trasportare la salma fuori città maledicendo il genero e la figlia. Rientrata a casa dopo la cerimonia la vedova morì durante la notte, forse suicida, forse uccisa dal genero. Sul conto di Servio nacquero tradizioni leggendarie, fra cui quella che raccontava come una sua statua lignea collocata nel tempio della Fortuna Virile fosse scampata all'incendio che aveva distrutto il tempio stesso.

41) Dopo di lui regnò Lucio Tarquinio, nel quarto anno della 61ma Olimpiade (532 a.C.). Tarquinio disprezzò il popolo ed il Senato e convertì il suo potere in una vera e propria tirannide. Istituì subito una nutrita ed agguerrita guardia del corpo che tutelava giorno e notte la sua sicurezza personale. Non concedeva udienze e trattava tutti in modo scortese e irascibile, amministrava la giustizia arbitrariamente. Per queste ragioni ebbe dai Romani il soprannome di " Superbo ", mentre suo nonno fu detto " Tarquinio Prisco ".

42) trascinò in accuse i suoi avversari e quanti disapprovavano la sua ascesa al potere. Con giudizi sommari li condannava a morte o all'esilio e confiscava i loro beni di cui distribuiva una parte ai propri sostenitori. Molti cittadini si salvarono dalle sue persecuzioni partendo in esilio volontario prima di venire coinvolti. Con epurazioni e condanne eliminò gran parte dei senatori sostituendoli con altri a lui compiacenti.

43) Abolì le leggi scritte da Servio Tullio e fece distruggere le tavole affisse nel Foro, soppresse la tassazione basata sul censo obbligando tutti a pagare dieci dracme a persona. Proibì le assemblee e le riunioni pubbliche e sparpagliò spie e delatori fra il popolo.

44) Temendo sedizioni da parte della plebe in ozio intraprese molti lavori pubblici per completare i canali che portavano al fiume le acque di scolo e dotò di portici l'ippodromo.

45) Per ottenere l'appoggio dei Latini fece sposare la propria figlia con un illustre cittadino di Tuscolo, di nome Ottavio Mamilio. Ottenuta l'alleanza dei Latini decise di muovere guerra contro i Sabini che non volevano più rispettare i trattati stipulati con Servio Tullio. Convocò l'assemblea dei Latini ma non si presentò, suscitando l'indignazione di tutti e soprattutto quella dell'influente Turno Erdonio che pronunciò severe critiche contro di lui. Per la mediazione di Mamilio il consiglio venne sospeso e rinviato di un giorno.

46) Il mattino seguente Tarquinio scusò in modo vago il ritardo e passò senz'altro a reclamare la supremazia sui Latini in forza degli accordi stipulati da suo nonno. Venne duramente contestato da Turno Erdonio. Erdonio si oppone all'egemonia di Tarquinio, lo accusa di aver usurpato il trono romano e di esercitare di fatto la tirannide, esorta dunque i Latini a non accogliere le sue richieste, anzi a ribellarsi e a combatterlo.

47) Tarquinio chiese ed ottenne un giorno per preparare la propria difesa contro le accuse di Turno Erdonio, in realtà preparò la rovina del suo accusatore. Corrompendo i servi di Turno fece nascondere delle armi nella sua casa poi si presentò al consiglio. L'astio di Turno verso di lui, disse Tarquinio all'auditorio, derivava dal suo rifiuto di concedergli la figlia in moglie, d'altronde Turno Erdonio era un cospiratore e tramava per tiranneggiare i Latini. A prova delle sue accuse Tarquinio disse di essere venuto a sapere che Erdonio nascondeva molte armi, preparando il colpo di stato.

48) Ignaro del tradimento Turno sottopone volentieri la sua casa alla perquisizione ma quando trovarono le armi i Latini lo giustiziano sommariamente e ringraziano Tarquinio per aver sventato il colpo di stato. Si rinnovano i trattati di pace ed i Latini riconoscono la supremazia del re romano.

49) Tarquinio propose l'alleanza anche ai Volsci ed agli Ernici. Gli Ernici aderirono compatti mentre fra i Volsci solo le città di Ecetra e di Anzio accettarono l'invito. Tarquinio fissò un centro comune per celebrare una festa in onore di Zeus laziale sul monte che sovrasta la città di Alba.

50) Tarquinio depredò le campagne dei Sabini quindi attaccò la città volsca di Suessa Pometia. Dopo aver vinto alcuni scontri con i Pomentini strinse la città in assedio ed espugantala la saccheggiò ampiamente trucidando o traendo in schiavitù gli abitanti. Destinò un decimo dell'oro ricavato dal saccheggio alla costruzione di un tempio mentre divise il resto con i soldati (diversamente in Livio l'oro viene interamente destinato alla costruzione del tempio ma poi impiegato per le spese di guerra).

51) Durante l'assedio di Suessa Pometia Tarquinio seppe che i Sabini avevano preparato due eserciti. Li incontrò ad Ereto. La fortuita cattura di un messaggero delle truppe sabine permise a Tarquinio di venire a conoscenza dei piani del nemico e di agire di conseguenza. Appostò parte del suo esercito in posizione strategica durante la notte. Il vantaggio derivato da questa manovra gli permise di accerchiare e battere facilmente il nemico il mattino seguente.

52) Sconfitti così i contingenti Sabini accampati ad Ereto Tarquinio marciò contro quelli di stanza a Fidene. Questi si arresero spontaneamente alla vista delle teste dei Sabini uccisi ad Ereto che i Romani ostentavano sulla punta delle lance ; si arresero senza combattere. Ottenuta la sottomissione dei Sabini e ricavato così un ricco bottino, Tarquinio il Superbo prese a compiere scorrerie e saccheggi nel territorio dei Volsci, finchè non scoppiò una lunga guerra.

53) Era all'epoca fiorente ed importante la città di Gabii. A Gabii si erano rifugiati molti dei superstiti di Suessa che chiedevano aiuto per vendicarsi di Tarquinio. Altrettanto facevano i Volsci che cercavano l'alleanza di Gabii. In breve iniziarono fra Gabii e Roma ostilità e rappresaglie, che sfociarono infine in una lunga guerra.

54) Tarquinio organizzò le difese ed aumentò le fortificazioni della cinta muraria ma il protrarsi della guerra portò entrambe le città ad una situazione di grave penuria di rifornimenti. A Roma la parte più povera della popolazione sollecitava la pace.

55) Un figlio di Tarquinio il Superbo di nome Sesto (in Dionisio è il maggiore, in Livio il minore) escogitò uno stratagemma per far cadere Gabii. D'accordo con il padre finse di essere in contrasto con lui, subì delle pubbliche punizioni ed infine cercò l'aiuto dei Gabii che ben volentieri lo accolsero offrendogli protezione. Trasferitosi a Gabii Sesto operò numerose incursioni in territorio romano procurando, grazie alla segreta complicità del padre, ricchi bottini. In breve Sesto arrivò a condizioni di massimo prestigio a Gabii. A quel punto inviò segretamente un messo a Tarquinio per chiedergli istruzioni.

56) Tarquinio, per tenere segreto al messo il contenuto della risposta ricorse ad un gesto significativo: spezzò con un bastone i papaveri più alti di un campo, per indicare che il figli doveva eliminare i personaggi più importanti di Gabii. Sesto convocò l'assemblea e simulò di essere oggetto di una macchinazione che lo costringeva a rinunciare al comando e ad abbandonare Gabii.

57) Sesto denunciò un certo Antistio Petrone, illustre cittadino. Antistio si dichiarò innocente ma con una perquisizione della sua casa si scoprì una lettera di Tarquinio che lo comprometteva completamente. Ovviamente la lettera era stata nascosta nella casa dai servi di Antistio corrotti da Sesto. Antistio fu subito lapidato dalla folla.

58) Subito informato da Sesto degli eventi Tarquinio mosse con le sue truppe verso Gabii ed approfittando della confusione che ormai regnava in città riuscì rapidamente a vincere le difese. Contrariamente alle sue abitudini si comportò in modo magnanimo non applicando ai Gabii nessuna punizione o confisca anzi ammettendoli alla parità dei diritti con i cittadini Romani. Suo scopo era quello di creare negli abitanti di Gabii un folto gruppo di sostenitori del suo potere. Dionisio dice che ancora ai suoi tempi era visibile a Roma nel tempio di Giove uno scudo recante l'iscrizione del giuramento di pace avvenuto in quell'occasione.

59) Dopo la pace con i Gabii Tarquinio evitò di intraprendere nuove imprese belliche e si dedicò a costruire templi per Zeus, Era e Atena che Tarquinio Prisco aveva votato durante la guerra con i Sabini e non era riuscito a completare. Durante gli scavi per la costruzione avvenne un prodigio: fu rinvenuta a grande profondità la testa di un uomo che sembrava sgozzato da poco, ancora sanguinante. Gli indovini romani non seppero interpretare il fenomeno e rimisero il caso ai colleghi etruschi.

60) Ambasciatori di Tarquinio si recano da un augure etrusco per chiedergli la spiegazione del prodigio della testa mozzata. Li accoglie il giovane figlio dell'augure che li consiglia su come porre le domande.

61) Il responso spiega che la testa è quella di tutta l'Italia. I Romani chiamano allora il luogo Colle Capitolino. Dionisio descrive i tre templi sul colle, dedicati a Giove, Giunone e Minerva.

62) Una donna non romana offrì un giorno in vendita nove libri a Tarquinio che rifiutò di comperarli. La donna tornò qualche giorno dopo: aveva bruciato tre dei nove libri ma chiedeva lo stesso prezzo. Fu derisa e scacciata da Tarquinio. Tornò ancora, con soli tre libri e chiese ancora lo stesso prezzo. Stupitissimo il tiranno consultò gli auguri che sentenziarono che i libri dovevano contenere oracoli inviati dagli dei ed il re comperò i tre volumi superstiti. In questo modo secondo la tradizione, Roma acquisì i Libri Sibillini.
I Libri furono gelosamente custoditi dai Romani per secoli e consultati nelle grandi occasioni. Nell'83 a.C. un incendio distrusse il tempio di Giove Capitolino e con esso i libri originali che furono sostituiti con copie che si trovavano in varie città. Citazione di Terenzio Varrone in merito.

63) Tarquinio fondò due città, Signa e Circea, presso il promontorio dove il mito collocava la dimora di Circe. Affidò le due colonie ai suoi figli: Circea ad Arunte, Signa a Tito. Quando era all'apice del potere, però cadde in disgrazia a seguito di una congiura e dello scandalo provocato da suo figlio Sesto che aveva violentato una nobildonna. La disgrazia di Tarquinio era stata annunciata da un prodigio quando gli avvoltoi avevano scacciato due aquile che nidificavano nel giardino della reggia.

64) Dionisio riepiloga gli eventi che porteranno alla caduta di Tarquinio. Mentre Tarquinio assediava Ardea inviò il figlio Sesto in missione nella città di Collatia, ospite di un parente di nome Lucio Tarquinio detto il Collatino. Secondo Fabio Pittore questo Collatino era figlio di Egerio, figlio del fratello di Tarquinio Prisco. Dionisio è invece dell'opinione che Egerio fosse il nonno di Collatino.

Durante la sua permanenza a Collatia Sesto decise di sedurre Lucrezia, moglie di Collatino. Una notte si introdusse nella stanza di lei con la spada in pugno.

65) Sesto propose alla donna di compiacerlo promettendole di sposarla e farla regina, si riteneva infatti il certo erede del trono, in caso contrario l'avrebbe uccisa ed infamata, asserendo di averla trovata a letto con un servo. Atterrita Lucrezia cedette.

66) L'indomani Lucrezia si reca a Roma da suo padre per chiedergli di vendicarla dell'oltraggio subito.

67) Convocati tutti i parenti Lucrezia racconta l'accaduto e si uccide chiedendo di essere vendicata. Fra i parenti c'è Publio Valerio che viene incaricato di andare ad avvertire Collatino che si trovava fuori città ed era ignaro dell'accaduto. Insieme a Collatino, Valerio trova Giunio Bruto. Dionisio si accinge a narrare le origini di Bruto ed il motivo del suo soprannome (Sciocco).

68) Lucio Giunio Bruto era figlio di Marco Giunio, di antica famiglia, sua madre era Tarquinia, figlia di Tarquinio Prisco. Durante il regno di Tullio era cresciuto ricevendo un'ottima educazione, ma quando Tarquinio il Superbo aveva ucciso Tullio aveva eliminato, fra le molte vittime delle sue persecuzioni anche il padre ed il fratello di Lucio. Al ragazzo, molto giovane e privo di aiuti, non era rimasto che fingersi semidemente per passare inosservato.

69) Tarquinio lo aveva privato dei beni paterni e dotatolo di un piccolo sussidio lo aveva tenuto nella sua casa come parente orfano. Lucio Giunio aveva continuato a far lo stupido per divertire i figli di Tarquinio.

Quando una pestilenza decimò i Romani, Tarquinio inviò i suoi figli, e con questi Bruto, a consultare l'oracolo di Delfi. Bruto offrì al dio un flauto di legno divertendo molto i compagni ma il flauto in realtà era una verga d'oro e quando l'oracolo sentenziò che avrebbe regnato sui Romani il primo di loro che avesse baciato la madre Bruto fu l'unico a comprendere e appena sbarcato in Italia baciò la terra.

70) Udendo la notizia del suicidio di Lucrezia Bruto decise che era ora di smettere la finzione e di agire contro il tiranno. Bruto svelò a Collatino ed a i parenti di Lucrezia la propria finzione e parlò loro fino a convincerli ad agire. Giurò quindi sul cadavere della donna di combattere i Tarquini fino alla loro cacciata o alla propria morte.

71) Bruto espone il suo piano: si tratta di portare nel Foro il cadavere ancora insanguinato di Lucrezia e di denunciare pubblicamente l'onta subita, Giunio, che ha il potere di convocare l'assemblea in quanto comandante dei celeri, è certo di riuscire a far votare la destituzione di Tarquinio. Il re gli aveva conferito la carica proprio perchè lo riteneva inoffensivo.

72) I ribelli discutono sulla forma di governo da instaurare una volta cacciato Tarquinio. Sono tre le diverse opinioni: eleggere un nuovo re, affidare il potere al Senato, instaurare la democrazia.

73) Infine Bruto propone con un breve discorso di instaurare un governo di due uomini, rifacendosi al modello spartano.

74) Giunio propone inoltre che vengano aboliti molti simboli regali e che i magistrati supremi durino in carica un solo anno, come avveniva ad Atene. In questo modo Giunio sostiene che si continuerà a beneficiare dei vantaggi della monarchia senza subire i pericoli. Propone inoltre di istituire un " Rex Sacrorum " per la celebrazione dei sacrifici.

75) Bruto propone di affidare ad un interrè la scelta dei nuovi magistrati.
76) Viene deciso che si elegga come interrè Spurio Lucrezio (il padre di Lucrezia), che Bruto e Collatino siano i due nuovi magistrati ai quali sarà dato il nome di Consules.
La salma di Lucrezia viene trasportata nel Foro, qui Bruto tiene un discorso.
77) Discorso di Bruto. Inizia precisando che la sua follia è sempre stata simulata per motivi di sicurezza.

78) Accusa di tirannia Tarquinio ed annuncia la decisione dei patrizi di destituirlo.

79) Riepilogo delle principali malefatte di Tarquinio. L'uccisione del fratello Arunte con la complicità della cognata. Uccisione della prima moglie e matrimonio con la cognata. Uccisione di Servio Tullio e della moglie Tarquinia.

80) Denuncia gli atti illegali compiuti da Tarquinio per prendere il potere.
81) Crimini e vessazioni commessi da Tarquinio ai danni dei cittadini e dei senatori, sospensione da parte sua delle assemblee.
82) Se Lucrezia, dice Bruto, ha preferito eroicamente morire, anche tutti i Romani devono considerarsi infelici perché privati della libertà.
83) Esortati anche i plebei a lottare per la libertà, Bruto conclude il proprio discorso con la considerazione che un'impresa di valore avrà certamente un esito felice.
84) Entusiasmo e collera della folla. Alla fine del discorso di Bruto la folla è unanime nella decisione ma Bruto chiede che l'espulsione dei Tarquini sia confermata da una regolare votazione. Ottenuto il consenso Bruto spiega rapidamente le nuove magistrature ed indica Spurio Lucrezio come interrè. Questi a sua volta propone Bruto e Collatino come primi consoli e i comizi confermano la loro nomina.

85) Tarquinio il Superbo, che si trovava in un accampamento fuori città, cerca di tornare a Roma ma trova le porte sbarrate e le guardie ostili. Tornato nel suo accampamento trova le truppe già informate degli ultimi avvenimenti e contrarie alla monarchia, perchè nel frattempo, anche i soldati suddivisi per centurie avevano votato ratificando la condanna del re.

Tarquinio è costretto a rifugiarsi a Gabii, presso suo figlio Sesto, che era stato da lui nominato re di Gabii .


Libro Quinto


1) Fu così abolita dopo duecentoquarantaquattro anni dalla fondazione la monarchia romana (Dionigi indica come data l'arcontato ateniese di Isagora, 507 a.C.).
Furono nominati i primi consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, e fu decretato il bando perpetuo dei Tarquini e la definitiva abolizione della monarchia.
Venne tuttavia conservata (per motivi rituali) la carica di re da assegnare ad un magistrato privo di poteri politici che si occupasse esclusivamente dei sacrifici e di altre funzioni religiose. Il primo ad essere scelto per questa carica fu Manio Papirio.
2) Vennero definite le insegne dei consoli e ripristinata la normativa di Servio Tullio che era stata abrogata da Tarquinio il Superbo.
3) Intanto Tarquinio sostava a Gabii in cerca di aiuti militari per riprendere il potere. Non ottenendone si trasferì a Tarquinia, città degli Etruschi.
Qui si procurò il favore della cittadinanza elargendo doni e ricordando le proprie origini etrusche ed ottenendo che una delegazione della città si recasse a Roma a perorare in suo favore.
4) Ricevuti in Senato gli ambasciatori chiesero che a Tarquinio fosse concesso di giustificare pubblicamente il suo operato e, nel caso non lo si volesse reintegrare sul trono, gli si permettesse almeno di vivere a Roma come privato cittadino.
5) Ottenuto un rifiuto, gli ambasciatori chiesero che venissero restituiti ai Tarquini i beni di famiglia con i quali vivere dignitosamente lontano da Roma e presero congedo.
Sull'ultima richiesta Bruto e Collatino non concordavano. Il primo propose che i beni di Tarquinio fossero sequestrati per non fornire agli esuli i mezzi per organizzare un'aggressione, il secondo voleva evitare che i Romani fossero tacciati di aver cacciato il re per prendere le sue ricchezze.
6) Dopo aver discusso a lungo il Senato demandò la decisione al popolo che votò con un minimo margine la restituzione dei beni.
Intanto gli ambasciatori etruschi, rimasti a Roma per attendere la decisione, prendevano contatti con quanti fra la popolazione erano segreti sostenitori dei Tarquini. Fra questi erano i figli di Bruto, due suoi cognati e due nipoti di Collatino.
7) Uno schiavo ascoltò non visto una riunione dei congiurati che tramavano per far rientrare i Tarquini e li denunciò a Publio Valerio il quale li arrestò e li condusse ai consoli.
8) Inflessibile, Bruto condannò a morte i propri figli ed assistette personalmente alla loro esecuzione senza dimostrare emozioni.
9-10) Si passò quindi a processare i nipoti della moglie di Collatino ma questi si oppose alla loro condanna. Ne nacque un diverbio fra i due consoli e Bruto, accusando il collega di connivenza con i congiurati, sottopose la questione al popolo.
11) Intervenne Spurio Lucrezio, il padre di Lucrezia, e convinse Collatino a lasciare Roma e Bruto a lasciarlo andare in modo onorevole.
12) La proposta fu accolta e Collatino lasciò Roma con onore e con una ricca donazione, si trasferì a Lavinio dove morì molti anni più tardi.
13) Partito Collatino, Bruto indisse le elezioni per sostituirlo nel consolato e fu scelto Publio Valerio, noto per la sua sobrietà. Con il nuovo collega Bruto prese alcune importanti decisioni: tutti i congiurati furono giustiziati, il numero dei senatori fu portato a trecento, i beni dei Tarquini vennero divisi fra la popolazione.
Considerando sacrilego il grano che i Tarquini avevano coltivato su un terreno pubblico di cui si erano impadroniti, Bruto e Valerio ordinarono di gettarlo nel Tevere. La quantità era tale da formare l'Isola Tiberina (la notizia non è veritiera, in realtà l'Isola è una formazione naturale).
A quanti erano fuggiti con Tarquini i consoli accordarono venti giorni per rientrare a Roma ed essere perdonati, ma superata la scadenza avrebbero subito l'esilio perpetuo e la confisca dei beni.
14) I Tarquini organizzarono un tentativo di riprendere il potere con l'aiuto dei Veienti e dei Tarquinesi. Avendone avuto sentore, i consoli uscirono da Roma con l'esercito per affrontarli ma prima che iniziassero i combattimenti Arunte figlio di Tarquinio il Superbo sfidò Bruto a duello.
15) Il combattimento fu durissimo ed entrambi i contendenti persero la vita. Immediatamente scoppiò la battaglia e l'ala destra romana comandata da Valerio sconfisse i Veienti, ma i Tarquinesi ebbero il sopravvento sull'ala sinistra e cercarono - senza successo - di superare le trincee nemiche.
16) Durante la notte i Romani, depressi per le gravi perdite subite, meditavano di abbandonare il campo quando furono incoraggiati da una voce misteriosa proveniente dal bosco che attribuirono a Fauno. Valerio attaccò i nemici senza attendere l'alba e ne fece strage.
Rientrato a Roma Valerio fu acclamato per la vittoria ed il giorno seguente pronunciò l'elogio funebre di Bruto.
17-18) Dionigi si sofferma sull'usanza dell'elogio funebre che sostiene essere più antica a Roma che non in Grecia, inoltre i Romani per molto tempo dedicarono queste orazioni alle virtù espresse dal defunto durante l'intero corso della vita mentre i Greci usavano onorare soltanto le morti gloriose in combattimento.
19) Dopo la morte di Bruto, Valerio che era rimasto solo al comando ed aveva costruito la sua casa in un luogo prestigioso del Palatino fu sospettato di aspirare alla tirannia.
Per evitare problemi Valerio si trasferì in un luogo più modesto e convocò subito i comizi che elessero Spurio Lucrezio. Questi morì pochi giorni dopo e fu sostituito da Marco Orazio. Inoltre Valerio semplificò le insegne consolari togliendo le scuri dai fasci e varò provvedimenti molto popolari che gli fruttarono il soprannome di Publicola.
20) L'anno successivo (508 a.C.) Valerio fu nuovamente eletto ed ebbe come collega Tito Lucrezio Tricipitino. Si fece un censimento rinnovando le norme di Servio Tullio abrogate da Tarquinio.
21) Ancora l'anno seguente (507 a.C.) Valerio fu rieletto con Marco Orazio (Tito Erminio secondo Livio).
Il re etrusco di Chiusi Porsenna inviò ambasciatori a Roma a parlare in favore dei Tarquini. Le sue richieste vennero respinte e Porsenna dichiarò guerra ai Romani. Insieme a Ottavio Mamilio, genero di Tarquinio, mosse contro Roma con un esercito formato da Etruschi e da alleati latini (Camerini e Antemnati).
22) I consoli curarono le difese: fortificarono il Gianicolo, schierarono l'esercito ed emanarono provvedimenti favorevoli ai poveri per evitare defezioni.
23) Porsenna espugnò il Gianicolo ma trovò l'accesso al Tevere sbarrato dalle milizie romane. Le forze etrusche erano comandate da Tito e Sesto, figli di Tarquinio, da Mamilio e dallo stesso Porsenna mentre a capo dei Romani, oltre ai consoli, erano Spurio Larcio, Tito Erminio, Marco Valerio fratello di Publicola e l'ex console Tito Lucrezio.
Nel corso della battaglia Valerio e Lucrezio vennero feriti ed i soldati dall'ala sinistra da loro comandata ne furono disorientati; il loro panico contaggiò l'ala destra. In breve l'intero esercito romano era in fuga ed il nemico ne approfittò per tentare un assalto decisivo all'unico ponte verso la città che da quel lato era priva di mura.
A difendere quel ponte rimasero Spurio Larcio, Tito Erminio ed il giovane Publio Orazio detto Coclite perchè aveva perso un occhio in battaglia. Questo Orazio era figlio di un fratello del console Marco Orazio e discendeva dagli Orazi che avevano duellato contro i Curiazi.
24) I tre riuscirono a coprire la ritirata dell'esercito, quindi Larcio ed Erminio indietreggiarono ma Orazio Coclite rimase al suo posto gridando ai compagni di far crollare il ponte.
Orazio, pur straziato di ferite, contenne l'impeto del nemico finché i Romani non ebbero tagliato le funi che sostenevano il ponte, quindi si tuffò nel fiume completamente armato e riuscì con grande difficoltà a raggiungere la riva opposta.
25) Molti credettero che Orazio sarebbe morto per le ferite ma il giovane guarì e ricevette ogni possibile onore e molti doni. Rimasto zoppo non potè più partecipare ai combattimenti e rivestire cariche militari ma fu per sempre onorato per la sua impresa.
26) Gli Etruschi assediavano la città impedendo ai Romani di lavorare la terra e pascere il bestiame, tagliavano i rifornimenti e presto ridussero la popolazione alla fame nonostante un carico di provviste provenienti dalla Campania che i consoli erano riusciti a introdurre in Roma.
Porsenna, in questa situazione, intimò ai Romani di riaccogliere Tarquinio per far cessare l'assedio. La proposta venne respinta ed un cittadino di nome Muzio si offrì di introdursi nel campo nemico fingendosi disertore per uccidere Porsenna.
27-29) Muzio riuscì a penetrare nell'accampamento etrusco ma non avendo mai visto Porsenna uccise per errore lo scriba reale. Catturato e condotto di fronte al re gli fece credere di essere il primo fra trecento giovani romani che avevano giurato di ucciderlo annunciandogli una lunga serie di attentati.
30-32) Spinto da questa minaccia e dal malcontento delle sue truppe per il prolungarsi della guerra, Porsenna inviò ambasciatori a trattare con i Romani. Rinunciava alla reintegrazione di Tarquinio chiedendo soltanto la restituzione o il risarcimento dei beni sequestrati e la restituzione di un territorio che i Romani avevano tolto agli Etruschi.
I Romani accettarono la seconda richiesta ma non la prima e proposero a Porsenna di fare da arbitro sulla questione dei beni in contenzioso, consegnando un gruppo di ostaggi a garanzia della tregua.
33) Mentre Porsenna si accingeva a esaminare la causa, tuttavia, gli ostaggi guidati da una di loro di nome Clelia fuggirono traversando il fiume a nuoto.
Il console Valerio che si trovava presso il campo nemico per le trattative, declinò la responsabilità della fuga e concordò con Porsenna di andare a riprendere gli ostaggi, ma Tarquinio ed il figlio gli tesero una trappola.
34) L'agguato fallì e Porsenna, sdegnato per la slealtà dei Tarquini, li cacciò dal campo e concluse la pace con gli ambasciatori inviando a Roma tutti i prigionieri e ricchi doni.
35) Il Senato romano decretò di donare a Porsenna le insegne regali che erano state dei Tarquini, conferì premi ed onori a Muzio come già ad Orazio Coclite e dedicò una statua a Clelia.
Nello stesso anno fu completato il tempio di Giove Capitolino.
36) Nel quarto anno della repubblica furono consoli Spurio Larcio e Tito Erminio.
Arunte figlio di Porsenna dopo la pace con i Romani aveva tentato la conquista di Aricia ma era stato sconfitto ed ucciso dalle truppe di soccorso giunte da Anzio, Tuscolo e Cuma.
Molti soldati di Arunte, sbandati e feriti, furono aiutati dai Romani ed una volta guariti chiesero di poter rimanere a Roma ed ebbero dal Senato un terreno fra il Foro ed il Circo Massimo. La zona, ancora ai tempi di Dionigi di Alicarnasso, si chiamava Contrada Tirrena.
37) L'anno successivo (505 a.C.) ebbero il consolato Marco Valerio, fratello di Publicola, e Publio Postumio Tuberto.
Si aprirono contro i Sabini ostilità che sarebbero durate quattro anni. I Sabini, credendo Roma indebolita dalla guerra con gli Etruschi, razziarono il suo territorio.
Dopo i consueti tentativi di ottenere soddisfazione, i Romani dichiararono guerra ed alla prima occasione il console Valerio fece strage dei razziatori.
38-39) I Sabini inviarono un esercito che si fermò sulle rive dell'Aniene, sull'altra riva si trovavano schierate tutte le forze romane comandate da entrambi i consoli.
Dopo essersi fronteggiati per qualche tempo i due eserciti si scontrarono, a provocare la battaglia fu una casuale scaramuccia che coinvolse rapidamente i due accampamenti. I Romani ebbero il sopravvento e molti Sabini si salvarono grazie al sopraggiungere dell'oscurità che coprì la loro fuga.
La vittoria fu celebrata con il trionfo dei consoli.
40) L'anno successivo Valerio Publicola ricoprì il suo quinto consolato, gli era di nuovo collega Tito Lucrezio.
Le città sabine si riorganizzarono per riprendere la guerra, sollecitate anche della propaganda antiromana di Sesto figlio di Tarquinio che venne nominato generale dell'esercito confederato.
Il nobile dissidente Tito Claudio Regillo, consapevole che avrebbe rischiato con la guerra un gran numero di amici, parenti e clienti, si trasferì a Roma con il suo seguito. Fu bene accolto dai Romani, iscritto fra i patrizi e ricevette terreno per la sua gente dalla quale discese la gens Claudia.
41-42) Questa volta i due eserciti si fronteggiarono presso Fidene. Sesto Tarquinio progettava di attaccare a sorpresa durante la notte ma un disertore avvertì i consoli.
Quando i Sabini si mossero per mettere in atto il loro piano, i Romani li attendevano nascosti intorno al campo e ne uccisero molti in silenzio finchè non sorse la luna. Al chiarore lunare i Sabini videro i cumuli di cadaveri dei loro compagni e tentarono la fuga ma i Romani attaccarono e fecero una strage. Secondo Dionigi i Sabini subirono tredicimila perdite e quattromila dei loro furono fatti prigionieri.
43) Nei giorni successivi i consoli assediarono ed espugnarono Fidene ma non infierirono sulla popolazione limitandosi a giustiziare i notabili che avevano indotto i Fidenati all'alleanza con i Sabini.
44-47) Consoli Publio Postumio Tuberto e Menenio Agrippa Lanato (503 a.C.), i Sabini attaccarono nuovamente le campagne romane uccidendo molti agricoltori. Il console Postumio reagì impulsivamente uscendo dalla città con truppe non preparate e subì una sconfitta. Incoraggiati da questa vittoria i Sabini inviarono un'ambasciata ad ingiungere ai Romani di sottomettersi e restaurare i Tarquini, i Romani risposero minacciando la guerra.
Gli eserciti si scontrarono presso Ereto in Sabina. I Romani erano in minoranza ma, incoraggiati dal prodigio di fuochi misteriosi che arsero spontaneamente nel loro campo, combatterono valorosamente. Il console Postumio, desideroso di far dimenticare la precedente sconfitta, si comportò da eroe e trascinò l'esercito in un attacco impetuoso ottenendo una grande vittoria.
Per il console Menenio fu decretato il trionfo, per Postumio l'ovazione, cerimonia di minore risonanza che differiva dal trionfo perchè non si usava il carro e per altri particolari.
48) Durante questo consolato morì di malattia Publio Valerio Publicola al quale Dionigi dedica un encomio non solo per le sue imprese ma anche per la sua onestà e frugalità. Morì senza lasciare neanche il necessario per la cerimonia funebre, ma il senato decretò pubblici onori e destinò un luogo ai piedi della Velia alla sepoltura delle sue ceneri.
49) L'anno successivo il consolato andò a Spurio Cassio Vecellino e a Opitrio Virginio Tricosto (502 a.C.).
Spurio Cassio sconfisse di nuovo i Sabini presso Cures e li indusse a chiedere la pace imponendo onerose condizioni.
Mentre Spurio Cassio celebrava il trionfo il collega Virginio attaccava improvvisamente la città di Cameria per punirla di aver aiutato i Sabini, la espugnava, saccheggiava e metteva a morte i fautori della defezione.
50-51) Nel primo anno della settantesima Olimpiade, furono consoli Postumio Cominio e Tito Larcio. Ottavio Mamilio persuase alcune città latine a rompere l'amicizia con Roma. Queste città si riunirono in Ferentino ed avutane notizia l'ex console Marco Valerio si presentò e chiese la parola. Valerio si trovava in missione diplomatica per risolvere alcuni incidenti di confine, lo spiegò all'assemblea dei Latini parlando in favore della pace ma trovò ascoltatori irremovibilmente decisi a fare la guerra.
I Latini accusavano Roma di aver violato l'alleanza in episodi come quelli di Aricia e Fidene e fecero capire a Valerio che lo scontro era ormai inevitabile.
Intanto a Roma fu scoperta una congiura di servi che intendevano provocare incendi: i colpevoli vennero tutti catturati e crocifissi.
52) Seguì il consolato di Servio Sulpicio Camerino e Manio Tullio Longo.
Fidene si ribellò e respinse gli ambasciatori romani. Il senato esitava nell'aprire le ostilità contro i Latini ma i Tarquini operavano continuamente per scatenare la guerra ed essere reintegrati al potere. Tuttavia prevalse l'opinione dei cittadini più prudenti fra i Latini e la guerra fu evitata, almeno per il momento.
53-57) Svanito il progetto di farsi aiutare dai Latini, Tarquinio inviò a Roma suoi emissari non sospetti che presero a subornare i poveri facendo leva sugli argomenti che più li tormentavano: l'usura e la schiavitù per debiti.
Ne nacque una congiura per far rientrare i Tarquini a Roma con la forza. Due congiurati, spaventati da sogni preminotori, denunciarono il complotto al console Sulpicio.
Per evitare un processo ambiguo che avrebbe potuto provocare disordini, Sulpicio convocò un'adunanza del popolo e presentò pubblicamente i delatori e le loro accuse concedendo ai congiurati la possibilità di discolparsi. Riuscì in questo modo a sventare il complotto.
Molti congiurati vennero giustiziati, quindi il senato decretò riti di purificazione e giochi agonali.
Nel corso di questi giochi il console Manio Tullio morì per una caduta dal carro.
58) Consoli Publio Veturio e Publio Ebuzio Elva. A Ebuzio furono affidati i problemi di politica interna mentre Veturio assediava Fidene. Quando i Fidenati ricevettero aiuti da Sesto Tarquinio uscirono dalla città e si venne a battaglia campale che fu vinta dai Romani, le truppe di Tarquinio tornarono indietro e l'assedio riprese.
Intanto Sesto Tarquinio tentava senza successo di conquistare Segni.
59) Consoli Tito Larcio e Quinto Clelio. Clelio si occupò delle questioni interne mentre Larcio prendeva il comando dell'assedio di Fidene. Non ricevendo aiuti dalle città latine loro alleate, i Fidenati chiesero una tregua per deliberare sulla resa ma in realtà inviarono i loro migliori oratori a cercare rinforzi.
60) Larcio, informato dell'inganno da alcuni disertori, intimò ai Fidenati di aprire le porte se volevano parlare di pace o di tregua e presidiò le strade per impedire l'arrivo di rinforzi per gli assediati. I Fidenati furono costretti a cedere e Larcio, consultato il senato, si limitò a giustiziare i responsabili della ribellione confiscandone i beni.
61) I Latini si riunirono a Ferentino dove Tarquinio, Mamilio e i capi di Aricia convinsero tutti a mobilitarsi contro Roma. Conclusero patti di alleanza con Ardeati, Aricini, Boialani (Bovillani?), Bubentani, Coresi, Carventani, Gabii, Laurentini, Laviniesi, Labicani, Nomentani, Moreani, Prenestini, Pedani, Querquetulani, Satricesi, Scaptini, Sezzesi, Tellini, Tiburtini, Tuscolani, Tricrini, Veliterni. Il comando supremo fu assegnato a Ottavio Mamilio e a Sesto Tarquinio.
I confederati inviarono ambasciatori a Roma per citare i Romani davanti al tribunale della Lega per non aver aiutato gli Aricini contro gli Etruschi con l'avvertimento che se non fossero convenuti in giudizio le città latine avrebbero mosso guerra contro di loro.
62-63) Il senato rispose che accettava la guerra quindi Romani e Latini inviarono ambasciatori in tutte le città in cerca di alleanze. Gli Ernici, ambiguamente, presero tempo; i Rutuli si allearono con i Latini, i Volsci respinsero con indignazione gli ambasciatori romani, gli Etruschi si dichiararono neutrali. I Romani non si lasciarono intimorire dalla mancanza di alleati ed iniziarono i preparativi ma la plebe dichiarò che non avrebbe risposto alla leva se non dopo l'azzeramento dei debiti.
64-68) Manio Valerio fratello di Publicola pronunciò un lungo discorso in favore delle istanze della plebe sostenendo fosse giusto il condono dei debiti a quella parte della popolazione che tanto aveva lottato e rischiato a fianco dei patrizi per liberare la patria dalla tirannide. Al contrario Appio Claudio Sabino sostenne che condonare i debiti avrebbe comportato un pericoloso precedente: nessuno avrebbe più concesso credito con grave danno di ogni attività economica. Sostenne inoltre che a causa degli appetiti insaziabili della moltitudine concedere ai plebei quanto chiedevano non sarebbe bastato a riportare l'ordine. In conclusione Appio Claudio sostenne che sarebbe stato preferibile soggiacere al giudizio dei Latini che alle pretese della plebe.
69-70) Di fronte a opinioni tanto divergenti il senato decise di sospendere l'esazione dei debiti e i processi fino alla fine della guerra rimandando ogni decisione. Ciò servì a sedare gli animi ma poiché sussisteva un certo scontento si decise di sospendere l'autorità dei consoli affidando per sei mesi il potere a un dittatore. Non comprendendo che questo decreto istituiva di fatto una sorta di tirannide legalizzata il popolo lo ratificò.
71-72) Il senato considerò che Tito Larcio, uno dei consoli in carica, era adatto alla dittatura mentre il collega Clelio non lo era pur essendo un ottimo cittadino. Per evitare tuttavia il risentimento di Clelio si propose di sospendere entrambi i consoli e nominare dittatore una terza persona. Infine si preferì lasciar decidere gli stessi consoli ma ciascuno dei due proponeva l'altro e solo dopo una lunga discussione Larcio accettò la nomina che gli fu ufficialmente conferita da Clelio.
73-75) Larcio fu il primo dittatore della storia romana. Secondo Dionigi la dittatura era una specie di monarchia o di tirannia dissimulata sotto un altro nome, lo storico ritiene che i Romani l'abbiano adottata ispirandosi ad analoghe istituzioni greche.
Larcio scelse Spurio Cassio come maestro di cavalleria, quindi indisse un censimento che fu eseguito rapidamente contando oltre cinquantamila uomini adulti. Divise gli uomini abili alla guerra in quattro parti, ne scelse una da comandare personalmente e affidò le altre tre a Spurio Cassio, Clelio e a suo fratello Spurio Larcio assegnando a quest'ultimo il compito di presidiare la città.
76) Prima di combattere Larcio inviò ambasciatori alle città latine e riuscì con la diplomazia a fare in modo che deponessero le armi e negassero aiuti ai Tarquini. Mamilio e Sesto Tarquinio reagirono riunendo le loro forze a Tuscolo e devastando la campagna romana, contro di loro intervenne Clelio con la cavalleria uccidendo molti soldati nemici e respingendo gli altri.
77) Ristabilita la pace, Larcio depose la dittatura e ripristinò il consolato. Sul suo esempio tutti coloro che nel tempo assunsero la dittatura si comportarono con grande moderazione fino a Lucio Cornelio Silla che fu il primo ad abusare del potere assoluto.



Libro Sesto


1) L'anno successivo (495 a.C.) furono eletti consoli Aulo Sempronio Atratino e Marco Minucio. Grazie alla tregua con i Latini e alla sospensione della riscossione dei debiti decretata dal senato fu un anno tranquillo.
Fu dedicato un tempio a Saturno sulla via dal Foro al Campidoglio e furono istituite feste annuali in onore di quel dio.
Secondo alcuni la costruzione del tempio fu iniziata da Tarquinio il Superbo, per altri da Tito Larcio.
2) Furono eletti consoli Aulo Postumio e Tito Virginio. Spirò la tregua con i Latini che erano stati incitati dai Tarquini a riprendere le ostilità. Fu nominato dittatore Aulo Postumio che scelse Tito Ebuzio Elva come maestro di cavalleria. Dopo la leva il dittatore divise le forze tra quattro comandanti: se stesso, Tito Virginio, Tito Ebuzio Elva e Aulo Sempronio affidando a quest'ultimo la cura di Roma.
3) Degli esploratori annunciarono che i Latini avevano iniziato le operazioni e occupato il luogo fortificato detto Corbione. I Volsci di Anzio stavano inviando aiuti ai Latini.
Postumio si mise immediatamente in marcia, trovò i Latini accampati presso il Lago Regillo e fece trincerare i suoi in un luogo più alto nelle vicinanze.
4) I comandanti dei Latini erano Ottavio Tuscolano parente di Tarquinio e Sesto Tarquinio. Mentre i Latini tenevano un consiglio di guerra per decidere come agire, giunse da Roma Tito Virginio con la sua armata e si accampò su un'altra altura in modo di chiudere i Latini su due lati opposti. Postumio mandò Tito Ebuzio ad occupare un'altra posizione per tagliare gli approvvigionamenti ai nemici.
5) Dopo un tentativo fallito di Sesto Tarquinio di rompere lo schieramento romano i Latini decisero di tentare la battaglia campale. Anche Postumio prese la stessa decisione tanto più che da messaggeri intercettati aveva saputo dell'arrivo imminente di rinforzi mandati dai Volsci e dagli Ernici.
Dionigi descrive gli schieramenti: Sesto Tarquinio comandava l'ala sinistra dei Latini, Ottavio Mamilio la destra, Tito Tarquinio il centro.
L'ala sinistra dei Romani fu assegnata a Tito Ebuzio, la destra a Tito Virginio, il centro a Postumio. I Romani schieravano ventiquattromila fanti e tremila cavalieri. I Latini quarantamila fanti e tremila cavalieri.
6-9) I comandanti dei Latini parlarono ai loro soldati per incoraggiarli prima dell'attacco. Ai Romani parlò Postumio che con un lungo discorso svolse il non facile compito di fare animo a soldati consapevoli di essere in netta inferiorità numerica.
10) La battaglia ebbe inizio e presto ciascuno dei contendenti si rese conto di aver sottovalutato l'altro. Il centro romano comandato dal dittatore sopraffece il centro latino e Tito Tarquinio, ferito a una spalla, fu costretto a abbandonare il campo. Dionigi precisa che fu ferito Tito e non Tarquinio il Superbo come hanno scritto altri autori perché il deposto re era troppo anziano per combattere.
11) Caduto Tito i suoi esitarono a lungo ma poi, soccorsi da Sesto Tarquinio, ripresero a combattere. Intanto Ebuzio e Mamilio si affrontavano in duello procurandosi entrambi ferite gravi ma non mortali.
12) Marco Valerio sostituì Ebuzio ma affrontando la cavalleria nemica cadde trafitto da una lancia. Publio e Marco, figli di Publicola, riuscirono a portare Valerio fuori dalla mischia mentre ancora respirava ma poco dopo furono uccisi a loro volta.
Il dittatore intervenne in soccorso dell'ala sinistra che aveva perduto il comandante e veniva sbandata dal violento attacco nemico. Mentre Erminio con la cavalleria si era portato alle spalle dei fuggitivi per respingerli sul campo, Postumio fece strage dei nemici arrivando su di loro con impeto irrefrenabile. Erminio uccise Mamilio, resisteva Sesto Tarquinio che stava avendo la meglio sull'ala destra romana, Erminio se ne rese conto e corse contro Sesto; circondato dai nemici lasciò la vita sul campo ma ormai la sorte della battaglia era decisa.
I Latini superstiti fuggirono, dei quarantatremila che avevano combattuto ne tornarono a casa meno di diecimila.
13) Si racconta che durante la battaglia si videro due bellissimi giovani combattere a cavallo alla testa dei Romani e a battaglia finita i due furono visti nel foro abbeverare i cavalli alla fonte vicina al tempio di Vesta. Dopo aver raccontato a chi glielo chiedeva l'esito positivo della battaglia i due giovani lasciarono il foro e non furono mai più visti. I Romani conclusero che si trattava di Castore e Polluce ai quali dedicarono un tempio ed una processione che si teneva annualmente ancora ai tempi di Dionigi.
14) Il mattino seguente, mentre Postumio offriva sacrifici, le vedette segnalarono l'arrivo dell'esercito dei Volsci. Postumio ordinò ai suoi di rientrare nell'accampamento ed attendere in armi. I Volsci trovando il campo di battaglia deserto e ancora cosparso di cadaveri rimasero indecisi sul da farsi. Alcuni proponevano di attaccare i Romani mentre erano ancora stanchi per lo scontro precedente.
15) Fra le varie opinioni prevalse l'idea di inviare alcuni ambasciatori al campo romano per spiare la situzione fingendosi amici.
16) Postumio, che aveva in precedenza intercettato messaggeri volsci diretti al campo dei Latini, non si lasciò ingannare e accusò gli ambasciatori di essere in realtà delle spie. Non volle però far loro alcun male per non fornire ai Volsci pretesti di ostilità e li rimandò indietro con una scorta.
17) Non si verificarono altri scontri perchè i Volsci durante la notte ripartirono per tornare in patria. Anche i Romani tornarono in città. Postumio celebrò il trionfo e realizzò il tempio Cerere, Bacco e Proserpina onorando un voto fatto prima della guerra per scongiurare la carestia.
18) I Latini inviarono ambasciatori a Roma a supplicare per la pace.
19) Iniziata la discussione in senato parlò Tito Larcio proponendo di rinnovare l'alleanza con i Latini senza infliggere loro punizioni.
20) Servio Sulpicio si dichiarò favorevole alla pace e all'alleanza ma riteneva che le frequenti violazioni degli accordi commesse dai Latini non potessero rimanere impunite.
, proponeva quindi di requisire metà del territorio dei Latini per dedurvi colonie.
Diffidando delle intenzioni dei Latini, Spurio Cassio propose invece di abbattere le loro città, uccidere i responsabili delle ribellioni e ridurre gli altri in schiavitù.
21) Postumio si dichiarò d'accordo con Larcio e nessuno lo contraddisse. Il dittatore convocò gli ambasciatori e dopo averli redarguiti per i torti commessi li lasciò andare liberi. I Latini rilasciarono i prigionieri e consegnarono i disertori quindi conclusero con Roma un nuovo trattato di alleanza. Tarquinio il Superbo, unico sopravvissuto della sua famiglia e ormai novantenne, espulso dai Latini, dagli Etruschi e dai Sabini riparò a Cuma presso il tiranno Aristodemo e dopo pochi giorni morì.
22) Finita la guerra fu revocata la sospensione dell'esazione dei debiti e dei procedimenti giudiziari, nacquero nuove ostilità fra debitori e creditori. Gli uni e gli altri lamentavano che le spese di guerra, l'interruzione delle attività agricole, il degrado dei terreni rimasti incolti avevano reso difficile la situazione economica.
23-24) Furono eletti consoli Appio Claudio Sabino e Publio Servilio Prisco (493 a.C.) I consoli decisero di reclutare un esercito per muovere guerra ai Volsci che si stavano riorganizzando per attaccare e per distogliere la cittadinanza dai problemi interni ma la plebe rifiutò l'arruolamento. I consoli assunsero posizioni opposte: Servilio proponeva di cancellare o ridurre i debiti e mitigare le sanzioni per morosità mentre Appio era per una politica inflessibile e intendeva riaprire i tribunali per applicare le pene previste dalla legge per i debitori insolventi.
25) Per la discordia dei consoli si perse molto tempo ma Servilio riuscì comunque a mettere insieme un esercito. I Volsci, che contavano di sfruttare i disordini interni di Roma, furono colti di sorpresa dall'arrivo dei Romani e per prendere tempo consegnarono a Servilio rifornimenti e ostaggi, ma appena il console ebbe preso la strada del ritorno ricominciarono i preparativi. Si allearono apertamente ai Volsci gli Ernici e i Sabini mentre altre genti lo fecero in modo segreto.
Gli ambasciatori Volsci presso i Latini furono catturati e portati a Roma. Il senato apprezzò il gesto e premiò i Latini liberando seimila prigionieri della guerra precedente ma non accettò l'aiuto offerto per combattere i Volsci.
26) Mentre era ancora in corso la riunione del senato si presentò nel foro un uomo molto vecchio miseramente vestito che si lamentava e chiedeva aiuto. A quanti accorsero per aiutarlo l'uomo spiegò che la guerra lo aveva ridotto in misera, aveva dovuto chiedere un prestito ed era finito schiavo del creditore che lo straziava di fatica e percosse come dimostravano le ferite ed il sangue che mostrò scoprendosi. La scena attirò molta gente e presto il clima si fece teso. Il console Appio Claudio che sapeva di avere molte responsabilità si dileguò mentre Servilio affrontò la folla pregando che gli lasciassero il tempo fino al giorno successivo per convincere il senato a provvedere e, ordinando che nel frattempo i creditori non pretendessero la schiavitù dei debitori, riuscì a tranquillizzare la folla.
27) All'alba del giorno successivo il foro era affollatissimo mentre in senato i consoli litigavano aspramente. In questa situazione giunsero dei messaggeri latini ad annunciare che i Volsci erano pronti ad attaccare. Patrizi e cavalieri corsero alle armi mentre i poveri, lieti poter approfittare delle circostanze, rifiutavano di uscire contro il nemico affermando che loro, resi schiavi dai creditori, non avevano nulla da difendere.
28) I senatori pregarono Servilio di risolvere la situazione e Servilio parlò al popolo utilizzando il suo carisma e il suo prestigio.
29) Quando Servilio ordinò al banditore di annunciare che ogni azione legale sarebbe stata sospesa verso i debitori disposti a combattere ma non verso gli altri, toccò evidentemente la corda giusta e i plebei corsero ad arruolarsi. Servilio si mise in marcia al comando dell'esercito e a sera si avvicinò al campo dei Volsci in territorio latino. Credendo che i Romani fossero pochi e stanchi i Volsci attaccarono durante la notte. I Romani resistettero fino all'alba quindi l'intera armata fece irruzione circondando i nemici nel loro accampamento. Furono catturati molti Volsci e i Romani ricavarono un ricchissimo bottino che Servilio lasciò ai soldati, quindi passarono ad assediare Suessa Pomezia, città molto ricca e importante. La espugnarono in pochi giorni e di nuovo il bottino andò ai soldati.
30) A Roma Appio Claudio fece giustiziare in pubblico i trecento ostaggi Volsci e si oppose al trionfo di Servilio perché non aveva destinato all'erario parte del bottino. Esasperato, Servilio parlò al popolo e svolse la sfilata trionfale con il suo esercito contro la volontà del collega.
31) Mentre a Roma si festeggiava una solennità i Sabini tentarono di attaccare la città ma i Romani accorsero a difendere le mura e Servilio li guidò in una sortita sventando il tentativo di assedio. Furono quindi individuati e imprigionati molti Sabini che erano entrati in città con il pretesto di assistere agli spettacoli mentre in realtà dovevano dar manforte agli attaccanti.
32) Ambasciatori degli Aurunci reclamarono in senato i terreni che erano stati conquistati ai Volsci Eccetrani e minacciarono la guerra se il presidio romano ai loro confini non fosse stato richiamato. Furono rimandati a casa con un rifiuto e poco dopo l'esercito degli Aurunci si scontrò ad Aricia con quello di Servilio.
33) In battaglia si distinse l'ex dittatore Postumio Albo, comandava la cavalleria ma poiché il terreno non era adatto fece smontare i suoi seicento uomini e con loro respinse un assalto nemico. L'esempio stimolò la fanteria e con un'azione congiunta i due corpi misero in fuga gli Aurunci e ne occuparono gli alloggiamenti.
34) Consoli Aulo Virginio a Tito Veturio Gemino (492 a.C.) I Sabini si allearono con i Medullini e avviarono preparativi per riprendere la guerra. Intanto a Roma la plebe si asteneva ancora dalla leva reagendo con violenza quando i consoli tentavano di arrestare i renitenti. Dalle città vicine giungevano a Roma richieste di aiuto contro le incursioni di Equi e Sabini. Ambasciatori volsci chiesero ancora al senato la restituzione dei territori conquistati.
35-36) Aperta la discussione in senato parlò prima Tito Larcio che sostenne la necessità primaria di risolvere le lotte di classe interne per ripristinare il normale andamento delle leve. Per il resto consigliò di respingere le richieste dei Volsci e mandare al più presto aiuti ai Latini.
37) Publio Virginio propose che si azzerassero i debiti solo di quanti avevano combattuto contro Volsci e Aurunci ma Larcio sostenne che la crisi si sarebbe risolta solo se tutti avessero beneficiato del provvedimento.
38) Appio Claudio, fermo sulla sua posizione contraria, propose di affidare la decisione a un dittatore.
39) La presenza di numerosi giovani aristocratici servì a far passare la proposta di Appio Claudio e fu eletto dittatore Marco Valerio, fratello di Publio già primo console.
40-41) Valerio scelse come maestro di cavalleria Quinto Servilio, fratello del Servilio console nell'anno precedente, quindi convocò il popolo ed usò tutto il prestigio della sua famiglia per dar valore alle sue promesse. Chiese al popolo di continuare a combattere impegnandosi personalmente a risolvere i problemi a guerra finita e nel frattempo vietò ogni confisca ai creditori.
42) L'orazione di Valerio ebbe il suo effetto e il popolo accettò la leva. L'esercito fu diviso tra i due consoli e il dittatore: Tito Veturio doveva fronteggiare gli Equi, Aulo Verginio i Volsci e Valerio i Sabini mentre Tito Larcio con gli anziani avrebbe sorvegliato Roma.
I Volsci attaccarono subito con molta audacia ma furono sconfitti e Velletri, la loro città più importante, venne assediata. Anche i Sabini furono rapidamente battuti e gli Equi, viste le vicende degli alleati, si ritirarono in luoghi impervi per prendere tempo ma furono raggiunti dai Romani e anche loro sconfitti.
43) Valerio celebrò il trionfo, congedò le milizie e distribuì ai più poveri i terreni tolti ai Volsci, quindi chiese al senato di rispettare gli impegni ma l'aristocrazia continuò ad opporsi accusando il dittatore e la sua famiglia di essere adulatori del popolo.
44) Offeso e deluso, Valerio convocò il popolo e, dichiarando di non essere responsabile del voltafaccia del senato, depose la dittatura.
45) Valerio non subì rappresaglie ma i plebei cominciarono a riunirsi pubblicamente e a discutere di separarsi dai patrizi. Il senato ordinò ai consoli di non congedare l'esercito perché sapeva che i plebei che ne facevano parte non avrebbero violato il giuramento, ma quando i consoli uscirono con i soldati si verificò una ribellione per istigazione di un certo Sicinio Belluto. I soldati elessero nuovi centurioni e occuparono il Monte Sacro mentre Sicinio esortava i patrizi a tornare a Roma perché la plebe avrebbe scelto una nuova patria.
46) Si creò un grande tumulto fra i plebei che intendevano lasciare la città e i patrizi che tentavano di trattenerli. I soldati che il senato aveva posto a presidiare le porte della città furono sopraffatti dalla folla, i plebei uscirono da Roma e mentre si rifornivano di viveri nelle campagne circostanti accoglievano quanti volevano unirsi a loro dalle città e dai castelli vicini. Oltre ai debitori e agli imputati nei processi si unirono ai fuoriusciti personaggi poco raccomandabili, nullafacenti, avventurieri.
47) In un primo momento i patrizi, temendo che i fuoriusciti si alleassero con i nemici, corsero alle armi per difendere la città da un eventuale assalto, ma vedendo che non accadeva nulla di ciò e che i plebei si limitavano a prelevare delle provviste senza danneggiare le campagne si tranquillizzarono e si riunirono per trovare il modo di ricomporre la secessione. Fra le varie opinioni prevalse quella dei più anziani che sostenevano che la sicurezza contava più di ogni altra cosa e che si doveva trattare con i plebei per cercare pacificamente un accordo, tanto più che avevano agito per necessità e dopo essere stati più volte delusi.
48) Furono inviati ambasciatori nel campo dei plebei a promettere che se fossero tornati ogni offesa sarebbe stata perdonata e dimenticata ma i plebei, consapevoli di trovarsi in una posizione di forza, respinsero ogni proposta.
49-52) A causa della difficile situazione del momento nessuno si candidò per il consolato perciò furono rieletti due consolari che godevano del consenso generale, Postumio Cominio e Spurio Cassio, che come prima azione convocarono il senato per decidere sul problema dei fuoriusciti (491 a.C.). L'anziano Menenio, molto rispettato per la sua moderazione, deprecò l'idea di combattere contro i fuoriusciti che non avevano provocato alcun danno e ricordò che molti agguerriti nemici erano pronti ad attaccare e che i patrizi non avevano le forze per contrastarli. Non si aveva il tempo di reclutare mercenari e comunque ciò avrebbe comportato il rischi di affidarsi a gente pericolosa.
53-56) Il discorso di Menenio Agrippa, piuttosto prolisso, fa appello alla moderazione e al buon senso per convincere i patrizi a cercare una soluzione positiva e pacifica mettendo da parte l'orgoglio ed evitando di sdegnarsi inutilmente con il destino considerando che dopo tutto episodi come quello che stanno vivendo sono piuttosto comuni in tutte le società. Consiglia infine di mandare ai fuoriusciti ambasciatori graditi dal popolo che siano dotati del potere necessario per concludere un accordo senza dover tornare a consultare il senato.
57-58) Parlò Manio Valerio sostenendo che i diritti del popolo erano stati disprezzati in troppe occasioni, ormai non si parlava soltanto di debiti ma certamente la plebe avrebbe voluto dei magistrati con i poteri necessari per difenderla dagli abusi degli usurai e degli speculatori. Appoggiò le proposte di Agrippa e ne augurò la più sollecita realizzazione.
59-64) Fu la volta di Appio Claudio che mantenne ovviamente la sua posizione e, dopo aver ribattuto alle critiche di Valerio, ribadì la necessità di mantenere una linea dura con i plebei che certamente sarebbero stati stimolati da una facile vittoria ad avanzare sempre nuove pretese. Propose quindi ai patrizi di mostrarsi pronti a combattere e, se necessario, di costringere alla resa i plebei minacciando di uccidere i loro familiari rimasti a Roma. Rispetto ai nemici esterni, Appio Claudio sostenne che gli stessi patrizi con i clienti, i servi e i plebei rimasti fedeli costituivano una forza più che sufficiente per difendere la città anche se i fuoriusciti non fossero tornati nei ranghi.
65) Dopo questi discorsi la discussione fu intensa ed agitata. Le parole di Appio Claudio riscuotevano molto consenso, soprattutto tra la gioventù patrizia, mentre gli anziani erano più vicini alle posizioni di Valerio e di Menenio Agrippa, tuttavia per risolvere la questione e evitare che la tensione degenerasse anche gli anziani si allinearono con Appio Claudio.
66-67) Per quel giorno la riunione del senato si concluse senza una decisione definitiva se non quella che quando i senatori si fossero accordati la loro proposta sarebbe stata ratificata dall'assemblea popolare.
68-69) Si procedette ad avvertire la popolazione per la prossima assemblea e intanto il senato riprese la discussione con maggiore serenità e la maggioranza si trovò ora d'accordo con Menenio Agrippa mentre Appio Claudio continuò a sostenere la linea dura, anzi precisò: condono dei debiti a quanti erano rimasti in città e guerra ai fuoriusciti.
Un giovane nobile di nome Spurio Nauzio la cui famiglia diceva di discendere da un compagno di Enea parlò a nome dei suoi coetanei dichiarando di rimettersi alle decisioni degli anziani. Fu scelta la delegazione incaricata di trattare con i fuoriusciti: Manio Valerio, Tito Larcio, Menenio Agrippa, Publio Servilio, Postumio Tuberto, Tito Ebuzio, Servio Sulpicio Camerino, Aulo Postumio Albo, Aulo Verginio Celimontano.
70) Nel campo dei fuoriusciti un agitatore di nome Lucio Giunio che amava farsi chiamare Bruto sostenne che era conveniente opporre una certa resistenza alla delegazione dei patrizi e si offrì di parlare in nome del popolo.
71) Il primo delegato che prese la parola fu Manio Valerio che fu accolto lietamente dai fuoriusciti. Valerio comunicò che i delegati avevano pieni poteri per ascoltare le richieste della plebe e, se possibile, soddisfarle.
72-73) Nessuno dei plebei osava prendere la parola per avanzare le richieste, lo fece Lucio Giunio che si rivolse personalmente a Valerio dichiarando la sfiducia sua e dei compagni nei confronti dei patrizi tanto spesso spergiuri. Inoltre avrebbero dovuto essere i patrizi a chiedere perdono ai plebei che avevano dovuto lasciare le loro case e non viceversa.
74-77) Lucio Giunio ricordò la lealtà dei plebei che combatterono contro gli ultimi re per cacciarli e per tenerli lontani, poi contro Etruschi, Sabini e tutti i nemici di Roma, sempre lusingati dalle promesse dai patrizi e puntualmente delusi.
78-80) Negando ogni fiducia ai delegati, Bruto esorta i compagni a deporre ogni speranza e cercare una nuova patria.
81-86) L'accesa discussione che seguì rischiava di degenerare quando intervenne Menenio Agrippa che era rispettato da tutti ed ottenne il silenzio. Agrippa annunciò che i debiti sarebbero stati cancellati, le sentenze contro i debitori annullati, schiavi e detenuti liberati. I contratti futuri dovevano essere regolati da leggi concordate tra senato e popolo. Invitò quindi i plebei a ritenersi soddisfatti e tornare in città. A questo punto narrò il celebre aneddoto delle membra in lotta con lo stomaco che finiscono col soffrire le conseguenze della ribellione. Dionigi minimizza questa parte del discorso e lascia intendere di ritenerla frutto di fantasiosa tradizione.
87-89) Parlando anche dell'angoscia delle famiglie rimaste a Roma Menenio convinse i plebei a rientrare in città ma Lucio Giunio chiese come garanzia l'istituzione di magistrati con il compito di difendere i diritti della plebe contro eventuali ripensamenti dei patrizi. In merito a questa richiesta fu consultato direttamente il senato tramite una parte degli ambasciatori. Furono quindi eletti i primi cinque tribuni della plebe: Lucio Giunio Bruto, Caio Sicinio Belluto, Caio Licinio, Publio Licinio e Caio Visellio Ruga. Su richiesta di Bruto nella legge che istituì il tribunato furono aggiunte le clausole di inviolabilità e sacralità della persona dei tribuni.
90-91) Rientrata la plebe a Roma e offerti i sacrifici si passò agli arruolamenti che questa volta ebbero luogo senza intralci. Tirando a sorte il console Spurio Cassio ebbe la cura di Roma e il collega Postumio Cominio la guerra contro i Volsci. I Romani conquistarono in un solo giorno Longola, città dei Volsci, e il giorno successivo Polusca.
92) Molto più difficile fu l'assedio di Corioli, città fortificata e ben difesa. Nel primo giorno i Romani subirono molte perdite e il giorno successivo seppero che da Anzio stavano arrivando soccorsi per gli assediati. Il console affidò a Tito Larcio metà dei soldati e il compito di portare avanti l'assedio mentre con l'altra metà affrontò gli Anziati. Entrambi i comandanti ebbero successo e un combattente romano di nome Gneo Marcio si distinse per le sue prove di valore. In un momento di grande difficoltà per i Romani, Marcio affrontò con pochi uomini un attacco nemico e lo respinse, con il suo esempio incoraggiò i compagni e gli abitati di Corioli furono inseguiti fin dentro le mura, dopo durissimi scontri la città fu espugnata e saccheggiata.
93) Marcio non partecipò al saccheggio ma accorse ad aiutare il console impegnato nella battaglia con gli Anziati. Annunciò la caduta di Corioli e prese a combattere facendo strage dei nemici. Anche questa battaglia fu vinta e Marcio, coperto di ferite, fu il principale artefice della vittoria.
94) L'indomani il console Postumio elogiò Marcio di fronte all'esercito e gli offrì molti premi fra i quali Marcio accettò solo un cavallo e uno schiavo. Ammirato per l'eroismo e la modestia, ebbe da allora il soprannome di Coriolano. Tornato a Roma Postumio congedò l'esercito. Intanto Spurio Cassio aveva consacrato il nuovo tempio di Cerere, Bacco e Proserpina vicino al Circo Massimo. Il tempio era stato votato da Aulo Postumio durante la sua dittatura.
95) Fu siglato un trattato di alleanza con i Latini e il senato istituì una Feria Latina per commemorare il rientro della plebe dalla secessione. Si celebravano già altre due ferie latine, una istituita da Tarquinio Prisco per la vittoria sugli Etruschi e l'altra dal popolo per la cacciata dei re.
96) Morì Menenio Agrippa e poiché non lasciava alcuna eredità ed i figli erano indigenti il popolo fece una sottoscrizione per finanziare un degno funerale ma il senato non ammise che le esequie di un cittadino così importante fossero pagate dai privati e stanziò una grossa somma prelevandola dall'erario. Da parte sua il popolo non accettò di riprendere il denaro e lo donò ai figli di Menenio Agrippa.
Si fece un censimento e risultarono centodiecimila cittadini.



Libro Settimo


1) Furono eletti consoli Geganio Macerino e Publio Minucio (492 a.C.). A causa dell'abbandono dei campi durante la secessione Roma soffriva per una grave carestia e il senato inviò messi in Sicilia, in Campania e nell'Agro Pontino per acquistare frumento. In Sicilia andarono Publio Valerio figlio di Publicola e Lucio Geganio, fratello del console in carica, e si rivolsero a Gelone tiranno di Siracusa.
2) Le condizioni del mare costrinsero la delegazione a trascorrere l'inverno in Sicilia, tornarono a Roma in primavera con molte provviste. Quanti erano andati nell'Agro Pontino furono aggrediti dai Volsci e tornarono a Roma senza soldi e senza frumento. Anche i Romani che erano andati in Campania furono in pericolo a causa dei compagni di Tarquinio il Superbo che ancora vivevano a Cuma e che chiesero a Aristodemo signore del posto di farli giustiziare o almeno di tenerli come ostaggi per riavere dai Romani i beni confiscati.
3) Dionigi inserisce una digressione su Aristodemo. Nell'anno dell'arcontato di Milziade in Atene (524 a.C.) gli Etruschi attaccarono CumaCuma che a quei tempi era la città più ricca della Campania. Con un grosso esercito gli Etruschi si accamparono non lontano dalla città spaventando i Cumani con il loro numero ma un prodigio incredibile incoraggiò gli assediati: i fiumi Volturno e Clanio presero a scorrere dalla foce verso la fonte. I Cumani armarono tre squadre: una per difendere la città, una di guardia alle navi e una terza si schierò di fronte alle mura.
4) Grazie al loro valore i Cumani vinsero la battaglia. Si distinse fra loro Aristodemo detto Malaco che uccise il comandante etrusco e molti altri nemici. Vi fu contesa per aggiudicare la corona del più forte, il popolo sosteneva Aristodemo e gli ottimati Ippomedonte comandante della cavalleria. Alla fine fu riconosciuto il pari merito dei due ma da allora Aristodemo fu considerato il campione del popolo.
5) Vent'anni dopo gli ambasciatori di Aricia chiesero aiuto a Cuma contro Arunte figlio di Porsenna che assediava la loro città. Ne approfittarono gli ottimati per mandare Aristodemo al quale assegnarono i peggiori soldati, navi vecchie in cattivo stato con equipaggi inadeguati, tutto ciò nella speranza che l'odiato avversario non tornasse mai in patria.
6) Aristodemo dichiarò di comprendere le intenzioni degli ottimati, nondimeno assunse il comando e salpò subito con gli ambasciatori approdando quanto possibile vicino a Aricia. Con una notte di marcia raggiunse la città e convinse gli assediati ad affrontare gli Etruschi. Con pochi scelti compagni cumani Aristodemo affrontò i nemici più forti, ne uccise il comandante e in breve mise in fuga gli assedianti. Tornò a Cuma seguito da molti Aricini e carico di doni che condivise con i suoi soldati. Si assicurò con molta generosità la fedeltà di tutti, quindi convocò i più intimi nella sua tenda e con loro si preparò a prendere il potere.
7) Aristodemo entrò in città con i suoi uomini e per alcuni giorni si dedicò a sacrificare agli dei rendendo grazie per la sua vittoria, quindi riunì il senato con il pretesto di raccontare le sue gesta ma arrivarono i congiurati e uccisero tutti gli ottimati. Durante la notte liberò i carcerati e molti schiavi, quindi organizzò una guardia del corpo e il mattino seguente parlò al popolo illustrando le colpe degli uccisi e promettendo uguaglianza e libertà.
8) Aristodemo promise la redistribuzione delle terre e la remissione dei debiti a condizione di essere nominato capo assoluto, quindi convinse i Cumani a consegnare tutte le loro armi al tempio per evitare le rappresaglie da parte dei sostenitori degli ottimati. In realtà con questo espediente disarmò la popolazione per garantire la sicurezza del proprio regime. Il giorno seguente fece perquisire tutte le case e uccise chi non aveva consegnato le armi. Istituì tre guardie armate: la prima con quanti avevano partecipato al colpo di stato, la seconda con i prigionieri liberati e la terza con mercenari stranieri.
9) Aristodemo progettò di uccidere i figli degli ottimati ma per intercessione dei suoi satelliti si limitò a confinarli nelle campagne. Abolì per la gioventù cumana le palestre e gli esercizi militari cercando di rendere i giovani effeminati con nuove mode e costumi.
10) Quando Aristodemo era ormai vecchio i figli dei cittadini uccisi che aveva relegato in campagna insorsero e si rifugiarono sui monti dove si unirono ai fuoriusciti di Cuma che vivevano a Capua e ad altri amici. I ribelli iniziarono con azioni di guerriglia e incursioni nei dintorni di Cuma. Un falso disertore si offrì come guida a Aristodemo e portò l'armata cumana il più lontano possibile dalla città.
11) Ricevuto il segnale convenuto, sessanta ribelli entrarono nella città priva di difese fingendosi operai per non essere notati e a sera uccisero le guardie delle porte e fecero entrare tutti i loro compagni. Si recarono alla reggia dove fecero strage di tutti i presenti, catturarono Aristodemo, i suoi figli e i suoi familiari e li uccisero dopo averli torturati tutta la notte. Al mattino convocarono il popolo e deposero le armi.
12) Dopo la digressione Dionigi riprende il filo del racconto dal momento in cui i compagni di Tarquinio chiesero a Aristodemo di giudicare sul rilascio dei Romani catturatri e sulla restituzione dei beni confiscati. I Romani che erano arrivati in Campania solo per acquistare frumento si salvarono con la fuga lasciando a Cuma tutti i loro averi. Quanti erano andati in Etruria riuscirono a far arrivare provviste a Roma ma col tempo la carenza di cibo si aggravò e la carestia portò con se malattie e debilitazione. I Volsci pensarono di approfittarne per ribellarsi ma furono colpiti da una gravissima pestilenza, in particolare la città di Velletri subì tante perdite che si rivolse a Roma per chiedere l'invio di altri coloni.
13) La posizione strategica di Velletri era un buon motivo per stanziarvi una cospicua colonia, inoltre allontanare parte della popolazione avrebbe aiutato a sopportare la carestia e diminuito il rischio di nuove sedizioni. Per timore della pestilenza, tuttavia, ben pochi si presentarono volontari per andare a Velletri e fu necessario estrarre a sorte i coloni stabilendo durissime pene per chi avesse rifiutato, Pochi giorni più tardi un'altra colonia fu dedotta a Norba, città dei Latini.
14) Questi provvedimenti non bastarono tuttavia per fronteggiare la carestia, così il tribuno Icilio, insieme a Sicinio e Bruto, allora edili, iniziò a sobillare la plebe contro i patrizi che non risentivano della situazione grazie alle loro ricchezze e non avevano provveduto per tempo contro i mali presenti.
15) Il senato convocato dai consoli discusse la situazione e questa volta prevalse la linea dura del solito Appio Claudio che negava qualsiasi apertura: il popolo doveva aspettare tempi migliori senza creare problemi. Quando i consoli cercarono di riferire in pubblico le decisioni del senato furono duramente contraddetti dai tribuni.
16) Discutendo con Geganio, Bruto ribadì il diritto di intervento dei tribuni e dei consoli e riuscì a moderare la situazione convincendo la folla a ritirarsi.
17) Il giorno successivo Bruto convocò il popolo e il tribuno Icilio parlò del diritto dei tribuni di tenere discorsi senza essere interrotti o tacitati dai patrizi e propose per i contravventori sanzioni che potevano arrivare alla condanna a morte.
18) I nuovi potere ottenuti dalla plebe complicarono l'attività legislativa ma in quel periodo non si verificarono scontri e atti di violenza. Molti cittadini lasciarono Roma invitati dalle città vicine, più tardi una parte rientrò in patria.
19) I consoli riunirono un esercito per operare nei territori nemici sperando di ottenere diversi vantaggi: formare le scorrerie nelle campagne, rendere più gestibile la carestia diminuendo il numero di persone in città, distogliere la cittadinanza dalle tensioni sociali. Ebbe il comando il Marcio che aveva espugnato Corioli. Guidò l'esercito fino a Anzio e tornò con un ricchissimo bottino di frumento e bestiame.
20) Consoli Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino. La continua incetta sui mercati italiani e l'acquisto dagli agricoltori che venivano ad offrire il loro prodotto alle porte della città riempì di frumento e altri viveri i magazzini di Roma e quando Geganio e Valerio tornarono con un ingente carico dalla Sicilia l'emergenza era ormai superata. Si discusse quindi di cosa fare del grano siciliano: i moderati consigliavano di distribuirlo al popolo pressoché gratuitamente mentre gli aristocratici ritenevano giusto venderlo a caro prezzo perché consideravano i plebei responsabili della carestia.
21) A capo della fazione aristocratica si era posto Coriolano che oltre ai motivi politici ne aveva di personali contro i plebei perché avevano impedito che ottenesse il consolato.
22-24) Coriolano prese la parola in senato e parlò apertamente contro i plebei e i loro tribuni accusandoli di abusare del potere ottenuto tramite le riforme e di aver usato il pretesto dei debiti per instaurare una forma di tirannide popolare. Chiese quindi che le derrate fossero vendute al loro pieno prezzo senza alcuna concessione per dimostrare al popolo che il potere era ancora nelle mani del senato e per scoraggiare ogni futura sedizione.
25) L'accesa discussione che seguì divenne un vero e proprio tumulto quando i tribuni chiesero la condanna a morte o all'esilio di Coriolano. Da parte sua Coriolano, che contava sull'appoggio della gioventù aristocratica, minacciò di passare alle vie di fatto.
26) I tribuni lasciarono il senato e convocarono l'assemblea che rapidamente decise di citare Coriolano ma quando questi respinse i messi scoppiò una rissa che presto dilagò in città.
27) Il mattino seguente i tribuni convocarono il popolo e fu chiesto al senato di prendere posizione sulla vicenda di Coriolano.
28-32) I senatori votarono scegliendo una linea di condotta moderata che il console Marco Minucio espose al popolo, veniva confermata la vendita del grano siciliano a prezzo minimo ma si escludeva qualsiasi punizione per Coriolano in considerazione dei suoi meriti verso lo stato.
33-34) Ai tribuni il discorso di Minucio non piacque, in particolare a Sicinio che vedeva nella pace sociale la fine del suo momento di gloria. Sicinio ringraziò il senato quindi, molto astutamente, si rivolse a Coriolano invitandolo a giustificarsi in modo da concludere bonariamente la questione. Sapeva che l'orgoglio non avrebbe permesso a Coriolano di chiedere scusa, infatti egli riprese il tono e le parole del giorno precedente mostrandosi ancora più irremovibile e arrogante.
35) Tra i patrizi che esaltavano Marcio e i plebei che lo insultavano scoppiò una rissa furiosa e quando Sicinio dichiarò che il tribunato condannava a morte Coriolano la violenza aumentò velocemente e solo l'autorità dei consoli, all'epoca molto rispettata, riuscì a calmare la folla.
36) Consigliato da Lucio Giunio, Sicinio parlò ancora al popolo per convincerlo a ritirarsi e lasciare ai tribuni il tempo di organizzare un regolare processo invece di procedere con un'esecuzione sommaria.
37) Per calmare gli animi i consoli e i senatori aprirono la vendita dei generi primari a prezzi bassissimi, intanto ottennero dai tribuni un ampio rinvio del processo di Coriolano.
Intanto gli Anziati avevano catturato le navi siciliane che tornavano indietro dopo aver consegnato il frumento per Roma e tenevano in prigionia la persone che avevano trovato a bordo. Gli ambasciatori romani andati a protestare furono cacciati e i consoli riunirono l'esercito e marciarono verso Anzio ma non fu necessario combattere perché gli Anziati si arresero spontaneamente e liberarono i prigionieri.
38) Sicinio convocò il popolo e annunciò la data fissata per il processo ma Minucio chiese ai tribuni di rispettare l'antica usanza e far esprimere il senato prima di affidare la decisione al popolo.
39) I tribuni accettarono la richiesta con la condizione di essere invitati alla seduta per esporre in senato la posizione del popolo sulla causa in esame.
40) Parlò al senato Lucio Giunio che appellandosi a un'antica legge sostenne che i plebei offesi potevano sottoporre la questione al giudizio popolare, in questo caso l'offesa proveniva da Coriolano il quale aveva cacciato con violenza e minacce gli edili incaricati di prelevarlo per essere sottoposto a giudizio. Passando dalle considerazioni di diritto all'utilità, Lucio Giunio fece presente che negare al popolo la possibilità di processare Coriolano avrebbe provocato grande scontento e forse nuove sedizioni vanificando le recenti concessioni dei patrizi.
L'arringa di Lucio Giunio proseguì deprecando le pretese di Marcio che voleva abolire la potestà tribunizia e vendere il grano a prezzo molto alto per portare i poveri alla disperazione senza considerare che la conseguenza sarebbe stata una rivolta quanto mai sanguinosa. Infine l'oratore indirizzò un'invettiva direttamente contro Marcio accusandolo di aspirare alla tirannide ed esortandolo a presentarsi al tribunale per giustificarsi deponendo lo smisurato orgoglio che aveva dimostrato il giorno precedente.
47-53) Da parte sua Appio Claudio non perse l'occasione di sottolineare di aver predetto che le pretese della plebe non sarebbero terminate con il trattato del Monte Sacro ... e il suo intervento prosegue per diverse pagine sostanzialmente ripetendo quanto detto in precedenza.
54) Parlò quindi Valerio consigliando ai senatori di presenziare al processo per assistere e difendere Coriolano. Si rivolse quindi a Coriolano stesso esortandolo a cambiare atteggiamento per evitare di provocare una rivolta con conseguenza ben più gravi delle offese personali.
55-56) Valerio espose anche un concetto politico più generale: era importante che il popolo tramite i tribuni e le sue assemblee condividesse il potere e in questo modo controbilanciasse quello del senato. Se in futuro - disse Valerio - un senatore tenterà di abusare del suo potere i tribuni lo fermeranno e il popolo lo giudicherà, se sarà il popolo a tentare di instaurare una tirannide il senato potrà nominare un dittatore che ristabilisca l'ordine istituzionale.
57-58) Il discorso di Valerio convinse la maggioranza dei senatori ma Coriolano chiese che i capi di accusa sui quali si sarebbe basato il processo venissero chiaramente rivelati. Consultatisi, i tribuni affermarono che l'accusa era aspirazione alla tirannide. L'imputato dichiarò di non opporsi oltre, fu emesso il decreto con la decisione del senato e fu fissato il giorno dell'udienza.
59) Una grande moltitudine si radunò nel foro per il processo. Si trattò della prima occasione in cui il popolo votò per tribù (489 a.C.) I patrizi chiedevano che si votasse per centurie come in passato perché questo sistema privilegiava i plebei più ricchi e verosimilmente più concordi con gli aristocratici, ma i tribuni furono inamovibili nel sostenere che tutto il popolo doveva votare e non soltanto i privilegiati.
60-61) Il console Minucio chiese al popolo di soprassedere ma Sicinio rispose che egli avrebbe garantito che il popolo votasse come stabilito lesse il decreto dando inizio al processo.
62-63) Coriolano perorò la propria causa enumerando le sue imprese, chiamando a testimoni quanti avevano combattuto con lui, mostrando cicatrici. Tutto ciò commosse il popolo e sarebbe stato certamente assolto se il tribuno Decio (è una contraddizione nel testo, in precedenza lo stesso personaggio è stato indicato come Lucio Giunio) non lo avesse accusato di aver violato la legge appropriandosi del bottino di Anzio per distribuirlo ai suoi soldati.
64) Sembra che Marcio avesse effettivamente distribuito il bottino ai soldati perché era riuscito a reclutarli durante un periodo di renitenza alla leva e gli era sembrato giusto premiarli ma la mossa del tribuno giunse inaspettata senza che Marcio o i consoli riuscissero a replicare. I tribuni approfittarono del momento e passarono subito al voto, l'imputato fu condannato con dodici voti su ventuno.
65-66) Per la prima volta un patrizio fu citato dal popolo. Secondo Dionisio fu l'inizio di una lunga serie di cambiamenti che aumentarono il potere del popolo diminuendo quello degli aristocratici. L'autore esprime apertamente la propria opinione, considera l'istituzione dei tribuni della plebe necessaria a Roma ma il loro operato fu più o meno positivo secondo il carattere dei tribuni. Se erano onesti chi attentava alla libertà e all'ordine veniva punito mentre le persone per bene non dovevano temere pene o giudizi mentre se il potere tribunizio era in cattive mani poteva avvenire il contrario. Non era quindi da correggere l'istituzione ma da curare la scelta dei tribuni.
67) Così si conclude la prima sedizione dei Romani dopo la cacciata dei re e Dionisio sottolinea come questi cambiamenti, diversamente da quanto avvenne in altre città, si verificarono in modo incruento. Ha ritenuto giusto descrivere in modo dettagliato gli eventi che portarono a una soluzione senza ricorso alle armi ma con il dialogo e la ragione.
68) Coriolano si comportò con grande dignità e dopo aver salutato i familiari senza lasciarsi andare alla commozione, uscì dalle porte di Roma non dicendo a nessuno dove era diretto.
69) Pochi giorni dopo furono eletti consoli Quinto Sulpicio Camerino e Spurio Larcio. Si verificarono alcuni prodigi e un'epidemia del bestiame che molti interpretarono come segni dell'ira degli dei per la condanna di Coriolano. Un uomo vecchissimo si presentò in senato per raccontare di aver sognato Giove che lo incaricava di dire ai senatori di ripetere un rito celebrato in precedenza che non lo aveva soddisfatto. Si era affrettato a compiere la commissione perché avendo trascurato l'ordine Giove aveva fatto morire suo figlio e lo aveva colpito con dolori insopportabili .
70-72) Il rito che non aveva soddisfatto Giove era stato contaminato dal pietoso spettacolo di uno schiavo che veniva frustato in pubblico durante una festa. L'episodio è occasione per Dionisio di esporre i rituali Romani e dimostrare la loro origine greca. La festa di cui si parla fu istituita per voto di Aulo Postumio e ripetuta ogni anno fino alle guerre puniche. Iniziava con una processione dal Campidoglio al Circo Massimo aperta dai ragazzi prossimi all'età adulta, seguivano quadrighe, bighe, cavalieri e lottatori. Sfilavano saltatori, suonatori di tibie e di lire, danzatori con costumi variopinti, armi e altri ornamenti, danzatori che imitavano i satiri nelle vesti e nel comportamento, persone che recavano incensi, aromi, oggetti preziosi e infine i portatori di simulacri degli dei. Conclusa la processione, consoli e sacerdoti offrivano sacrifici secondo l'antico rituale greco descritto da Omero.
73) Era quindi la volta dei giochi: corsa delle quadrighe, delle bighe e dei cavalli sciolti, gare atletiche di corsa e di lotta, quindi la premiazione dei vincitori anche questa secondo l'uso greco.
Concludendo questo argomento Dionisio ricorda che il senato per rimediare all'increscioso evento della schiavo punito durante la festa decretò la ripetizione della processione, degli spettacoli e dei giochi.



Libro Ottavo


1) Furono eletti consoli Caio Giulio Iulo e Publio Pinario Rufo (489 a.C.). Marcio Coriolano desideroso di vendicare l'offerta subita si recò ad Anzio, città dei Volsci, e si rivolse a Azio Tullo, uno dei più importanti cittadini, al quale narrò le sue disgrazie e chiese aiuto promettendo di fare ai Volsci tanto bene in futuro quanto male aveva fatto loro in passato.
2) Tullo fu lieto di accoglierlo e promise di renderlo amico di tutti i Volsci, dopo non molto tempo i due progettarono di muovere guerra a Roma ma poiché era in vigore una tregua Coriolano suggerì uno stratagemma per fare in modo che fossero i Romani a aprire le ostilità. Era imminente una festa a Roma e Marcio suggerì di mandare un gran numero di Volsci per partecipare ai giochi ma facendo trapelare la falsa notizia che non fossero atleti ma soldati che dovevano attaccare la città dal suo interno. In questo modo i Romani avrebbero certamente cacciato gli ospiti fornendo un ottimo pretesto a Tullo per dichiarare loro guerra.
3) L'idea di Coriolano fu messa in pratico. Giunse a Roma un gran numero di giovani Volsci e quando i consoli furono informati di un inganno decisero d'accordo con il senato di espellere i pericolosi stranieri.
4) Tullo si impegnò nell'esacerbare l'animo del Volsci sottolineando l'oltraggio di essere cacciati dalla festa. I Volsci si riunirono e decisero di dichiarare guerra ai Romani.
5-8) Per Coriolano fu l'occasione che aspettava: convocato da Tullo alla riunione dei capi militari raccontò le sue disgrazie e i motivi che avevano portato lui, romano, ad unirsi ai nemici di Roma. Propose di inviare ambasciatori a richiedere la restituzione ai Romani di tutti i luoghi conquistati ai Volsci e, al prevedibile rifiuto, di combattere luogo per luogo fino a recuperare tutto il territorio perduto.
9-10) Mentre Coriolano veniva onorato dai Volsci con le più alte cariche delle loro città, gli ambasciatori si recarono a Roma per proporre l'amicizia a condizione che i Romani restituissero tutte le terre conquistate ai Volsci. I senatori compresero qual era il vero scopo degli ambasciatori e li rimandarono indietro con un secco rifiuto.
11-12) Chiaramente i Volsci decisero di attaccare i Romani e mentre il loro esercito si preparava, Marcio e Tullo con squadre di volontari presero a saccheggiare la campagna romana e quella dei Latini. Per ordine di Marcio le tenute dei patrizi subivano pochi danni mentre quelle dei plebei venivano devastate, Marcio contava con questa strategia di alimentare la discordia dei Romani. Infatti non solo i plebei pensarono che i patrizi fossero d'accordo con Coriolano ma gli stessi patrizi sospettarono l'uno dell'altro.
13) Tornati alla base carichi di preda, Marcio e Tullo erano pronti a iniziare la guerra vera e propria. Decisero di dividere in due metà l'esercito. Una metà con Coriolano avrebbe attaccato Roma e l'altra metà comandata da Tullo si sarebbe occupata di difendere il territorio dei Volsci.
14) Marcio raggiunse Circei che si arrese senza combattere, la notizia giunse a Roma dove tribuni e senatori presero a litigare attribuendosi vicendevolmente la responsabilità della situazione.
15) Il senato ordinò ai consoli di reclutare un'armata ma il loro mandato era prossimo a scadere e lasciarono ai successori la leva incompleta.
16) Furono eletti consoli Spurio Nauzio e Sesto Furio (486 a.C.) che si affrettarono a completare la leva e gli altri preparativi per la guerra ma gli alleati erano restii a combattere e gli Equi passarono dalla parte dei Volsci presto imitati da altre popolazioni. Marcio ebbe a disposizione un grande esercito e ricominciò a danneggiare la campagna romana.
17) I Volsci incoraggiati dal successo nutrivano grandi speranze mentre Coriolano attaccava gli alleati di Roma rimasti fedeli. Conquistò la città dei Tolerini (una gente laziale non meglio identificata) facendo strage dei difensori.
18) Attaccò quindi i Bolani che respinsero il primo assalto dei Volsci uccidendone molti ma Coriolano li ingannò con una finta fuga e li sconfisse aggirandoli.
19) Coriolano attaccò Labico che si difese validamente ma infine cedette al gran numero dei Volsci, conquistò quindi la città dei Pedani e passò a Corbione che si arrese senza combattere, altrettanto fecero gli abitanti di Corioli. A chi si arrendeva Coriolano lasciava intatti i beni e risparmiava il saccheggio.
20) Ben diversamente andò l'assedio di Boville, città ben fortificata e ben difesa che oppose molta resistenza ma che finì col cedere a Coriolano che qui più che altrove mostrò il suo grande carisma e il suo coraggio.
21) Lavinio si difese all'estremo in quanto strettamente legata ai Romani. Qui non bastarono gli assalti dei Volsci ma Coriolano cinse la città di un vallo e di un fossato e la pose sotto assedio impedendo i rifornimenti. Intanto a Roma cresceva la paura che Marcio guidasse i Volsci contro i propri concittadini e molti chiedevano di rievocare la condanna e lasciarlo tornare ma inaspettatamente si oppose il senato, forse perché i senatori volevano dimostrare una volta per tutte di non essere collusi con Coriolano.
22) Informato da disertori sul comportamento del senato, Marcio si mosse subito verso Roma con l'esercito e si accampò in un luogo detto Fosse Cluilie a breve distanza dalle mura. A Roma furono ore di panico e tutti cercarono di prepararsi a combattere senza che nessuno assumesse il coordinamento delle difese. Il mattino successivo, dato che Coriolano era rimasto in attesa senza intraprendere alcuna azione, il senato gli mandò ambasciatori per invitarlo a trattare la pace. Furono scelti Marco Minucio, Postumio Cominio, Spurio Larcio, Publio Pinario e Quinto Sulpicio, tutti consolari. Marcio li accolse in un luogo dove tutti i Volsci potevano ascoltare i loro discorsi.
23-28) Parlò Minucio che durante il processo aveva sempre difeso Coriolano e spese un lungo discorso fatto di buon senso ma anche di chiare minacce per dimostrare a Coriolano quanto fosse assurdo, se pur in qualche misura giustificabile, il suo comportamento. Non aveva alcuna speranza di vincere i Romani ma se anche fosse riuscito nell'impresa dai suoi concittadini, dopo averli combattuti, avrebbe avuto soltanto odio, sospetti e rancore.
Gli ambasciatori portavano proposte di pace e Minucio prometteva che se Coriolano avesse deposto le armi avrebbe avuto al più presto il decreto di annullamento della sua condanna.
29-35) La risposta di Coriolano (molto lunga e piena di ripetizioni sui suoi meriti militari, sulla sua gloria, sui torti subiti, ecc.) è in sintesi la seguente: premette di essere amico di Minucio e degli altri ambasciatori e riconosce loro di averlo aiutato, dichiara di nutrire per tutti gli altri Romani un odio inestinguibile, rifiuta di tornare a Roma dove vivrebbe una vita assai triste dopo tutti i suoi trascorsi e finalmente propone che il senato deliberi la restituzione ai Volsci di tutte le terre conquistate. Solo a questa condizione si dice disposto a mettere fine alla guerra. Congeda gli ambasciatori impegnandosi a non attaccare Roma per trenta giorni al termine dei quali tornerà per conoscere le decisioni dei senatori.
36) Come stabilito Coriolano allontanò l'armata da Roma e andò a conquistare Longola, Satrico e altre località. Scaduti i trenta giorni si portò a breve distanza da Roma e si accampò lungo la via Tuscolana. Intanto il senato aveva deciso di non rigettare del tutto le proposte di Coriolano ma di non avviare alcuna trattativa finché i Volsci si trattenevano in armi nelle campagne di Roma.
37) Il senato inviò dieci ambasciatori diversi dai precedenti a riferire la sua decisione ma Coriolano si limitò a concedere loro altri tre giorni per tornare con una dichiarazione differente.
38) I sanatori fecero un altro tentativo inviando un gruppo di sacerdoti, pontefici e auguri a chiedere la pace in nome degli dei ma neanche questi ebbero successo e ai Romani non rimase che reclutare tutti i cittadini adatti alle armi per presidiare le porte in attesa dell'attacco.
39-40) I templi erano affollati dalle donne in lutto che pregavano per la salvezza. Una matrona di alto lignaggio, Valeria sorella di Publicola, chiamò a se molte altre donne e insieme si recarono a casa di Veturia madre di Coriolano per pregarla di intercedere presso il figlio.
41-43) Valeria e le sue compagne convinsero, non senza difficoltà, Veturia a fare un tentativo recandosi dal figlio insieme alla nuora Volumnia, i suoi figli, e tutte le donne che avessero voluto seguirla. Si trattò poi di convincere consoli e senatori ad autorizzare il tentativo, ne nacque una lunga discussione ma alla fine tutti convennero che Coriolano non era uomo da nuocere a donne e bambini e non avrebbe tentato di usarli per i suoi obiettivi.
44-53) Un corteo di donne avanzò fino al campo dei Volsci con Veturia e Volumnia in testa. Coriolano andò loro incontro e ordinò ai littori di abbassare le scuri e i fasci in segno di deferenza. Coriolano, fino ad allora impassibile, si commosse alla vista della madre in abiti dimessi e con gli occhi segnati dal pianto e corse ad abbracciare la donna, quindi la moglie e i figli e solo dopo molte effusioni si rivolse a Veturia per chiederle il motivo della visita così inaspettata.
Il discorso di Veturia, soltanto una volta interrotto dal debole tentativo di Marcio di respingere ogni richiesta è chiaramente drammatico ma la retorica lo priva di credibilità. La donna riconosce che il figlio è stato offeso e che si trova in debito verso i Volsci che lo hanno accolto, ma poi ripercorre i momenti della vita di Marcio e della sua esperienza di madre completamente dedicata alla cura del figlio ed arriva a giurare di uccidersi se Coriolano non stabilirà un tregua di un anno per trovare una soluzione incruenta.
54) Coriolano cedette e, mentre tutte le donne alzavano acuti lamenti, abbracciò la madre e si arrese alle sue richiesta. Entro sera decise di allontanare l'esercito da Roma e si impegnò a tentare di convincere i Volsci a concludere la pace mentre a Roma popolo e senato dovevano sospendere ogni decisione sul suo ritorno finché la missione di pace non fosse andata a buon fine.
Tutto ciò stabilito le donne tornarono a Roma e Coriolano, consapevole del rischio di una rivolta, parlò a lungo al suo esercito pregando tutti di accettare il cambiamento e di difendere il loro comandante da chi avesse voluto fargli del male.
55) Dopo gioiosi festeggiamenti per il successo delle donne, il senato decretò di offrire loro un encomio solenne e un donativo a loro scelta. Le donne si riunirono e decisero di chiedere ai senatori di dedicare un tempio alla Fortuna Muliebre. La richiesta fu esaudita, Valeria fu scelta come sacerdotessa e il tempio fu consacrato l'anno successivo dal console Virginio Proculo.
56) Nel tempio era una statua della Fortuna Muliebre pagata dallo stato e le donne ne aggiunsero un'altra con i loro contributi volontari. Si dice che il secondo simulacro per due volte parlò dichiarandosi consacrato ai santi riti di Roma. Appurato il miracolo il senato decretò ulteriori sacrifici.
57) Marcio ricondusse il suo esercito ai campi dei Volsci e distribuì tutto il bottino. I soldati, soddisfatti di quanto avevano ricevuto, erano propensi ad accettare l'interruzione della guerra, ma quanti erano rimasti a casa volevano punire Marcio, in particolare Azio Tullo che per invidia aveva comunque progettato di ucciderlo. A Marcio fu ordinato di deporre il comando e rendere conto del suo operato.
58) Marcio non intendeva sottrarsi al giudizio ma chiese di non dover deporre il comando prima di essere stato giudicato e che nel tribunale fossero rappresentate tutte le città dei Volsci. Tullo si opponeva ritenendo che rivolgendosi all'intera nazione Marcio avrebbe sfruttato al meglio le sue doti di oratore.
59) La contesa su questi punti durò a lungo ma infine Tullo costrinse Marcio ad apparire nel foro dove i suoi accoliti lo lapidarono. A quanti avevano combattuto con Marcio e a tutti quelli che lo ritennero vittima di una grande ingiustizia non rimase che tributare a Coriolano le più splendide esequie.
60-62) Considerazioni di Dionigi sulla vicenda di Marcio Coriolano che fu un grande combattente e un uomo virtuoso ma eccessivamente rigido e severo nell'applicare le leggi e la disciplina. In sostanza, sostiene l'autore, avrebbe potuto essere felice e fare una fine molto diversa. Fu comunque pianto dai Volsci e dai Romani e cinquecento anni dopo la sua morte se ne celebrava ancora la memoria.
63) Volsci ed Equi progettarono un attacco contro i Romani ma discordie interne li portarono a combattere gli uni contro gli altri subendo molte perdite. Sbagliarono i consoli a non trarre vantaggio dall'episodio.
64) Furono eletti consoli Caio Aquilio e Tito Siccio (485 a.C.) Il senato inviò ambasciatori agli Ernici per chiedere soddisfazione di incursioni in territorio romano compiute in precedenza. Gli Ernici risposero che si era trattato di azioni di privati ma non intendevano consegnare gli autori e si dissero pronti alla guerra. In previsione di questa risposta i consoli avevano già fatto la leva per l'esercito e le forze reclutate furono divise in tre parti: una per Aquilio che doveva combattere contro gli Ernici, una fu affidata a Tito Siccio per attaccare i Volsci e con la terza Spurio Larcio e Aulo Sempronio Atratino furono incaricati di sorvegliare la città.
65) La battaglia di Caio Aquilio contro gli Ernici durò l'intera giornata e solo all'imbrunire i Romani riuscirono ad avere il sopravvento. Il console spronò i suoi uomini e guidò personalmente la cavalleria finché non vide i nemici rientrare in fretta nel loro campo, allora fermò quelli dei suoi soldati che continuavano a inseguire gli Ernici per evitare che si esponessero a eccessivi pericoli.
66) La notte successiva gli Ernici, decisi a evitare un'altra battaglia, fuggirono abbandonando i feriti e tutto ciò che era nel campo. Al mattino i Romani catturarono i feriti e molti dei fuggiaschi, presero cavalli, vettovaglie ed armi, quindi depredarono indisturbati le terre degli Ernici.
67) Intanto Tito Siccio affrontava a Velletri i Volsci comandati da Azio Tullio. Il terreno impediva alle cavallerie di partecipare alla battaglia ma i cavalieri romani combatterono a piedi e il loro intervento fece la differenza. I Romani vinsero uccidendo gran parte dei nemici fra cui lo stesso Azio Tullio. Tito Siccio ebbe il trionfo maggiore (sfilando sul carro trionfale) e Aquilio il trionfo minore (entrò a Roma a piedi).
68) 484 a.C. Furono elettiPublio Virginio e Spurio Cassio. Estratti a sorte i compiti, Virginio uscì contro le città degli Equi mentre Cassio affrontò i Volsci e gli Ernici. Gli Equi si ritirarono nella campagna e Virginio depredò il territorio senza incontrare ostacoli. Anche Volsci ed Ernici si ritirarono nella città ma vedendo i Romani saccheggiare i loro poderi inviarono ambasciatori a chiedere la pace. Il console li multò, incassò denaro e provviste e rimise la questione ai senatori che lo autorizzarono a concludere il trattato.
69) Spurio Cassio fu sgradito a molti perché chiese un trionfo senza aver combattuto e perché le condizioni del trattato concluso con gli Ernici erano uguali a quelle concordate con i Latini che erano legati ai Romani da vincoli di consanguineità. Console tre volte e due volte trionfatore, Cassio cominciò a coltivare un progetto di tirannide e per procurarsi il favore popolare pensò di distribuire un vasto terreno ai plebei, inoltre arrivò a comprendere gli Ernici tra i beneficiari scatenando disordini.
70) Convocato il popolo, Cassio tenne un discorso vantando le proprie imprese, promettendo di elargire ricchi donativi e chiedendo il potere a vita. Il giorno dopo chiese in senato la distribuzione gratuita dei terreni.
71) La proposta suscitò ira e indignazione nei senatori, ma Cassio continuò a convocare il popolo per ribadire le sue promesse. Virginio, già suo collega nel consolato, intanto approntava una vigilanza. I tribuni della plebe si opposero alle idee demagogiche di Cassio e il popolo era perennemente confuso nell'ascoltare i discorsi pro e contro la distribuzione delle terre.
72) Il tribuno propose come soluzione di compromesso di distribuire per il momento parte delle terre ai Romani, atto sul quale Cassio e Virginio concordavano, procrastinando la distribuzione agli Ernici che vedeva i due consolari in disaccordo. La proposta fu accettata dalla maggioranza e Spurio Cassio, chiuso in casa per una finta malattia, prese a convocare a Roma un grano numero di Ernici e Latini.
73) In senato Appio Claudio si oppose a ogni forma di distribuzione gratuita e propose che una commissione di senatori verificasse quali terreni pubblici erano sfruttati illecitamente dai privati e li requisisse. Propose quindi che i terreni contesi venissero lottizzati, in parte venduti, in parte affittati destinando il ricavato al soldo delle truppe. Si disse certo che questo modo di procedere, sanando gli abusi dei patrizi che avevano occupato i terreni, avrebbe placato le rimostranze del popolo.
74) Aulo Sempronio Atratino affermò di aderire alla proposta di Appio Claudio aggiungendo che si promettesse a Ernici e Latini di spartire le terre eventualmente conquistate combattendo insieme in futuro.
75) Sempronio propose inoltre di procedere alla ricognizione dei terreni richiesta da Claudio ma di rimandare la spartizione vera e propria al prossimo mandato consolare in modo da evitare problemi con le discordie fra i consoli in carica.
76) Quindi in senato decretò che si nominassero i commissari per la ricognizione dei terreni pubblici e quant'altro era stato proposto dagli oratori. Il decreto servì a placare la sedizione popolare.
77) 483 a.C. Furono eletti consoli Quinto Fabio e Servio Cornelio. Furono nominati questori i giovani Fabio Cesone e Lucio Valerio che citarono davanti al popolo Spurio Cassio con l'accusa di aspirare alla tirannide. Cassio, sostennero i questori, proponeva per Ernici e Latini benefici ben più grandi di quelli che essi stessi si sarebbero aspettati. Era un assurdo, dissero, voler conferire a popoli estranei due terzi di quanto i Romani avevano conquistato con pericolo e fatica.
78) Dividere le terre con Ernici e Latini significava di fatto sottrarle alla repubblica. Ostacolato nelle sue intenzioni, Spurio Cassio aveva tentato di imporle con la violenza al senato, ai tribuni e all'altro console tramando per provocare rivolte. Dimostrando infine con autorevoli testimonianze che Cassio riceveva aiuti e armi dagli Ernici e dai Latini, i due questori ottennero la condanna dell'ex console. Temendo che in esilio Cassio sollevasse nemici contro Roma come aveva fatto Coriolano, il popolo decise di giustiziarlo. Fu condotto sulla rupe sovrastante il foro e fatto precipitare. Questa era la forma consueta di esecuzione in uso a quei tempi.
79) Un'altra versione della storia raccontava che Spurio Cassio fu scoperto, denunciato e giustiziato da suo padre. Versione poco credibile ma dopo tutto in linea con la vicenda di Bruto che fece morire i suoi figli che avevano cospirato per far tornare i Tarquini, o con quella di Manlio che nella guerra contro i Galli prima premiò il figlio per un atto di eroismo poi lo uccise per aver combattuto contro l'ordine di restare ai propri posti.
80) Il senato lasciò liberi i figli di Cassio respingendo la richiesta di quanti volevano farli uccidere e da allora fu legge che i figli di padri delinquenti non subissero alcuna pena.
81) Con la vicenda di Cassio l'aristocrazia si rafforzò e il progetto di spartizione delle terre venne accantonato provocando il malcontento della plebe. Per evitare disordini i consoli procedettero a una leva militare e superarono la resistenza della plebe minacciando di nominare un dittatore che avrebbe operato gli arruolamenti con la forza.
82) Il console Cornelio entrò nel territorio dei Veienti e fece prigionieri che poi rilasciò dietro riscatto. L'altro console Fabio si volse contro Equi e Volsci. Sottovalutando le forze romane in campo i Volsci furono sconfitti e il console tornò con un cospicuo bottino. In vista delle elezioni consolari i patrizi sollecitarono a candidarsi Lucio Emilio e Fabio Cesone, due conservatori sgraditi ai plebei che infatti disertarono i comizi sapendo che il meccanismo elettorale vigente non avrebbe consentito loro di impedire quelle elezioni.
83) 482 a.C. Lucio Emilio e Fabio Cesone furono eletti consoli. I Volsci razziavano le terre dei Latini e degli Ernici ma tenevano il grosso dell'esercito pronto per affrontare i Romani. Anche i Romani divisero le forze in due parti in modo da difendere Ernici e Latini mentre depredavano le terre dei Volsci.
84) Tirando a sorte, a Fabio Cesone toccò la difesa degli alleati e Lucio Emilio attaccò Anzio. Le forze in campo erano in condizioni di parità e dopo lunghi combattimenti i Volsci cominciarono a ritirarsi ordinatamente puntando a dividere i Romani.
85) Indietreggiando, i Volsci attirarono i Romani fino al loro accampamento ma qui gli inseguitori dovettero fuggire perché dal campo nemico uscirono molti altri soldati e, capovoltosi l'esito dello scontro, i Romani furono sconfitti, solo un improvviso temporale, ostacolando i Volsci, permise di contenere le perdite dei Romani.
86) Sottovalutando le forze romane superstiti i Volsci attaccarono il campo che Lucio Emilio aveva trasferito presso Longola, ma furono respinti. Circondarono allora il campo romano tenendolo per alcuni giorni sotto assedio. Quando i Volsci sferrarono un attacco che voleva essere decisivo non sapevano che le migliori truppe dell'altro console Fabio Cesone si erano introdotte nottetempo nel campo romano. Davanti all'inattesa energia del nemico i Volsci fuggirono lasciando molti caduti sul campo e i Romani, depredando le campagne circostanti, ricostituirono le provviste che avevano esaurito durante l'assedio.
87) Fabio Cesone convocò i comizi per le elezioni da solo perché Emilio rimase fuori dalle mura per la vergogna della sconfitta. Furono eletti Marco Fabio, fratello del console uscente, e Lucio Valerio figlio del fratello di Publicola. I consoli bandirono la leva per rimpiazzare i caduti di Anzio, ma la plebe si oppose e il tribuno Caio Manio pose come condizione per gli arruolamenti l'emissione del decreto per la distribuzione delle terre. I consoli, tuttavia, sistemarono il loro tribunale fuori le mura e presero a colpire le campagne dei renitenti senza che i tribuni potessero intervenire perché per legge non avevano potere fuori la cinta delle mura.
88) Riuscendo così a supplire alle coorti mancanti, i consoli decisero tirando a sorte che Fabio avrebbe guidato i soccorsi agli alleati mentre Lucio Valerio avrebbe sferrato un nuovo attacco ai Volsci.
I Volsci non accettarono per lungo tempo la battaglia campale e si susseguirono numerose scaramucce che indebolirono le fila dei Romani mentre i Volsci ricevevano continuamente rinforzi.
89) Quando finalmente si affrontarono in battaglia i due eserciti arrecarono l'un l'altro moltissime perdite ma lo scontro si chiuse senza vincitori, i nemici tornarono ai rispettivi campi e ripresero a sorvegliarsi senza intervenire. Corse voce che i soldati romani rimanessero inattivi in odio al console e ai patrizi che avevano tradito le loro aspettative. Intanto presagi negativi annunciavano l'ira degli dei. Da un'inchiesta risultò che la vestale Opimia aveva violato il voto di castità. Murata viva la vestale e frustati a morte i suoi due amanti, gli dei si placarono e le risposte degli indovini tornarono positive.
90) Giunto il tempo dei comizi nacque molta tensione tra patrizi e plebei a proposito delle candidature. I patrizi sostenevano il figlio di Appio Claudio che non era ovviamente gradito alla plebe. Consoli e tribuni della plebe si ostacolavano a vicenda e i senatori decisero di nominare un interrè. La scelta cadde su Aulo Sempronio Atratino che alla scadenza del mandato passò la carica a Spurio Larcio. Questi convocò i comizi e finalmente furono eletti il plebeo Caio Giulio e il patrizio Quinto Fabio figlio di Cesone che era al suo secondo consolato (482 a.C.).
91) Gli Equi e i Veienti saccheggiarono territori romani. Il senato chiese soddisfazione ai secondi rimandando di occuparsi dei primi e gli Equi, incoraggiati, attaccarono Ortona.
I Veienti congedarono gli ambasciatori romani dicendo che l'incursione era opera di altri Etruschi ma tornando a Roma gli ambasciatori incontrarono i saccheggiatori veienti con la preda, di conseguenza il senato dichiarò guerra a Veio. Molti si opposero alla dichiarazione di guerra temendo che tutta l'Etruria intervenisse a favore di Veio, inoltre i plebei colsero l'occasione per protestare per le terre non ancora distribuite. Spurio Larcio convinse il popolo a ratificare la decisione e i consoli condussero l'esercito a razziare il territorio veiente.


Libro Nono


1) 479 a.C. Vennero eletti consoli il patrizio Fabio Cesone, l'accusatore di Spurio Cassio, e il plebeo Spurio Furio. I consoli decisero di arruolare due armate: una per soccorrere i Latini attaccati dagli Equi e l'altra per far fronte alla coalizione etrusca che si stava formando intorno a Veio.
Il tribuno Spurio Sicinio oppose il veto alle leve e chiese che prima si nominasse la commissione per distribuire le terre. Appio Claudio propose ai consoli di tentare di provocare discordie fra Sicinio e i suoi colleghi.
2) I consoli persuasero infatti gli altri tribuni a tacitare Sicinio e, senza più ostacoli, passarono agli arruolamenti. La sorte decise che Spurio Furio si occupasse degli Equi e Fabio Cesone degli Etruschi. Gli Equi si arresero senza combattere e Spurio Furio fece un ricchissimo bottino che lasciò interamente alle truppe accrescendo la sua già grande popolarità.
3) I soldati di Fabio Cesone, che odiavano il console responsabile della morte di Spurio Cassio, combatterono validamente ma vinto il nemico rifiutarono di inseguirlo e disertarono in massa tornando a Roma senza averne avuto l'ordine.
4) Gli ammutinati tornarono a Roma attraversando di notte il territorio nemico con grande pericolo e giunti alle mura rischiarono di essere attaccati dai Romani stessi che nel buio non li riconobbero. E tutto ciò per impedire che Fabio con una vittoria diventasse più potente. 5) Furono eletti Caio Manlio e Marco Fabio (478 a.C.). Il tribuno Tiberio Pontificio si oppose alla leva ma venne isolato dai colleghi come era avvenuto l'anno precedente.
I consoli schierarono davanti a Veio due armate ciascuna composte di due legioni di Romani e di molti contingenti di alleati ma le forze degli Etruschi apparvero maggiori perciò i consoli fortificarono i campi e presero tempo.
6) Un fulmine distrusse la tenda del console Manlio e tutto ciò che conteneva. Gli indovini interpretarono l'evento come un presagio della distruzione dell'intero campo e Manlio trasferì il suo esercito presso quello del collega. Gli Etruschi se ne rallegrarono e l'idea che gli dei fossero con loro li rese certi della vittoria.
7) Gli Etruschi occuparono il campo abbandonato da Manlio rafforzando le loro posizioni, quindi presero a provocare verbalmente i Romani deridendoli e insultandoli ogni giorno. I consoli, temendo che i soldati plebei li abbandonassero come avevano fatto l'anno precedente, non osavano intervenire.
8) I consoli presero ancora tempo contando sull'orgoglio dei soldati, infatti quando gli Etruschi cominciarono a chiudere con degli steccati le uscite del campo romano, i soldati persero la calma e chiesero a gran voce di essere guidati in battaglia.
9) Discorso di incoraggiamento di Fabio alle truppe.
10) Il primipilo Marco Flavoleio, un plebeo già decorato per meriti militari, si fece avanti e giurò di non tornare se non dopo aver sconfitto i nemici e tutti seguirono il suo esempio, consoli compresi. Uscirono dal campo e si schierarono.
11) Durante la battaglia fu ferito mortalmente Quinto Fabio fratello del console Marco Fabio che comandava l'ala sinistra romana. Dal lato opposto del campo anche il console Manlio venne ferito.
12-13) Dionigi descrive episodi della lunga battaglia come la morte di Caio Manlio e la temporanea presa del campo romano da parte degli Etruschi. Quando scese la sera i combattenti si ritirarono, il mattino seguente i Romani diedero sepoltura ai loro caduti e saccheggiarono il campo nemico abbandonato.
Furono premiati Fabio Cesone, Tito Siccio e Marco Flavoleio. A Roma il console Fabio rifiutò il trionfo in segno di lutto per la morte del fratello e del collega, quindi depose il consolato in anticipo perché costretto a letto dalle molte ferite.
14) I comizi, convocati da un interrè, elessero Tito Virginio e Fabio Cesone (per la terza volta). La sorte stabilì che Virginio continuasse la guerra contro Veio e Fabio attaccasse gli Equi.
Gli Equi si ritirarono nelle loro città e Fabio Cesone saccheggiò senza combattere le campagne.
Anche i soldati di Virginio si diedero al saccheggio ma furono sorpresi da un'improvvisa sortita dei Veienti e salvati dal tempestivo intervento di Tito Siccio. Si trovarono accampati su un colle e circondati dai nemici, privi di provviste per resistere all'assedio. Chiamato dal collega, Fabio Cesone giunse appena in tempo per liberare gli assediati e i Veienti fuggirono ma quando gli eserciti consolari furono rientrati a Roma presero a saccheggiare le campagne giungendo fino al Tevere a brevissima distanza da Roma.
15) Le spese per la continua guerra avevano prosciugato l'erario e il senato non aveva mezzi per affrontare una nuova impresa. I Fabii si offrirono di combattere da soli e a proprie spese contro Veio fino alla fine della guerra. Senato e popolo accolsero la proposta con infinita gratitudine e Marco Fabio, il console dell'anno precedente, prese il comando di un esercito composto da trecento Fabii e circa quattromila fra clienti e amici.
Marco Fabio uscì da Roma con queste milizie seguito a breve distanza dal console Fabio Cesone al comando dell'armata romana. Si accamparono sul fiume Cremera, presso Veio. Fabio Cesone coordinò i lavori per fortificare il campo, saccheggiò le terre di Veio procurando abbondanti provviste per le forze dei Fabii, quindi ricondusse l'esercito a Roma.
I Veienti si trovarono assediati, a corto di provviste e impossibilitati a rifornirsi. Tentarono molte sortite ma per tutto l'inverno furono sempre sconfitti.
16) I nuovi consoli Lucio Emilio e Caio Servilio (476 a.C.) vennero informati che Volsci ed Equi stavano per attaccare mentre altri messaggeri portavano la notizia che l'intera Etruria stava per soccorrere Veio.
Lucio Emilio prese il comando di un'armata e raggiunse i Fabii sul Cremera insieme a Fabio Cesone in veste di proconsole. Servilio marciò contro i Volsci e il proconsole Servio Furio contro gli Equi. Servio Furio sconfisse facilmente gli Equi, non così il console Servilio che dopo aver perso molti uomini si ridusse a tenere il campo senza più uscire per combattere.
Lucio Emilio sconfisse gli Etruschi e conquistò i loro alloggiamenti.
17) I Veienti chiesero una tregua e mandarono ambasciatori a Roma per trattare la pace. Il senato accettò di concludere la guerra e delegò la trattativa a Lucio Emilio. Quanto questi concordò con i Veienti fu considerato troppo generoso dai senatori che gli negarono il trionfo. Per dargli l'occasione di recuperare prestigio i senatori incaricarono Emilio di portare il suo esercito contro i Volsci per aiutare il collega ma Emilio, molto offeso, parlò al popolo denigrando i patrizi, quindi congedò la propria armata.
18) 475 a.C. Furono eletti Caio Orazio e Tito Menenio. Le undici città etrusche che avevano partecipato alla guerra ma non al trattato di pace posero Veio sotto accusa per aver concluso con i Romani un accordo senza il voto comune e imposero ai Veienti di trovare il modo di rescindere il trattato.
I Veienti protestarono perché il campo dei Fabii sul Cremera non era stato rimosso e lo fecero con evidenti intenzioni provocatorie tanto che il senato ordinò ai consoli di armare due eserciti per affrontare l'uno la coalizione etrusca e l'altro i Volsci. Orazio mosse contro i Volsci ma mentre Menenio si preparava per marciare contro l'Etruria il campo sul Cremera fu preso e la stirpe dei Fabii distrutta.
19) Spiega Dionisio che si conoscevano due versioni della fine dei Fabii. Secondo alcuni i Fabii furono circondati e massacrati dai Veienti mentre, senza le dovute precauzioni, stavano tornando temporaneamente a Roma per offrire dei sacrifici tradizionalmente di competenza della loro famiglia. Racconto poco credibile secondo l'autore perchè i Fabii erano troppo esperti per comportarsi così ingenuamente, inoltre i sacrifici non avrebbero richiesto la mobilitazione dell'intera famiglia.
20) Secondo l'altra versione i Veienti avevano attratto numerosi Fabii fuori dal campo lasciando vagare del bestiame non sorvegliato e li avevano aggrediti. I Fabii si erano battuti uccidendo molti nemici poi si erano rifugiati su un'altura per la notte.
21) Il mattino seguente quanti erano rimasti nel campo seppero dei loro congiunti assediati e accorsero a aiutarli ma furono trucidati prima di arrivare all'altura. Gli assediati, che non avevano mezzi di sostentamento, si scagliarono fra i nemici e ne fecero strage ma alla fine furono sopraffatti. Anche i pochi che erano rimasti di guardia al campo vollero una morte gloriosa e resistettero finché anche l'ultimo di loro venne ucciso.
22) Assolutamente inventata, aggiunge Dionisio, è la notizia che della gens Fabia rimase solo un maschio in età infantile. Non è possibile che dei trecento partiti nessuno avesse un figlio piccolo, un fratello minore o una moglie incinta.
23) Poiché il campo del console Menenio si trovava a breve distanza dal luogo dell'eccidio, nacque il sospetto che il console non fosse intervenuto per gelosia, perciò fu citato in giudizio dai tribuni e condannato. Dopo la battaglia del Cremera, infatti, gli Etruschi si volsero verso il campo dell'esercito e lo assediarono. Menenio, che avrebbe avuto il tempo di trasferire il campo, non lo fece e quando si trovò circondato dai nemici che impedivano i rifornimenti portò l'esercito a combattere in posizione sfavorevole, tanto che gli Etruschi compirono un'altra strage.
24) Distratti dal saccheggio del campo romano, gli Etruschi persero l'occasione di inseguire i superstiti e sconfiggere quanti sarebbero usciti per difenderli. Il giorno successivo, tuttavia, marciarono verso Roma e arrivarono ad accamparsi sul Gianicolo (all'epoca esterno alle mura) e da quel colle presero a fare scorrerie nelle campagne.
L'arrivo del console Orazio con l'esercito che tornava dalla campagna contro i Volsci incoraggiò i Romani che uscirono dalle mura e sconfissero due volte gli Etruschi ad un miglio dalla città, presso il Tempio della Speranza e presso Porta Collina.
25) 476 a.C. Consoli Spurio Servilio e Aulo Virginio. I consoli continuarono la guerra contro Veio ma il problema peggiore erano i disordini in città a causa della carestia seguita agli eventi bellici dell'anno precedente che avevano ostacolato l'agricoltura. I consoli presero il controllo della situazione importando derrate e ordinando a chi ne aveva di distribuire le scorte.
26) Tardando gli approvvigionamenti si decise che fosse meglio affrontare il nemico che la fame, i consoli schierarono l'esercito durante la notte e all'alba iniziò la battaglia. Dopo lunghi scontri i Romani vinsero costringendo gli Etruschi a fuggire a Veio abbandonando il campo, tuttavia persero molti uomini e quando rientrarono in città la letizia per la vittoria fu offuscata dal dolore per le perdite. Il senato decretò i dovuti sacrifici ma non concesse il trionfo ai consoli.
Nei giorni seguenti arrivarono i rifornimenti e la situazione si normalizzò.
27) I tribuni Quinto Quintilio e Tito Genucio citarono in giudizio Menenio per l'esito infausto del suo consolato. Menenio, che era considerato responsabile della tragica fine dei Fabi sul Cremera, fu condannato ma in considerazione dei meriti del padre (il famoso Menenio Agrippa che aveva riconciliato patrizi e plebei) gli fu risparmiata la vita e la pena fu commutata in una pesantissima multa. Molti erano disposti ad aiutarlo a pagare ma Menenio, sconvolto dall'ingiuria, si chiuse in casa e si lasciò morire di fame. Lo sdegno dei patrizi per la condanna di Menenio e per la sua fine provocò nuove ostilità fra le classi.
28) Consoli Publio Valerio Publicola e Caio Nauzio (475 a.C.) Rischiò la condanna a morte anche Servilio, patrizio, console dell'anno precedente accusato da Lucio Cedicio e Tito Stazio di condotta temeraria per aver causato la perdita di molti uomini durante la battaglia con gli Etruschi.
I Patrizi tentarono in tutti i modi di difendere Servilio ma gli accusatori insistevano che la sua imprudenza e la sua imperizia avevano messo in pericolo l'intero esercito.
29-32) L'autodifesa di Servilio: sostenne di aver agito nel modo più opportuno in quella situazione e che la cattiva sorte aveva causato la disfatta. Se fosse stato più fortunato nessuno lo avrebbe accusato di imprudenza. Inoltre contestò ai tribuni suoi accusatori di agire per odio verso il patriziato, era ancora aperta la questione della distribuzione delle terre, sempre buona per sollevare il popolo.
33) Concluso il discorso di Servilio molti parlarono in sua difesa ma fu decisivo l'intervento di Virginio, l'altro console, che affermò che Servilio si era comportato con correttezza e coraggio in questa come in tutte le occasioni della sua vita e alla fine convinse i presenti. Anche i parenti dei caduti deposero il loro risentimento e infine Servilio fu assolto.
34) Non molto tempo dopo Veio si armò di nuovo alleandosi con i Sabini per la prima volta. Si attendevano rinforzi anche dalle altre città etrusche, il piano era l'assedio di Roma. Per prevenire il nemico il console Valerio attaccò notte tempo uno dei campi nemici, quello dei Sabini, e lo prese facilmente sfruttando la sorpresa.
35) Valerio marciò quindi contro il campo dei Veienti, ma questi erano preparati all'attacco e ormai era giorno, quindi la battaglia fu violenta e fece molte vittime. Dopo molte ore i Veienti ripararono nelle trincee ma furono circondati dai Romani e all'alba del giorno seguente molti fuggirono lasciando a Valerio anche il loro campo. In questi scontri di distinse Servilio console dell'anno precedente.
Spesi alcuni giorni nel saccheggiare i territori di Veio e dei Sabini, il console ricondusse in patria l'esercito carico di bottino e il senato decretò il trionfo.
L'altro console Caio Nauzio aveva indugiato nel muoversi perché voleva tenere la propria armata a disposizione di Valerio. Tornato Valerio, attaccò e devastò il territorio dei Volsci.
36) Consoli Aulo Manlio e Lucio Furio (474 a.C.) Fu sorteggiato Manlio per agire contro Veio. I Veienti si chiusero in città ma non ricevendo rinforzi dagli alleati mandarono i cittadini più importanti a trattare con il console. Ottennero, dietro pagamento di un anno di salario all'armata, si andare a Roma per trattare la pace con il senato. A Roma fu concordata una tregua di quarant'anni, Manlio rientrò con l'esercito e ottenne il trionfo.
37) Consoli (473 a.C.) Lucio Emilio Mamerco e Giulio Vopisco (Opitro Virginio secondo Livio). Non si avevano guerre esterne ma riprese l'agitazione popolare per la distribuzione delle terre fomentata dal tribuno Gneo Genucio. Questi pressò i consoli in carica ma non potendoli costringere perché la loro autorità superava la sua, passò ad accusare Manlio e Furio consoli dell'anno precedente citandoli in giudizio per non aver nominato i decemviri incaricati della distribuzione dei terreni.
38) Il processo preoccupò i patrizi che si prepararono a difendere gli ex consoli e a resistere con ogni mezzo ma il giorno prima dell'udienza Genucio fu trovato morto nel suo letto. Non presentava segni di violenza e la sua morte fu interpretata come un monito divino, il processo fu annullato e gli altri tribuni evitarono di riaprire la discussione. Tuttavia i consoli provocarono il popolo intimando una leva e colpendo i renitenti con multe e punizioni.
39) Durante la leva Publio Volerone che aveva avuto ottimi trascorsi militari ed era stato centurione, venne arruolato come semplice legionario. Protestò presso i consoli ma questi, irritati, ordinarono ai littori di spogliarlo e frustarlo. Volerone chiese, se era colpevole, di essere giudicato dal popolo ma non ottenendo risposte ed essendo molto forte, atterrò i littori che dovevano punirlo. Ne nacque un tumulto fra i presenti e i plebei aggredirono i consoli e i patrizi che si trovavano a passare in quel luogo. L'episodio ebbe la conseguenza di riaccendere vecchi contrasti, seguì un periodo di discordia e di agitazione politica.
40) Furono eletti consoli Lucio Pinario e Publio Furio (470 a.C.). Un'epidemia colpì le donne in gravidanza che partorivano feti immaturi e subito morivano. Secondo gli indovini si trattava della punizione divina per un sacrilegio. Si scoprì infatti che la vestale Orbilia aveva perduto la verginità e continuava a offrire sacrifici. Orbilia fu sepolta viva, uno dei suoi due amanti si suicidò, l'altro fu flagellato a morte e l'epidemia ebbe termine.
41) Publio Volerone, il centurione che si era ribellato quando i consoli lo stavano arruolando come legionario, fu eletto tribuno della plebe e subito propose una legge per trasferire le decisioni popolari ai comizi curiati ai comizi per tribù. La differenza era che i comizi delle tribù non necessitavano di un decreto di convocazione del senato e delle divinazioni degli auguri come i comizi curiati.
I senatori, i consoli e i patrizi erano ovviamente contrari e boicottarono la discussione della legge con interventi lunghissimi e altri espedienti.
42) Presto però le decisioni vennero sospese a causa di una furiosa epidemia che colpì l'Italia e Roma in particolare con tragiche conseguenze. Quando passò la carica di Volerone stava scadendo ma egli ottenne di essere rieletto. Da parte loro i patrizi promossero l'elezione consolare di un loro campione, Appio Claudio Sabino, che divenne console insieme a Tito Quinzio Capitolino (471 a.C.).
43) Appio Claudio propose subito di intraprendere una qualsiasi campagna militare per distogliere la plebe dalle sedizioni interne. Tito Quinzio era contrario e sosteneva che fosse più importante tenere le milizie pronte a contrastare eventuali attacchi nemici. Publio Volerone tornò a proporre la sua legge aggiungendo nuove regole tutte tese a inibire l'autorità del senato.
44-45) I consoli decisero di convocare il popolo per chiarire la situazione e indurlo con la persuasione a bocciare la proposta di Volerone. Il giorno stabilito davanti alla grande folla presente Quinzio parlò per primo e con parole ragionevoli ottenne l'attenzione di tutti e il favore di molti, ma il successivo intervento di Appio Claudio che parlò con superbia e arroganza attaccando la plebe e in particolare i tribuni fece di nuovo aumentare la tensione.
46) Ai consoli rispose il tribuno Caio Letorio che ricordò i sacrifici sofferti dalla plebe per il bene comune, le promesse mai rispettate, la secessione e il ritorno che era avvenuto a fronte di impegni che dovevano essere assolti.
47) Letorio passò a rispondere direttamente a Appio Claudio che aveva pronunciato minacce forte dell'autorità consolare, lo chiamò tiranno e nemico del popolo e annunciò che sarebbe passato dalla parole ai fatti.
48) Dopo aver giurato che avrebbe sostenuto la legge anche a costo della vita, Letorio ordinò che Appio fosse allontanato dall'adunanza e poiché il console rifiutava di andarsene, Letorio chiese che venisse arrestato. Rapidamente dalla discussione si passò alla rissa e solo Quinzio con i senatori più anziani riuscirono a separare i litiganti e a sciogliere l'assemblea. Nei giorni seguenti Appio Claudio e i suoi sostenitori continuarono a scambiare insulti e accuse con i tribuni mentre il popolo occupava il Campidoglio.
49) Quinzio riuscì a placare gli animi dei tribuni ma non quello di Appio che rimaneva inamovibile nel voler respingere ad ogni costo qualsiasi concessione alla plebe. Quinzio e Publio Valerio Publicola proposero di rimettere la questione al Senato, i senatori espressero voto positivo che fu ovviamente confermato dal voto popolare e la proposta di Volerone fu legge. Da allora tribuni e edili furono eletti dal popolo senza coinvolgere gli auguri e la religione.
50) Poco dopo i due consoli mossero contro Equi e Volsci che stavano depredando territori di alleati dei Romani. Quinzio marciò contro gli Equi, Appio contro i Volsci.
Quinzio, che poteva contare sull'obbedienza dei suoi soldati, entrò nel territorio nemico e lo saccheggiò senza che gli Equi osassero reagire. I soldati di Appio, invece, per odio verso il loro comandante, ne boicottarono l'impresa rifiutando di combattere o fuggendo davanti al nemico finché il console fu costretto a ritirare le sue truppe dalle terre nemiche. Applicando le leggi con il massimo rigore, Appio fece uccidere la decima parte dei suoi soldati.
51) Furono eletti consoli Lucio Valerio, per la seconda volta, e Tiberio Emilio (468 a.C.). I tribuni ripresero a chiedere che si mantenessero le promesse del senato riguardo alla divisione delle terre e i consoli, questa volta, si unirono alle loro richiesta. In senato fu riaperto il dibattito e per primo parlò Lucio Emilio, padre del console Tiberio, dichiarandosi favorevole alla divisione delle terre.
52) Parere contrario fu espresso da Appio Claudio, il console dell'anno precedente, che sostenne che il decreto di divisione delle terre non era mai stato eseguito perché avrebbe avuto conseguenze negative e ribadì la sua avversione. Obiettò inoltre che i consoli Valerio e Emilio non erano tenuti a eseguire l'ordine che i consoli di molti anni prima avevano ricevuto dal senato.
53) Appio Claudio sostenne che l'assegnazione dei terreni non avrebbe mutato il comportamento di quanti si lamentavano e protestavano per costume più che per bisogno. Infine concluse il suo discorso con un'invettiva contro i soldati che non avevano eseguito i suoi ordini ed erano fuggiti di fronte ai Volsci.
54) I tribuni decisero di colpire Appio Claudio intentando un processo contro di lui con varie accuse tra cui quella di aver comandato l'esercito in modo infame provocando sciagure.
Dopo aver rifiutato di difendersi e aver respinto quanti si offrivano di intercedere per lui, Appio Claudio si uccise. I tribuni tentarono di impedire al figlio di pronunciare l'orazione funebre ma il popolo non lo permise e Appio Claudio ebbe le consuete onoranze.
55) I consoli arruolarono le milizie per combattere, Lucio Valerio contro gli Equi, Tiberio Emilio contro i Sabini. Valerio tentò di assediare il campo degli Equi ma ne fu dissuaso da una tempesta che si placò solo quando ebbe fermato l'avanzata dell'esercito. Interpretata la tempesta come un segnale della volontà degli dei, Lucio Valerio rinunciò all'assedio, saccheggiò la campagna e ricondusse l'esercito in patria.
Intanto Emilio combattè una lunga e inconcludente battaglia contro i Sabini.
56) L'anno seguente (467 a.C.) furono eletti consoli Aulo Virginio Celimontano e Tito Numicio Prisco che dovettero subito affrontare i Volsci che erano arrivati vicino Roma. Quando giunsero sul posto i nemici erano già andati via. Nei giorni successivi uscirono di nuovo, Virginio contro gli Equi e Numicio contro i Volsci.
Virginio riportò la vittoria sugli Equi e Numicio conquistò una cittadella dei Volsci sul mare che comprendeva un arsenale, armi e ventidue navi.
57) 466 a.C. Consoli Tito Quinzio Capitolino e Servilio Prisco. Servilio saccheggiò il territorio dei Sabini senza che questi uscissero per combattere. Quinzio si trovò ad affrontare un'armata di Equi e Volsci e rischiò la disfatta ma, arringando ai soldati, riuscì a infondere coraggio prima all'una poi all'altra ala del suo esercito.
58) I Romani vinsero la battaglia ma non inseguirono i nemici. Alcuni giorni dopo Equi e Volsci, raccolte nuove reclute, circondarono il campo di Quinzio ma furono sopraffatti dal coraggio dei Romani che uscirono improvvisamente dal campo. Questa volta i romani inseguirono i nemici e saccheggiarono il loro campo. Quinzio attaccò Anzio che gli si arrese e, tornato a Roma, celebrò il trionfo.
59) 465 a.C. Consoli Tiberio Emilio e Quinto Fabio. Il senato decise di distribuire ai poveri una parte del territorio conquistato l'anno precedente agli Anziati. Tito Quinzio Capitolino, Lucio Furio e Aulo Virginio furono incaricati della suddivisione dei terreni, ma il popolo non gradì l'iniziativa considerandola un pretesto per espellere da Roma i meno abbienti, perciò i terreni vennero concessi a Ernici e Latini.
Intanto Emilio marciò nelle terre dei Sabini e Fabio in quelle degli Equi. Emilio non incontrò nemici con cui combattere e tornò a Roma. Fabio trattò la pace con gli Equi con delega del senato.
60) 464 a.C. Consoli Spurio Postumio Albino e Quinto Servilio Prisco (seconda volta). Gli Equi, violando i recenti trattati con i Romani presero a saccheggiare i terreni dei Latini insieme ai profughi anziati. Il senato inviò tre ambasciatori per chiarire la situazione ed ottenne la consegna dei colpevoli ma gli Equi presero tempo. Tornati a Roma gli ambasciatori senza aver nulla concluso, il senato mandò i Feziali per dichiarare guerra ma per quell'anno non inviò milizie contro gli Equi. A Roma Spurio Postumio dedicò il tempio di Giove costruito sul Campidoglio da Tarquinio il Superbo.
61) 463 a.C., consoli Tito Quinzio Capitolino e Quinto Fabio Vibulano. Il console Fabio combattè contro gli Equi una lunga battaglia cui seguirono altri brevi scontri. Quando Fabio seppe che una parte dell'armata degli Equi compiva incursioni notturne in territorio romano tese una trappola ai saccheggiatori riportando la vittoria su di loro.
62) 462 a.C. consoli Aulo Postumio Albo e Spurio Furio. Ambasciatori latini riferirono segnali di pericolo provenienti dagli Equi e dagli Anziati. Gli Ernici denunciarono un'armato di Equi e di Volsci penetrata nel loro territorio. Il senato mandò milizie presso gli Anziati e gli Equi per controllare la situazione. Spurio Furio incontrò gli Equi ma non accettò la battaglia e i nemici ne furono incoraggiati.
63) Il console scrisse a Roma chiedendo rinforzi e un primo contingente fu subito inviato, lo comandava Tito Quinzio con autorità proconsolare. Aulo Postumio lo avrebbe al più presto raggiunto dopo aver reclutato altre milizie. Gli Equi attaccarono il campo romano prima dell'arrivo dei rinforzi e dopo una giornata di battaglia riuscirono a circondare il console Furio che era uscito dal campo con mille uomini. A Furio fu proposta la resa ma i Romani respinsero l'invito e combatterono fino alla morte.
64) Il giorno seguente gli Equi attaccarono nuovamente il campo romano e con assalti ripetuti uccisero molti soldati. A sera i Romani stavano per cedere quando giunse Quinzio con i rinforzi e mise in fuga gli assedianti.
65) Intanto altre milizie di Equi e di Volsci andarono a saccheggiare le campagne delle regioni più lontane dal campo romano ma furono sorprese dal console Postumio, che aveva radunato altri armati per soccorrere il collega, e furono sconfitti subendo molte perdite.
66) Quando furono informati della disfatta subita dai saccheggiatori, anche quanti assediavano il campo romano abbandonarono la posizione e, inseguendoli, i Romani ne uccisero molti. Anche i Romani, tornando in patria, contarono molti caduti.
67) 461 a.C. - Consoli Lucio Ebuzio e Publio Servilio Prisco. Gravissima epidemia a Roma, ne approfittarono Equi e Volsci per riprendere le armi e invadere i territori dei Latini e degli Ernici. Questi mandarono ambasciatori a Roma per chiedere aiuti ma il console Ebuzio<7a> era morto e Servilio malato. I senatori autorizzarono Latini e Ernici a combattere per difendersi I Latini si limitarono a vigilare sulle mura delle loro città mentre gli Ernici vollero combattere anche nei campi e in diverse battaglie molti uccisero e molti furono uccisi.
68) Equi e Volsci, dopo aver depredato anche territori dei Tuscolani e dei Sabini, puntarono su Roma. Nonostante la malattia e la morte dei consoli, i Romani si disposero a difendere le mura. I colli e il Tevere difendevano Roma su più lati, il tratto più debole andava dalla porta Esquilina alla porta Collina, ma era protetto da un fossato e da solide fortificazioni. I Romani si schierarono lungo questo tratto e respinsero tutti gli assalti dei nemici i quali tornarono in patria senza essere riusciti nel loro intento.
69) Furono eletti consoli Lucio Lucrezio e Tito Veturio Gemino (462 a.C.). Terminata l'epidemia, il senato decise di fare guerra a chi aveva attaccato Roma durante la malattia. Un terzo dell'esercito rimase a guardia di Roma al comando di Quinto Fabio, il resto seguì i consoli contro Volsci e Equi. Lucrezio attaccò gli Equi, Veturio i Volsci.
70) I Volsci uscirono a combattere ma fuggirono alla vista dell'armata romana, i Romani li inseguirono e ne uccisero molti. I comandanti di Equi e Volsci decisero di marciare verso Roma con lo scopo di allontanare le milizie romane dai loro territori.
71) Arrivati nei pressi di Tuscolo, Equi e Volsci si fermarono a depredare le campagne. Furono attaccati da Lucio Lucrezio e combatterono con valore ma, quando scese in campo anche l'armata dell'altro console, furono costretti a fuggire.
Lucrezio e Veturio devastarono le terre dei nemici e tornarono a Roma dove entrambi celebrarono il trionfo.